IL TRADITORE di Marco BellocchioE' un film bello e interessante Il traditore, ma non facile da definire. Il personaggio centrale d'altra parte, nella sua apparente monoliticità, è in realtà un personaggio poliforme: boss dei due mondi, mafioso e nemico della mafia, uomo d'onore e infame, dalle identità e dai nomi multipli e variabili, che modifica il suo stesso viso con la plastica facciale E' un film-ritratto. Tommaso Buscetta è al centro di tutto lo sviluppo drammaturgico. Le sue testimonianze sono state il punto di svolta della lotta dello Stato contro la mafia. Il film, dopo il prologo siciliano e con qualche flashback inserito nella narrazione, ne segue le vicende dall'arresto in Brasile, dove viene interrogato e torturato, all'estradizione in Italia, dove conosce il giudice Falcone, con il quale istituisce un rapporto di fiducia (e reciprocamente strumentale: il giudice usa Buscetta per combattere la criminalità organizzata, il mafioso usa Falcone anche per vendicare i figli rapiti e uccisi dal clan dei corleonesi), lo segue durante il periodo della sua collaborazione con la giustizia, nei tribunali dei processi che lo vedono accusare prima una buona fetta della mafia siciliana, poi Andreotti e figure di vertice della DC, infine nella parte finale della sua avventura umana sino alla morte. Bellocchio evita di gettare ombre sul personaggio, gli toglie ambiguità, facendo ampio credito alla sua sincerità e perfino alla sua moralità di integerrimo “uomo d'onore”, disgustato dalla nuova mafia di Totò Riina e dal traffico della droga, cui don Masino si dichiara estraneo. Ma è anche un film corale, che mette in scena un gran numero di personaggi, e che nelle scene di confronto tra Buscetta e Calò e tra Buscetta e Riina mette protagonista e deuteragonisti sul medesimo piano di dignità drammaturgica. E' un film storico, che documenta una fase della storia italiana, mette in scena personaggi ed eventi reali, rifacendosi presumibilmente ai verbali processuali, e finanche una rappresentazione in semisoggettiva della strage di Capaci. Come in ogni film storico che si rispetti, le didascalie ci informano, appunto didascalicamente, su luoghi e epoche dei fatti narrati. Ma è anche un film satirico. A proposito di didascalie, non può che definirsi ironico e quasi parodistico il conta-ammazzamenti che scorre vertiginosamente e vistosamente in sovrimpressione sullo schermo, mentre la guerra di mafia fa i suoi morti a tutto schermo. E' un film realistico, per i motivi ovvi di cui si è detto, ma è anche un film che rifiuta la mimesi pedissequa (come mostra la clamorosa mancanza di somiglianza fisica dell'attore che interpreta Giulio Andreotti). E' un film che sfiora il genere (il mafia-movie con molti dei suoi topos), ma nello stesso tempo è un film d'autore, segnato ad esempio dalle fughe oniriche tanto care al cinema di Bellocchio. E' un film con scene d'azione e di violenza, ma è anche un film con un netto stampo teatrale, come nelle scene del tribunale, o come denuncia l'enfasi della colonna sonora (le musiche originali sono firmate da Nicola Piovani). E' un film dallo sviluppo narrativo piuttosto lineare, ma che non rinuncia ai flashback, come quello che all'ultimo secondo rimette tardivamente in questione il giudizio morale sul personaggio, e che si conclude in calando con un anticlimax. Non è un film citazionista, ma si apre con una sequenza di festa che sembra un incrocio tra Il Gattopardo e Il Padrino. E' un film da mattatore (con un Favino che ha convinto praticamente tutti e che avrebbe potuto anche degnamente vincere la Palma d'oro a Cannes, strappatagli invece dal Banderas di Amor y gloria), ma offre ottime occasioni d'attore anche ad altri interpreti, come l'irresistibile Lo Cascio nei panni di Totuccio Contorno, o Ferracane in quelli di Pippo Calò. E' in definitiva un film vitale, che scarta dalla prevedibilità di una vicenda comunque già nota, apparentemente semplice nella sua costruzione drammaturgica ma animato da continui piccoli scarti che spiazzano leggermente lo spettatore, conducendolo attraverso un racconto già storicizzato eppure sorprendendolo continuamente con lievi torsioni.
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ROCKETMAN di Dexter FletcherAl termine della sequenza dei titoli di testa di Bohemian Rhapsody la mdp, dopo averne mostrato la vestizione, segue alle spalle Freddie Mercury lungo un ultimo tratto di corridoio, in ralenti: dopo qualche gradino è sul palco e davanti a lui si spalanca la visione vertiginosa dello stadio di Wembley gremito di folla all'inverosimile. Rocketman, film biografico dedicato alla figura di Elton John, inizia in modo simile; un altro corridoio, una figura avanza in ralenti, in controluce, stavolta dirigendosi verso la mdp. Indossa un abito di scena, una sorta di angelo-demone: una tuta aderente arancio, con corna ritorte sul capo e ali di piume rosse e nere alle spalle. Ma il suo incedere solenne e misterioso non approda ad un palcoscenico, o meglio non a quel tipo di palco. Entra invece in una sala dove delle persone siedono in circolo, si lascia cadere su una sedia, e, gli occhi nascosti da occhiali dalle lenti rosate e la montatura ricoperta di strass, prima dichiara le sue addictions (ad alcool, droga, ecc.), poi comincia a raccontarsi (mentendo). Materializzato dai suoi ricordi, nella sala compare un bambino. E' Elton da piccolo, ovvero, come si chiamava allora, Reginald. Elton si alza, lo segue, spalancano una porta, si ritrovano in una strada suburbana dell'Inghilterra degli anni '50, dove i passanti si mettono a cantare e ballare. In pochi minuti le attese dello spettatore sono state più volte ribaltate, e il film passa disinvoltamente da una dimensione spaziale all'altra, mescola e sfasa i piani temporali, raddoppia la presenza del protagonista in scena, passa da un'atmosfera onirica a una situazione bizzarra ma realistica, poi salta a piedi pari dentro le convenzioni del genere musical. In effetti Freddie Mercury e Elton John hanno diversi punti in contatto (l'origine britannica – malgrado l'origine parsi e la nascita africana di Mercury - il successo travolgente, addirittura lo stesso agente discografico, il dominio delle classifiche lungo tutti gli anni '70, la fortissima presenza scenica, l'omosessualità dichiarata, l'uso di droghe, la partecipazione al Live Aid dell'85, ecc.) e Bohemian Rhapsody e Rocketman seguono uno sviluppo narrativo con una moltitudine di punti in comune. Il rapporto con la famiglia, la scoperta della propria bi-omo-sessualità, il relativo coming out, gli esordi musicali e i primi tentativi, la scoperta, la scelta del nome d'arte, il rapporto con gli agenti, l'esaltazione travolgente del successo internazionale, l'accordo e i disaccordi con i colleghi (i Queen per Mercury, Taupin per Elton John), i tradimenti degli agenti (nei due possibili sensi), la sessualità promiscua, lo stress, la crisi creativa ed esistenziale, sono tutti topos comuni ai due film (e quale più quale meno a tanti altri success e rock movies). Rocketman in quest'ottica soffre l'handicap di essere arrivato per secondo, sicché corre il rischio di suonare ripetitivo rispetto all'altro titolo uscito nella stessa stagione. La situazione è poi ulteriormente complicata dal fatto che Dexter Fletcher (che è stato anche un bambino prodigio, che ha cominciato a recitare a nove anni in Piccoli Gangsters), ha curato anche il completamento di Bohemian Rhapsody, dopo che il regista accreditato, Bryan Singer, aveva lasciato il set per motivi non del tutto chiari. Eppure, per fortuna, Rocketman non è semplicemente la replica del film sul leader dei Queen, e trova i suoi momenti migliori proprio nelle aperture fantastiche e oniriche, come l'ironica sequenza descritta all'inizio, o quando Elton piomba in una piscina dove annegherebbe volentieri per trovare sul fondo se stesso bambino intento a suonare al pianoforte, o quando vola davanti alla tastiera del pianoforte (immortalato da immagini dell'epoca), con tutto il pubblico che levita intorno a lui sollevandosi dal suolo. L'energia, la follia, il gusto per il travestitismo e l'eccesso di Elton John (che ha voluto e prodotto il film; e tanto per rimanere in famiglia, uno degli altri produttori, Matthew Vaughn, ha già diretto Egerton nei Kingsman) giustificano pienamente le fughe al di fuori del realismo e della routine del rock movie. Le stesse memorabili canzoni di Elton John sfuggono alla sua voce, per correre alla bocca di Taron Egerton, a quella di Kit Connor (il Reggie futuro Elton), a quelle degli altri attori (tra cui spicca la mamma femminile e inguaribilmente egoista interpretata da Bryce Dallas Howard - figlia di Ron!) che dialogano tra loro in I Want Love o folleggiano per le strade in The Bitch Is Back. Alla fine i destini di Freddy e Elton (ovvero di Farrokh e di Reginald) divergono: con la tragica uscita di scena del primo e il beffardo happy end insieme borghese e camp del secondo, padre e sposo raggiante di felicità nelle foto dei titoli di coda. DOLOR Y GLORIA di Pedro AlmodóvarFederico Fellini per girare il suo 8 1/2, film della genialità che si arena nella crisi per uscirne con genialità, ha aspettato il suo 43° anno d'età e il suo ottavo film (e mezzo). Pedro Almodóvar, per girare il proprio 8 1/2, in cui la gloria scolora in dolore per poi trascendere in nuova gloria, attende di essere sulla soglia dei 70 anni e il 22° titolo (oltre a una decina di cortometraggi) di una filmografia iniziata alla fine degli anni '70. Fellini raccontava, nello splendido bianco e nero del 1963 firmato Gianni De Venanzo e sulle note del fido musicista Nino Rota, del suo Guido, di professione regista: dei primi affanni dell'età (un affaticamento cardiaco), della crisi creativa che lo spingeva sulle secche di un film senz'anima né senso, del ripiegamento su se stesso che lo induce a ripensare alla propria infanzia e ai propri genitori, del confronto con moglie, amante e con le donne del desiderio, anche in chiave onirica, della bella confusione che si tramuta in creazione, arte, vita, cinema. Almodóvar racconta con colori nitidi e sulle note del fido musicista Alberto Iglesias (qui non sempre convincente), racconta del suo Salvador, di professione regista: di un corpo ormai provato afflitto da una serie di malattie, della crisi creativa che spegne in lui qualsiasi desiderio di creare e che lo fa esitare a concedere persino uno scritto già pronto per essere trasformato in teatro, del ripiegamento su se stesso (favorito anche da un tardivo approccio all'eroina) che lo spinge a rievocare la propria infanzia e il rapporto con la madre (l'ennesima figura materna dei film di Almodóvar), del confronto, diretto o mediato dal ricordo, con gli uomini importanti della propria vita, della depressione che sfocia di nuovo in desiderio di rinascita, in voglia di rimettere e rimettersi in scena, che produce infine arte, cinema. Fellini veniva dall'enorme, ingombrante successo (anche di scandalo, nell'Italia bigotta del dopoguerra) de La dolce vita; Almodóvar da un passato di scandaloso e irriverente enfant terrible nella Spagna postfranchista, già da tempo però impegnato in un percorso penitenziale e non privo di episodi autobiografici (La mala educacion tra gli altri). E' ormai lungo infatti il percorso che allontana sempre di più il terribile Pedro dalle commedie colorate e disinibite, chiassose e chiacchierone, degli anni '70-80. Il suo è da tempo un cinema abitato da un melodramma doloroso e raffreddato e da personaggi dolenti e feriti. L'unico suo tentativo di tornare alla commedia scollacciata e spensierata, ha dato luogo ad uno dei suoi film peggiori in assoluto, Gli amanti passeggeri. Lo stile e il ritmo registico, sia nella scrittura che nell'impaginazione visiva, si sono adeguati al nuovo corso. In Dolor y gloria gli elementi romanzeschi, ancora prepotenti in titoli come Volver o La pelle che abito, e comunque presenti in titoli come Gli abbracci spezzati o l'ultimo Julieta, sono ridotti ai minimi termini; così l'elemento autobiografico si spoglia delle bizzarrie presenti in titoli come Tacchi a spillo o Tutto su mia madre. Nel film predominano le scene di dialogo a due personaggi, in esterni luminosi o in interni ben illuminati, con una fotografia nitida e cristallina, dove unicamente gli arredi vintage e qualche squillo di rosso vivacizzano gli ambienti e le inquadrature. Solo nelle grotte in cui il piccolo Salvador ha l'epifanica, scioccante rivelazione della propria omosessualità, il film sembra riscaldarsi un attimo, provare qualche brivido di febbre. Per il resto Almodóvar punta all'essenziale, a mettersi a nudo (anche se a farlo letteralmente è solo il giovane operaio la cui vista turba il bambino imprimendo una svolta alla sua identità sessuale) proponendo un'immedesimazione con il suo alter-ego affidato al suo attore feticcio Antonio Banderas (raramente così intenso e compreso nel personaggio), così come Fellini lo affidava al proprio, nella persona di Marcello Mastroianni. Il film si chiude su un corto circuito, una mise en abyme che rimescola cinema e realtà. D'altra parte, come già in altri film (ad esempio il bellissimo Parla con lei: a chi ha amato questo film consiglio la lettura del mio saggio “Il teatro del desiderio”, su SegnoCinema n. 116), i personaggi del film si ritrovano ad un certo punto in platea, commossi dallo spettacolo cui stanno assistendo. Almodóvar vorrebbe precisamente che al di qua dello schermo noi spettatori ci rispecchiassimo in loro: che anche noi, immobili nel tempo e nello spazio sospesi della visione, provassimo la stessa empatia con i personaggi di cui stiamo seguendo le vicende, fino ad inumidirci gli occhi delle lacrime di una passione intensa e dolorosa che ciascuno di noi può fare propria attraverso il luminoso e magico tranfert del cinema. 5 CM AL SECONDO (Byosoku go senchimetoru) di Makoto ShinkaiIl tempo insieme dei giovanissimi Takaki e Akari, confinato nelle prime suggestive ed ellittiche del film, al tempo dei ciliegi in fiore, quando i petali si distaccano dai rami degli alberi e cadono lentamente come fiocchi di neve. Quindi è subito il tempo del distacco. Akari segue la famiglia in una città lontana, e la distanza e il tempo separano i due. Tempo e distanza attraversati solo dalle lettere che si scambiano, a tenere desta nella vita che continua nonostante tutto la nostalgia e il desiderio di rivedersi. Trascorrono le stagioni, finché Takaki riesce a programmare un viaggio per andare a trovare l'amata compagna. Ma, ancora una volta, lo spazio e il tempo congiurano contro il loro amore. Una nevicata eccezionale rallenta le linee ferroviarie, mette in forse le coincidenze, rischia di vanificare l'appuntamento fissato. Tempo e distanze implodono, si dilatano a dismisura. Tra tabelloni ferroviari e sguardi angosciati all'orologio, il montaggio e le inquadrature alternano i campi lunghi, con il lento inesorabile cadere dei fiocchi di neve, e i dettagli prosaici e allucinati delle stazioni e dei treni, dove Takaki è una presenza immobile e impotente, sempre più afflitta e rassegnata. Quello di Takaki e Akari è un incontro nato sotto il segno dello scacco, dove, se un incontro ci sarà, sembra già il preludio di un nuovo distacco. Il capitolo dei fiori di ciliegio è solo il primo dei tre segmenti di cui si compone 5 cm al secondo, forse il più bello e intenso, in cui è già pienamente dispiegata la poetica di Makoto Shinkai, oggi probabilmente il nome di punta dell'animazione giapponese, indicato come l'erede di Hayao Miyazaki, qui al suo secondo lungometraggio, girato nel 2008 ma solo in questi giorni distribuito su grande schermo in Italia, accompagnato dal cortissimo Cross Road del 2014. D'altra parte, tutto era già racchiuso nel titolo, apparentemente arido come una formula matematica. 5 cm al secondo è la velocità con cui discendono verso il suolo i petali di ciliegio, e nel titolo c'è già tutto: il tema del tempo e della distanza, la poesia ma soprattutto la caducità delle cose terrene. La bellezza, la poesia, l'amore: anche tutte le cose più belle che la vita ci possa offrire sono destinate a sfiorire, a cadere e a consumarsi. Siamo immersi nell'ukiyo-e, nel mondo fluttuante che gli artisti giapponesi da secoli cercano di fissare precariamente sulla carta (Un artista del mondo effimero si intitola un romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro): all'uomo non resta che cercare di godere dei momenti di effimera felicità che gli possono essere concessi, nella consapevolezza dolorosa e struggente della precarietà degli affetti e delle cose, dell'impermanenza del nostro essere nel mondo (i latini e i pittori europei la chiamavano vanitas). Nel secondo capitolo (qualcuno erroneamente parla di “episodi”, ma i vari segmenti sono collegati dagli stessi protagonisti e da una sia pur ellittica continuità narrativa), Cosmonauta, ritroviamo Takaki, ancora solo. La giovane Kanae, non più bambina e non ancora donna, è perdutamente, dolorosamente innamorata di lui, ma non osa parlargli del proprio amore. Mentre i razzi partono per il cielo, Kanae si rende conto che il gentile Takaki è sideralmente lontano da lei e dai suoi sentimenti, perduto a sua volta in un rimpianto insanabile. Nel secondo capitolo la passione di Shinkai per i cieli fantasmagorici esplode, complice anche la sua propensione per i temi fantascientifici, qui appena allusi dal titolo metaforico del capitolo e dalla scena della partenza del razzo. Quello che mi stupisce sempre nell'animazione giapponese contemporanea tuttavia è l'enorme sproporzione tra la resa dei paesaggi, delle ambientazioni (con un raffinatissimo uso del "fuori fuoco"), della resa dei materiali, delle luci (vera punta di eccellenza dell'animazione nipponica), e lo stile invariabilmente naïf della resa della figura umana, con la rappresentazione stereotipata e piuttosto piatta dei personaggi. 5 cm al secondo non fa eccezione alla regola; i personaggi sono le solite figurette interscambiabili con i grandi occhioni e i nasi appuntiti, mentre paesaggi e cieli sono un tripudio di bellezza, di splendore e di poesia visiva. Resta da dire del terzo capitolo, che porta lo stesso titolo del film e che conduce rapidamente alla conclusione, utilizzando in un montaggio serratissimo diverse inquadrature dei segmenti precedenti. Takaki è ora un giovane adulto; l'amore per Akari appartiene forse al passato, eppure una donna intravista a un passaggio a livello ha ancora il potere di fargli battere il cuore. L'episodio conclusivo è forse il meno compiuto e convincente. Si esce un po' insoddisfatti, con la voglia di vedere di più, di prolungare un po' i 63 minuti di durata della narrazione. Ma bisognerà “accontentarsi” dei successivi film di Shinkai. IL GRANDE SPIRITO di Sergio RubiniConfesso che ero un po' prevenuto. L'egotismo di Rubini sommato al fintotontismo di Papaleo in salsa apulo-lucana, con un Papaleo farsesco travestito da indiano metropolitano come in un carnevale molto molto fuori stagione non mi allettavano più di tanto. E invece. E invece Rubini regista mescola abilmente generi e stili, fondendo la commedia di caratteri, sottogenere strana coppia, con un thriller urbano con sfumature western (pafrasando una celebre regola letterario-cinematografica, se in un film viene mostrato un tomahawk, si può stare certi che quel tomahawk prima o poi verrà usato) e allusioni sociologiche. E invece Rubini attore può tranquillamente dare sfogo al suo ego, vincendo facile (?) nel confronto con un minorato mentale; e Papaleo può tranquillamente fare il naïf, interpretando una persona con disturbi psichici che vive arroccato su un tetto credendosi un pellerossa accerchiato dai bianchi. Il primo, Tonino, è un rapinatore di mezza tacca, che ha fregato i complici scappando con tutto il bottino; il secondo, Renato-Cervo Nero, un fuori di testa che vive in un abbaino in cima a un tetto, dove il malvivente trova rifugio. Il film gioca abilmente su una dialettica tutta in verticale, su linee ascendenti e discendenti, tra la strada regno di Gomorra, percorsa dalle auto della polizia e dalle gang criminali in lotta tra loro, disposte ad uccidere e a morire per denaro, potere e controllo del territorio, e i tetti, una sorta di riserva indiana assediata dall'avidità e dalla violenza, sedicenti praterie celesti dove è il Grande Spirito e non la cupidigia a governare i destini degli uomini. Ben scritto (con uno strafalcione iniziale che mal dispone: i cattivi non solo capiscono non si sa come che il fuggitivo si è rifugiato sui tetti, ma altrettanto non-si-sa-come individuano subito l'edificio giusto), anche per le cose che lascia fuori o ai margini (il rapporto col figlio che non si sblocca, la donna dei tetti che non interviene nel finale, la tematica dell'Ilva e dell'inquinamento ambientale e morale che avvelena Taranto che rimane relegata – benché sottolineata – sulla linea dell'orizzonte), recitato in buona parte in dialetto tarantino, ben interpretato, con apporti tecnici di prima qualità, dalla fotografia (Michele D'Attanasio ha già curato tra l'altro la fotografia spaghetti-noir di Jeeg Robot, le serie Gomorra e Rocco Schiavone) alla scenografia, al montaggio, alla musica di Ludovico Einaudi, ben diretto (anche nelle scene d'azione), a Il grande spirito si può però addebitare un peccato originale e non immediatamente evidente: la non originalità. Il rapinatore che agli occhi di una persona minorata psichicamente assurge ad una statura mitica l'avevamo già visto in un altro film italiano recente: appunto il già citato Lo chiamavano Jeeg Robot: là era la ragazza appassionata di anime giapponesi, qui lo sciroccato appassionato alla mitologia dei nativi americani; là una Roma col Tevere inquinato, qui una Taranto accerchiata dalle ciminiere; là Jeeg Robot e qui l'Uomo del destino; là il romanesco, qui il tarantino; là lo Zingaro, il Biondo, Sperma, qui il Pescatore, lo Slavo, il Grossone. Si potrebbe continuare con la ricerca delle analogie, ma mi fermo qui. D'altra parte il film di Mainetti si chiudeva con l'immagine di Jeeg Robot appollaiato su un cornicione; adesso lo sappiamo: non stava scrutando l'orizzonte, stava aspettando Cervo Nero e l'Uomo del destino. Se vuoi saperne di più, leggi la mia recensione sul numero di luglio di SegnoCinema (nelle librerie Feltrinelli e dello spettacolo). CAFARNAO - CAOS E MIRACOLI (Cafarnaum) di Nadine LabakiDagli interni del microcosmo ambrato e caramellato (ma paradigmatico delle problematiche femminili nel Libano contemporaneo) di Caramel e dagli spazi aperti e rurali (ma metaforici della conflittualità latente e sempre pronta ad esplodere nel Medio Oriente) di E adesso dove andiamo?, il cinema di Nadine Labaki si sposta nelle strade caotiche di una Beirut abbrutita e ostile. Lungo le strade della città si aggira Zain, un dodicenne che sembra ancora più piccolo della sua età (in effetti non esiste nessun documento atto a dimostrarla, perché non è mai stato registrato all'anagrafe), fuggito dalla casa e da una famiglia che non se ne cura, dopo che quest'ultima ha barattato la figlioletta appena mestruata, data in sposa a un commerciante del quartiere in cambio di un po' di cibo. Per gli stessi ambienti si aggira Rahil, un'immigrata clandestina con un figlio piccolo, che nasconde nei gabinetti mentre lei fa le pulizie negli uffici. C'è un venditore del mercato disposto ad aiutarla: basterebbe solo che lei gli cedesse il piccolo Yonas, merce pregiata nel mercato delle adozioni. Il mondo che ci mostra Labaki è un mondo spietato (anche se la regista e sceneggiatrice ci risparmia gli aspetti più truculenti: lo stesso atto di violenza che è alla base dello sviluppo drammaturgico rimane fuori scena), dove si fa fatica a stabilire chi sta peggio, a definire una gerarchia della sfortuna, della miseria, dell'assenza di speranza e di prospettive, tra poveri e disperati, profughi e immigrati, donne e madre disperate, ragazzine e bambini venduti, ragazzini costretti a vivere di espedienti in mezzo alla sporcizia e all'indigenza, neonati privi di tutto e prima di tutto di futuro. Con la complicità del suo piccolo combattivo protagonista, la Labaki gira un film veemente, appassionato, indignato, che corre, si incazza, si perde nel labirinto brutto, sporco e cattivo del cafarnao, dove l'unico supereroe concepibile è un uomo-scarafaggio. Zain, pieno di forza di carattere e di volontà, di intelligenza e di spirito d'iniziativa, altrove sarebbe un ragazzo pieno di talento e di prospettive; ma lì dove per caso è nato e si è trovato a vivere è solo un vuoto a perdere, un piccolo straccione della cui scomparsa nessuno si accorgerebbe. La regista non adotta uno sguardo ad altezza di bambino per indurre all'immedesimazione, ma chiede invece allo spettatore di guardare ad occhi bene aperti e responsabili una realtà diffusa in tutto il mondo, ma che si preferirebbe ignorare. Oggetto dello sguardo della macchina da presa e dello spettatore, Zain passa in un certo senso dall'altra parte dello sguardo durante le scene del processo, in cui, stavolta, è lui a guardare, ad accusare, a puntare lo sguardo verso gli altri e a rinfacciargli le rispettive responsabilità. La cornice processuale, che deriva da un'iniziativa dello stesso indomabile Zain, già incarcerato, che denuncia i propri genitori di averlo messo al mondo senza avere la possibilità né la voglia di curarsene, è forse la parte meno convincente del film, ma serve all'autrice per dare una visione più sfaccettata della realtà, dove ognuno ha la possibilità di esporre le proprie ragioni, dando una visione meno manichea dei personaggi. Il ragazzino protagonista (Zain al-Rafeea) si impegna allo spasimo a rendere l'energia disperata ma vitalistica e orientata al bene del proprio personaggio; ma è addirittura prodigioso come l'infante Yonas (il piccolissimo Boluwatife Treasure Bankole) riesca ad essere sempre – inconsapevolmente - perfettamente adeguato alle situazioni rappresentate (diamogli un Oscar o premio equivalente subito, così non ci pensiamo più). Come succede spesso con i film (e probabilmente con gli stili di recitazione) non occidentali, un punto debole è invece il doppiaggio, che non si sa perché ma in questi casi suona sempre un po' forzato e innaturale. Avrei preferito vedere il film con sonoro originale e sottotitoli; magari mi sarei perso qualche sfumatura di testo, ma avrei preferito sentire Zain inveire con parole sue; secondo me la visione ne avrebbe guadagnato in termini di naturalezza e di realismo. STANLIO E OLLIO (Stan & Ollie) di John S. BairdDevo dire che sono andato a vedere Stanlio e Ollio con un po' di timore. Perché non solo Stanlio e Ollio mi hanno fatto molto ridere, ma io a Stanlio e Ollio gli voglio bene. Non c'è penso nessun altro personaggio del mondo del cinema, maschi e femmine, a cui voglio bene come voglio bene a Stanlio e Ollio. Come a due zii strambi e nient'affatto intelligenti, ma fondamentalmente buoni e troooppo simpatici. Temevo perciò il classico biopic malevolo, che rivela vizi e debolezze di personaggi verso i quali nutrivamo grande stima, raccontandoci sgradevoli segreti che non avevamo la minima voglia di venire a sapere. Per fortuna Stanlio e Ollio è clemente con i personaggi di cui racconta la storia dietro le quinte, mantenendo il dono della tenerezza che i protagonisti reali possedevano e si meritano. La storia si svolge in realtà in due momenti di crisi del rapporto tra Laurel e Hardy. Il primo ha luogo nel 1937, ed è concentrato nei pochi minuti iniziali del film (buona parte dei quali uniti in un unico – o apparentemente tale - piano-sequenza, forse una citazione di Altman e de I protagonisti, che parte dal camerino dei due, attraversa i fantasmagorici cortili degli studios di Hal Roach per entrare poi in un teatro di posa). Laurel e Hardy sono all'apice del loro successo, beniamini del pubblico, ma nella vita privata sono alle prese con matrimoni, accordi di divorzio, gioco d'azzardo, e con condizioni contrattuali insoddisfacenti (il termine di paragone è il divo-divino Chaplin). Ma i contratti con la Roach Productions hanno scadenze diverse: quello di Laurel è arrivato al termine, quello di Hardy lo lega per un periodo più lungo. Laurel si ritrova fuori a causa delle sue rivendicazioni, Hardy è costretto a rimanere dentro: è la fine della coppia comica più celebre della storia del cinema. Eppure, sedici anni dopo, nel 1953, i due si ritrovano insieme per una tournée teatrale in Inghilterra, organizzata da un impresario senza scrupoli, in attesa di un film (una parodia di Robin Hood) di dubbia realizzazione. I due sono ancora nel cuore del pubblico, che però ormai li crede morti o pensionati. Si riparte dagli alberghetti, dai teatri di second'ordine semivuoti, dalle cittadine di provincia. Ma Laurel e Hardy sono ancora Stanlio e Ollio: Laurel scrive ancora ottime gag, i due tengono ancora la scena, l'affiatamento è ancora infallibile, il pubblico mette da parte la novità della televisione in salotto per tornare ad affollare teatri sempre più grandi. Ma qualche rancore cova sotto la cenere. Sedici anni non sono passati invano: Stan non ha dimenticato il “tradimento” di Hardy e il “film dell'elefante” (Zenobia – Ollio sposo mattacchione) girato da Oliver per Hal Roach dopo la separazione, e “Babe” sconta ancora un complesso d'inferiorità rispetto alla “mente” del duo. Il film si ispira al libro dedicato da A.J. Marriot alla tournée inglese di Laurel e Hardy, segue la sceneggiatura di Jeff Pope (Philomena) e trova in Steve Coogan (anche lui in Philomena) e John C. Reilly due interpreti straordinariamente credibili (considerata anche la particolare fisicità e gestualità dei due personaggi), sia nei momenti della vita privata che quando devono riprodurre le performance di Stanlio e Ollio sulle tavole del palcoscenico (come nei numeri dell'ospedale e dell'uovo sodo e delle due porte della stazione). I due litigano e si rinfacciano presunti torti e incomprensioni esattamente come una coppia di coniugi (una scena di dialogo vede i due sdraiati fianco a fianco in un letto matrimoniale), ma molto godibile è il controcanto fornito dalle due consorti, interpretate da Nina Arianda e Shirley Henderson, quasi un secondo duo di spalla, caratterizzato anch'esso dalla dissomiglianza fisica e caratteriale (minuta, bruna e caustica l'una, grande bionda e sussiegosa l'altra). Le didascalie ci informano che Laurel continuò a scrivere gag per Stanlio e Ollio anche dopo la morte di Hardy; noi li lasciamo danzanti e affaticati su un palcoscenico, davanti a una platea plaudente, ripresi in controluce o addirittura attraverso le loro ombre: sul punto, appunto, di dileguarsi dal mondo; eppure, grazie al cinema, resi eterni ed immortali. E amati per sempre. LE INVISIBILI (Les Invisibles) di Louis-Julien Petit.Da una parte ci sono le senza tetto, che si affibbiano i nomi di fantasia di donne di talento e potere - quali non saranno mai - che cercano un rifugio in cui ricoverare i propri guai, invisibili al mondo e alla società; dall'altra le operatrici sociali e le volontarie, tutt'altro che prive di problemi, che per lavoro o per vocazione si fanno carico anche di quelli altrui, lasciandosi coinvolgere e a volte sommergere dalla marea di umanità con la quale si trovano a che fare; invisibili anch'esse, a volte invise alle stesse amministrazioni pubbliche dalle quali dipendono. Audrey, Manu e le loro problematiche volontarie non si arrendono alla chiusura (per scarsi risultati) del centro di accoglienza per il quale lavorano, e anzi rilanciano, continuando ad accogliere clandestinamente le disperate che vi cercano riparo, allestendo perfino un dormitorio non autorizzato, istituendo dei laboratori finalizzati al recupero di abilità lavorative e sociali e intraprendendo iniziative autonome per cercare di reinserire le reiette nel mondo del lavoro. Le invisibili, con un cast in larghissima parte femminile, ma dove il glamour femminile è completamente assente e con un argomento non certo accattivante, si è piazzato nella zona alta del box office in Francia, collocandosi tra i film francesi più visti in patria nella stagione. Un risultato non certo scontato. Il segreto del successo, oltre ad una sensibilità verso i temi sociali che nel cinema – e a quanto pare nel pubblico – francese trova il suo spazio (si pensi solo ad alcuni film con protagonista Vincent Lindon, come Welcome, La legge del mercato, In guerra), sta nella chiave adottata, che mette in risalto oltre agli aspetti socio-politici e ai drammi individuali dei personaggi, anche i risvolti grotteschi e buffi. Per quel che valgono categorizzazioni ormai sorpassate, Le invisibili viene in genere classificato come “commedia”. Pure, l'operazione è basata su indagini condotte sulla realtà che racconta (basato com'è sul documentario Femmes Invisibles e sul saggio Sur la route des Invisibles di Claire Lajeunie) e adotta un approccio radicale nella messa in scena, affidando le parti delle homeless a donne che hanno realmente vissuto questa esperienza, prive di qualsiasi pregressa formazione cinematografica, e adottando uno stile di ripresa sporco, precario e mosso, apparentemente incurante di qualsiasi preoccupazione estetica. La commistione e il corto circuito tra realtà e finzione, tra dramma e commedia, tra aspetti sociali e storie individuali, ha colpito evidentemente nel segno; concentrato però com'è il film sulla “bella confusione” del tentativo di riabilitazione sociale delle ospiti del centro, stupisce, in un'operazione così documentata, l'assoluta mancanza di attenzione verso il pregresso vissuto delle protagoniste e di qualsiasi tipo di indagine o di ipotesi sulle motivazioni (storie famigliari, malattie, perdita del lavoro, ecc.) della loro emarginazione (o autoesclusione) sociale, rischiando quindi di rappresentarle come personaggi strani e un po' bislacchi, un po' teneri e un po' irritanti, ma comunque lontani dalla nostra storia e dalla nostra esperienza. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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