THE KILLER di David FincherBasterebbero i titoli di testa a istillare qualche dubbio, una serie di microsequenze con un campionario di metodi di omicidio che non stonerebbero in un telefilm anni ‘70 o come uno degli amati cataloghi per il von Trier de La casa di Jack.
I timori si confermano lungo tutto il primo episodio del film, “Parigi – Il bersaglio”, durante il quale il protagonista, un killer professionista che si (e ci) annoia aspettando il momento propizio per svolgere il proprio compito, ci ammorba con voce fuori-campo, sovrapposta ad una serie di sequenze altrimenti mute, propinandoci una montagna di statistiche di cui potevano anche fare a meno, sciorinando i propri precetti professionali e profondendosi in una sequela non richiesta di riflessioni pseudofilosofiche e di meditazioni zen sull'arte dell'attendere e dell'uccidere. Tutta la prima parte è giocata su un rispecchiamento di riprese oggettive/soggettive, sia visive che auditive. Si sarebbe portati a credere che Fincher stia impostando un dispositivo in grado di portarci dentro gli occhi, le orecchie e addirittura, grazie alla voce off, dentro il cervello e i pensieri del killer. Insomma, la speranza è che Fincher ci stia preparando qualche trucchetto dei suoi, o per lo meno qualche riflessione sulla percezione e sulla mente dell’assassino. Ma qualcosa non torna. Il sedicente camouflage (da “turista tedesco”) è risibile; le precauzioni di questo megaprofessionista, che cancella maniacalmente ogni traccia della propria presenza e quasi della propria esistenza, lasciano ben presto il tempo che trovano, dal momento che lo stesso ritiene poi di fare merenda su una panchina proprio sotto il naso del portiere del palazzo dove dovrebbe commettere l’omicidio; e, arrivati al dunque, l’infallibile commette un’enorme cazzata. Nel secondo episodio “Repubblica Dominicana – Il rifugio” i dubbi non fanno che crescere. L’assassino con paranoie di sicurezza arriva alla sua lussuosa villa ai Caraibi, che però è stata assaltata da qualcuno che voleva ucciderlo. I killer del killer hanno lasciato in bella vista tracce di ogni genere (orme, decine di mozziconi di sigarette, sangue) e poi, dopo aver pestato un po’ la sua ragazza, se ne vanno insalutati in aereo senza nemmeno aspettare che lui arrivi. Tutto il film d’altra parte pare pieno di dispositivi di sicurezza elettronici, a simboleggiare le ossessioni contemporanee di sicurezza, controllo, visibilità, eppure si direbbe che non c’è mai una telecamera o un dignitoso sistema d’allarme quando servirebbe. A questo punto già si può capire dove andranno a parare gli altri quattro episodi, che vedranno il nostro imperturbabile (anti)eroe impegnato in un’operazione di vendetta per l’affronto subito e di prevenzione di ulteriori aggressioni che lo porterà a cercare mandanti ed esecutori dell’attentato a New Orleans, in Florida, a New York e a Chicago, prima del ritorno nella propria Itaca caraibica. Il killer senza nome e dai mille nomi (Fincher sottolinea la sfilza di nomi e documenti falsi da lui esibiti in giro per il mondo) continua a ripetere come una mantra la propria filosofia fumettistica (ops! il film è tratto da un fumetto!), che tuttavia non sembra dettare tutti i suoi comportamenti, tra imprudenze, trasgressioni e forse una sorta di impercettibile coinvolgimento emotivo. Difficile a dirsi, anche perché Mortensen ha imparato con Ridley Scott a mantenere un’impassibile espressione da androide. Intanto il nostro sbaglia i calcoli, uccide inutilmente, si fa sorprendere su terreno avverso da un terribile energumeno, si concede il lusso di un colloquio con une dei suoi obiettivi all’unico apparente scopo di offrire a Tilda Swinton l’occasione di fare un numero dei suoi. E quel che è peggio è che il film sembra procedere a tensione invertita: all’inizio il film mostra il nostro uccidere anche chi passa per strada, così tanto per abbondare; ma arrivato al suo climax con un divertente e brutale scontro corpo a corpo a metà dello svolgimento, si adagia su una china che discende dolcemente verso un epilogo in cui il pistolero, arrivato all’ultimo e più alto livello dei suoi obiettivi, decide con filosofia di rinfoderare la sua arma del momento e di abbandonarsi a qualche ultima riflessione esistenziale su uomini e superuomini. Critici e social si stanno scervellando tentando di distillare perle di senso e saggezza dalle massime di vita dell’assassino e di trovare una giustificazione teoretica per quest’opera che non sembra provenire dall’autore cervellotico di opere originalissime come Seven, Fight Club o anche Zodiac (che rifondava il film di serial killer seguendo una cronaca storica e frustrante), e neppure dal biografo visionario di Mank; ma The Killer sembra poter soddisfare (forse: i venti minuti di stagnazione iniziale sono una dura prova da superare per tutti) esclusivamente un pubblico non cinefilo in cerca un thriller lineare, elegante e in fondo non troppo impegnativo. Difficile dire se è colpa della dimensione fumettistica alla fonte (una graphic novel firmata dai francesi Matz e Luc Jacamon), dalla sceneggiatura poco brillante di Andrew Kevin Walker, o da una regia che sembra aspirare più all’eleganza superficiale che alla sostanza (sia in termini di spessore tematico che di pulp cinematografica). Alla fine rimane il dubbio di un divertissement un po’ vacuo alla Soderbergh, o, a voler essere maligni, di un prodotto pensato già in un’ottica televisiva, realizzato con diligenza e senza molta applicazione, perché tanto gli spettatori arriveranno lo stesso, senza bisogno di pagare il biglietto all’entrata. Senza contare che di killer taciturni, efficienti, implacabili, filosofeggianti o meno, ne abbiamo già visti tanti, dal samurai dalla faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville, a quello sensibile alle farfalle di Suzuki o a quello filosofo di Jarmusch; da quelli coscienziosi di Mann a quelli sentimentali di Besson o a quelli già ritirati a vita privata di Cronenberg, solo per citare alcuni dei più famosi. The Killer non aggiunge nulla di nuovo e non è originale neppure nella scelta del titolo: l’anno scorso i coreani hanno prodotto un film con titolo identico; quest’anno sono usciti i Killers di Scorsese e prima o poi si spera arriverà anche sui nostri schermi lo spassoso Hit Man (sinonimo di killer) di Linklater già presentato a Venezia. Ecco - già che ci siamo - quando ne avrete l’occasione guardatevi questo e buon divertimento.
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C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiC'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici. I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc. Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano. Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale. Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica. C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale. Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio. Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva. Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi. Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx. Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità. Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici. Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime, ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta: E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi Con solo questa lingua in bocca E se mi tagli pure questa Io non mi fermo, scusa Canto pure a bocca chiusa ____________________________________________________________________________________________ ...ma al maligno Oruam Norac è rimasto qualche dubbio: leggi qui le sue riflessioni su Face/Off LUBO di Giorgio DirittiNell’incipit del film una compagnia di artisti da strada si esibisce nella piazza di una cittadina svizzera nel Cantone dei Grigioni, in un giorno del 1939. C’è un orso che balla, ma poi si accascia al suolo; ma non è un vero orso: il suo ventre si apre e ne scaturisce una zingara che suona un’armonica; ma non è una vera zingara: il suo volto è quello di un maschio baffuto. La scena sembra prefigurare il destino dell’uomo, Lubo, costretto prima a vestire una divisa militare invece dei suoi pittoreschi vestiti, poi a nascondersi sotto altri abiti e altre identità, fingendo e dissimulando per buona parte della sua vita. Siamo infatti alla vigilia della Guerra mondiale, e la Svizzera arruola forzosamente il nomade Lubo (appartenente all’etnia degli Jenitsch), per sorvegliare i confini nel timore di un’aggressione tedesca. Ma mentre Lubo è lontano dalla famiglia, entra in azione anche il piano del governo svizzero per aiutare i bambini di strada, un progetto pseudo-umanitario che si propone di sanare la piaga del nomadismo: ovvero, il governo si appropria dei bambini senza genitori o che vivono in situazioni disagiate e li ricovera in istituti, dove in teoria dovrebbero essere istruiti e integrati nella società, mentre in realtà vengono avviati all’adozione da parte di famiglie di svizzeri senza figli, o di contadini che hanno bisogno di braccia in più per i lavori pesanti. Da un giorno all’altro, Lubo, che sta prestando il suo servizio in mezzo alle montagne nevose, si trova privato di tutta la sua famiglia: i suoi tre bambini vengono sequestrati dal governo, sua moglie (incinta) muore in una colluttazione con i gendarmi che le stanno portando via i figli, e il resto dei parenti fugge cercando rifugio in Francia. Lubo continuerà testardamente per anni a cercare di rintracciare i propri figli, scomparsi e dispersi; ma, da vittima ferita profondamente nei propri affetti più cari, si renderà ben presto colpevole di atti nefasti, per i quali non sembra provare alcun rimorso ma che determineranno il suo destino. Divenuto improvvisamente e fortunosamente molto ricco, Lubo dapprima profonderà energie e ricchezze per ritrovare i suoi bambini; poi proverà a ricrearsi una propria famiglia assumendosene il carico, ma i suoi sforzi sono puntualmente destinati allo scacco. La storia di Lubo è destinata a ripetersi, stavolta a causa del suo peccato originale, e tutto quello che ha perso lo perderà di nuovo. Il film da un lato mette in luce un episodio reale e poco noto degli anni della Guerra, in cui, proprio mentre la Germania trascina l’Europa nell'abisso del proprio demenziale incubo razzista, anche la civile e ordinata Svizzera intraprende una sua operazione eugenetica di pulizia etnica e di deportazione ai danni delle minoranze e dell’infanzia; ma dall'altro sceglie come protagonista un “eroe” ben poco edificante, un uomo che si macchia a sua volta di un omicidio efferato ai danni di un innocente (tra l’altro ebreo) e della sottrazione di beni e identità altrui. Diritti espande in un film di quasi tre ore lo spunto narrativo contenuto nelle poco più di cento pagine de Il seminatore di Mario Cavatore, tralasciando tra l’altro le conseguenze e gli strascichi tragici della vicenda principale - narrati nel romanzo ma omessi nel libro - e mettendo in ombra un aspetto della vendetta messa in atto da Lubo e preannunciato dal titolo stesso dell’opera letteraria. Nel libro, infatti, Lubo intraprende una metodica opera di seduzione di donne svizzere, al preciso scopo di ingravidarle e perpetuare in questo modo quella “razza” bastarda che il buon governo svizzero tentava di eliminare. Nel film questo aspetto è molto più sfumato, e le operazioni di seduzione da lui messe in atto verso tre donne appaiono piuttosto dettate dal desiderio (la moglie di un funzionario di banca), dall’utilitarismo (una signora dell’alta borghesia introdotta nelle associazioni “caritatevoli” che potrebbe aiutarlo nella ricerca dei bambini scomparsi) o dell’affetto sincero (una cameriera d’albergo italiana già mamma). Il tema della vendetta si potrebbe forse individuare solo nel secondo caso, dove l’oggetto della seduzione si è appena espressa contro il razzismo nei riguardi degli ebrei – tra i quali vanta degli amici perbene – salvo concludere invece con candide dichiarazioni a favore della sterilizzazione degli zingari, per il bene della società e dell’umanità. Riportato al suo nocciolo essenziale, il Lubo di Diritti è la storia di un personaggio due volte vittima della Storia e della propria storia, che emerge dalla devastazione di una perdita solo per andare ad incontrarne una nuova; un personaggio contraddittorio che reagisce alla sua condizione di vittima incolpevole solo per farsi carnefice a sua volta e scontare alla fine un duro prezzo per i propri crimini. Il protagonista trova una convincente ma non scontata incarnazione nella presenza ambigua di Franz Rogowski (attore tedesco che nel Freaks Out di Mainetti stava dall'altra parte della barricata, in divisa nazista), uno “zingaro bianco” con baffetti e pronuncia blesa, spregiudicato e determinato fino all’ossessione ma sensibilissimo agli affetti famigliari. Il film si inserisce con coerenza nella filmografia di Diritti, per ambientazione fisica e storica. Il trattamento della materia narrativa, come si diceva, si dilunga in una durata importante, procedendo a passo lento e soffermandosi sulla cura di dettagli e su aspetti della storia forse non essenziali. Volti, caratteri, paesaggi e ambientazioni funzionano benissimo nel delineare luoghi ed epoche, ma considerata anche la lunghezza del film, si poteva forse lavorare maggiormente sulla fluidità e la credibilità di alcuni passaggi drammaturgici decisivi. Rimane comunque l'inusuale coraggio di Diritti di raccontare una colpa storica poco conosciuta, mettendo al centro dell'attenzione una vittima a sua volta colpevole. ANATOMIA DI UNA CADUTA (Anatomie d'un chute) di Justine TrietIn Anatomia di una caduta ci sono due cadute, e di conseguenza due esplorazioni anatomiche. C'è una caduta letterale, reale, fisica: Samuel è caduto (si è buttato, è stato spinto) dalla finestra di uno chalet sulle montagne vicino a Grenoble, dove da qualche anno si è ritirato a vivere con la moglie Sandra, facendo convivere l'attività di insegnante, le velleità da scrittore, la ristrutturazione della casa di montagna, la cura del figlio non vedente, il rapporto in crisi con la moglie. E' una caduta che viene esaminata analiticamente, per ricostruirne la dinamica, consultando diversi esperti, riproducendola in simulazioni virtuali (disegni, schemi, filmati) ma anche reali, con l'uso di un manichino al posto del corpo. Ma nello stesso tempo, e ancora di più, la caduta ha un valore metaforico, e trasforma il film nel racconto dell'anatomia di un matrimonio, di un rapporto di coppia entrato in crisi quando il figlio Daniel ha subito un incidente che l'ha privato della vista, della cui responsabilità Sandra accusa ingenerosamente il marito; al dramma sono seguiti i tradimenti di Sandra, che ha avuto relazioni sessuali con altre donne e di cui ha in parte informato il marito. Ad acuire la tensione c'è stata poi la diversa riuscita delle aspirazioni letteraria di entrambi i coniugi: brillante quella di Sandra, che ha pubblicato un libro dopo l'altro, attingendo spesso a piene mani dalla propria vita famigliare e dalle sofferenze ad essa legata; fallimentare quella di Samuel, che non è mai andata oltre la stesura di qualche progetto abortito, e la cui mancata riuscita lui imputa alla moglie, che non gli avrebbe dato il tempo necessario per poter dedicarsi alla scrittura. La sceneggiatura di Justine Triet e di Arthur Harari si concentra in modo analitico sulle diverse modalità di percezione della vita di Sandra e Samuel e del loro rapporto di coppia. A parte le foto di famiglia e un corpo esanime nella neve, Samuel è assente dal film, sia quando è in vita che ovviamente dopo la sua morte prematura, salvo comparire tardivamente in un lunga scena ambientata nel passato; tutta l'attenzione è concentrata su Sandra, ben presto sospettata di omicidio, a causa della strana dinamica che ha portato alla morte di Samuel, e sul figlio Daniel, oltre che sui personaggi (giudici, avvocati, investigatori, testimoni, funzionari) che cercano di ricomporre il puzzle intimo delle loro scene da un matrimonio. Il fascino paradossale del film deriva dal fatto che gli sceneggiatori e la regista non ci portano mai nell'interiorità di Sandra, lasciandoci costantemente nel dubbio riguardo la sua colpevolezza; la Triet sembra mettersi dei panni di uno degli spettatori, che assiste al tentativo di accertamento della verità, con la l'unica prerogativa di avere accesso ai differenti punti di vista, alle diverse percezioni della storia tra Sandra e Samuel e alle diverse ipotesi sulla morte di quest'ultimo. Il racconto ha un'apparente linearità (c'è un solo flashback), ma costruisce intorno all'ellisse centrale e fondamentale (l'omissione della scena primaria della morte di Samuel, che avviene fuori dal campo visivo e narrativo) un vero e proprio caleidoscopio in cui la storia dei due coniugi, e la personalità di Sandra, emergono gradualmente, per frammenti, senza mai dare una visione totale e definitiva. Ricostruire l'insieme dei punti di vista offerti del film è davvero sorprendente. Gli stessi protagonisti della tragedia, Samuel e Sandra, messi a confronto l'uno contro l'altro in una lunga scena di dialogo (un flashback scaturito da una registrazione audio di una loro discussione, presentata al processo), rivelano una percezione completamente opposta ciascuno dell'altro, della loro relazione, e dei motivi della crisi che ormai li divide. Il figlio ipovedente (se la cecità spesso nel cinema è una metafora, viene da dire che forse Daniel è il personaggio che alla fine “sa vedere” cosa – forse - è successo realmente) deve ricostruire attraverso l'udito e il sentimento che cosa sta succedendo o è successo tra suo padre e sua madre. Ma la relazione tra i due è raccontata per suggestioni anche nei libri scritti da Sandra, dove gli spunti autobiografici vengono forzati ad essere interpretati come conferma dei suoi sentimenti ostili verso il marito e dei suoi propositi omicidi. Una raggiera di altri punti di vista sono forniti dagli altri personaggi coinvolti: l'avvocato amico di gioventù di Sandra, e tacitamente innamorato di lei, ma in fondo in dubbio rispetto alla sua innocenza; l'accanito procuratore che vuole dimostrare la sua colpevolezza; il giudice che scruta tutti dall'alto del suo scranno; una giovane che si era recata ad intervistare Sandra nel suo chalet, forse oggetto di un tentativo di seduzione da parte della scrittrice; Marge, la giovane funzionaria incaricata di convivere con Sandra e Daniel (quest'ultimo è contemporaneamente un testimone chiave ma anche il figlio dell'unica indiziata) durante il periodo di svolgimento del processo; e poi i vari testimoni chiamati a dire la loro opinione o gli esperti che devono fornire le loro valutazioni tecniche; e, infine, ma importantissima, la registrazione audio che getta una luce (solo uditiva per gli spettatori del processo, messa in scena invece nel già citato flashback per quelli cinematografici) sulle tensioni tra i due coniugi, talmente ambigua da non riuscire neppure a chiarire con certezza chi, al termine di un diverbio sempre più acceso, abbia colpito chi. A moltiplicare il gioco degli specchi, perfino le lingue parlate sono due - il francese e l'inglese, come lingua mediana tra i due coniugi, uno francese e l'altra tedesca – e i nomi di moglie e marito sono gli stessi degli attori che li interpretano. La Triet alla fine si schiera e il film, senza sciogliere completamente tutti i dubbi degli spettatori, fornisce un finale comunque consolatorio, dove i sentimenti di molti dei personaggi sembrano convergere in un'unica direzione. I sentimenti, appunto, poiché in una realtà frantumata e indecidibile, alla fine, come Marge suggerisce a David, è solo il sentimento che può indicare la giusta direzione. Il film non è un thriller, come alcuni spettatori meno avveduti sembrano aver creduto, forse ingannati dalla locandina del film (che peraltro ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes), ma regge benissimo per le due ore e mezzo di durata la tensione psicologica, prima durante le indagini preliminari, e poi nell'avvincente dramma giudiziario che occupa la seconda parte. A parte qualche zoomata un po' brusca e incongrua, alla riuscita del film contribuisce non poco la prova degli attori: al centro c'è ovviamente Sandra Hüller (già pluripremiata nel ruolo della figlia del bizzarro protagonista in Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade), fredda e appassionata insieme, sospesa nell'ambiguità di un carattere di cui si fatica a cogliere appieno la verità e sul crinale di un personaggio non simpatico che pure finisce per suscitare empatia negli spettatori e nelle spettatrici; intorno a lei un convincente gruppo di attori tra cui Swann Arlaud (l'avvocato difensore), il giovanissimo Milo Machado Graner, nel ruolo del figlio David, e Samuel Theis, nel ruolo del marito, in una sola ma appassionata sequenza. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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