GLI SDRAIATI di Francesca ArchibugiGli sdraiati sarebbero i “giovani d’oggi”, apatici, inerti, apparentemente privi di interessi - o dagli interessi imperscrutabili da parte degli adulti - iperconnessi alle loro ramificate appendici tecnologiche ma sciolti e slegati dal rapporto con il mondo dei genitori e di chi ha l’età dei loro genitori, degli insegnanti, di chi insomma non ha la loro età, sorta di parassiti della generazione precedente, che li mantiene con il proprio lavoro, ma verso cui non hanno la minima intenzione di manifestare riconoscenza, gratitudine, stima o rispetto e tantomeno volontà di emulazione. Il termine è stato coniato da Michele Serra, che ne ha fatto il titolo e l’emblema del suo libro, da cui Francesca Archibugi, con la congeniale collaborazione alla sceneggiatura di Francesco Piccolo e dello stesso Michele Serra, ha tratto un film con Claudio Bisio nel ruolo del padre divorziato protagonista e l’esordiente Gaddo Bacchini nel ruolo del campione esemplare della categoria degli sdraiati. Il libro di Serra è un soliloquio travestito da dialogo di un padre perplesso, sfiduciato e pessimista, quasi in forma di pamphlet (con accenni fantascientifici e apocalittici) dove lo sfogo e la gustosa descrizione dei comportamenti (o dei non comportamenti) sfociano in una (parzialmente autoassolutoria) presa di posizione ideologica rispetto alla rinuncia a un ruolo paterno tradizionalmente inteso, con quanto di arbitrariamente autoritario esso comporta. Rimane lo sconcerto dell’intellettuale borghese di sinistra, illuminato e progressista, davanti al fallimento del proprio modello educativo, in parte ideologico e in parte istintivo: permissivo, amichevole, basato sulla presunzione, evidentemente errata, dell’esistenza di spontanee elementari forme di responsabilità, di rispetto delle regole di normale civile convivenza, di reciprocità degli affetti da parte del figlio. La constatazione di un’inconciliabile diversità dei piaceri e dei doveri, ma anche di una pericolosa assenza di spirito critico e di iniziativa dei giovani, che rischiano di diventare degli imbelli consumatori, Grandi fratelli di se stessi impegnati in un continuo sterile narcisismo incoraggiato da un sistema sinestetico orwelliano basato sull’apparenza e sul consumo, che ne fa i propri inconsapevoli e adoranti schiavi. Rispetto al libro gli autori della sceneggiatura attenuano i risvolti più spiccatamente ideologici e sociologici, mentre sono costretti a ricostruire e a reinventare una drammaturgia e una narratività sostenibile, appigliandosi agli scarni spunti narrativi presenti nel libello (la breve convivenza del protagonista con un’amica del figlio assente, il colloquio con gli insegnanti, la vendemmia con gli amici del padre, il tormentone della salita al colle della Nasca che sfocia nella conclusione di entrambe le opere) e aprendo una linea drammaturgica completamente inedita, che istilla nel protagonista, già fedifrago, il dubbio di essere il padre della ragazza del figlio, con i conseguenti timori di una relazione incestuosa. A differenza del testo d’origine, soprattutto, il film riequilibra la disparità del monologo di Serra e dà in qualche modo spazio al figlio, che, per quanto afasico e distante, trova modo da una parte di esprimere il proprio malessere, dall’altra non è insensibile al manifestarsi di un’affettività più adulta, preludio all’uscita dal gruppo dei coetanei maschi (l’autonominata “banda dei froci”) apparentemente chiusi nel circolo vizioso della loro baldanzosa, vitale ed egoistica immaturità. Gli sceneggiatori inseriscono inoltre una moltitudine di personaggi nuovi (l’ex-amante, l’ex-moglie, la nuova fiamma, il nonno interpretato da Cochi Ponzoni, gli amici di Tito), danno una professione al padre (conduttore televisivo alla Fazio), inseriscono sottostorie, creano un contesto sociale e geografico alla vicenda, ambientata tra una Milano accattivante e moderna (ma con i nuovissimi edifici che ne hanno modificato spirito e skyline mostrati già decrepiti in un flash futuristico) e le montagne liguri. La salita al famigerato colle della Nasca, sempre invocata dal padre che cerca in tutti i modi di convincere il figlio ad accompagnarlo in un’escursione che li dovrebbe avvicinare, oltre che a mettere a contatto il ragazzo con una prova fisica e con la bellezza della natura – cui lui e i suoi coetanei sembrano completamente ciechi, a favore di qualsiasi realtà virtuale - e sempre schifata dal figlio, che gli preferisce qualsiasi inazione, sarà alla fine lo spartiacque, il simbolo di un passaggio generazionale temuto ma inevitabile. Francesca Archibugi torna a dirigere una storia con giovanissimi, amministrando con mano leggera toni umoristici e accennandone altri appena più riflessivi; Claudio Bisio gestisce il suo ruolo accentuando l’insicurezza dei padri e smascherando con plastica vulnerabilità i suoi goffi tentativi di guidare il figlio solo con la (debole) forza dell’ironia e dell’autoironia; dal punto di vista attoriale più immaturo (naturalmente?) appare tutto il gruppo dei giovani, mentre il comparto femminile del cast rimane più in ombra, con personaggi che si perdono lungo il percorso (Barbara Ronchi), rimangono decisamente defilati (Sandra Ceccarelli), o fanno apparizioni lampo (Donatella Finocchiaro), e con la sola Antonia Truppo (già notevole in Lo chiamavano Jeeg Robot) a interpretare un personaggio di qualche spessore.
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120 BATTITI AL MINUTO di Robin CampilloC’è una sequenza alla fine di 120 battiti al minuto che ne riassume icasticamente i temi principali. In realtà le sequenze sono tre, intrecciate l’una all’altra dal montaggio alternato e cucite insieme dal pulsare ritmico di un brano di musica techno: un gruppo di manifestanti di Act Up irrompe a un ricevimento di compagnie assicurative, spargendo sui tavoli a piene mani manciate delle ceneri di un amico morto di Aids; due ragazzi nudi fanno l’amore; ragazzi e ragazze omosessuali ballano sfrenatamente nelle luci stroboscopiche di una discoteca, fino al nero finale su cui, in silenzio (del film e della sala, ammutolita), scorrono i titoli di coda del film. La protesta, la lotta contro le grandi organizzazioni economiche e contro le istituzioni, il desiderio e il sesso, la consunzione e la morte, la vitalità e la sete di vita, il corpo come strumento di piacere e come campo corruttibile della morte al lavoro (così Cocteau definiva la natura stessa del cinema; ma qui il cinema mostra la morte e la asseconda tanto quanto la combatte e la contesta). Pochi minuti che condensano le tematiche e le immagini che scorrono e che innervano le quasi due ore e mezza del film di Robin Campillo, già collaboratore del Cantet che vinse la Palma d’oro a Cannes con La classe. Campillo, alla sua prima regia, con 120 battiti al minuto si aggiudica a sua volta il Gran Premio della Giuria a Cannes 2017 (presidente della giuria Pedro Almodóvar) con un film dove ancora una volta ci sono un gruppo di giovani, spesso impegnati a discutere, all’interno di un’aula. Il film racconta appunto di Act Up, un’organizzazione che agli inizi degli anni ’90, a Parigi come già prima a New York, intraprende una battaglia senza esclusioni di colpi con le istituzioni governative e mediche e con le grandi case farmaceutiche e le compagnie assicurative, per attirare l’attenzione sulla virulenta epidemia di Aids che aveva ormai da qualche anno iniziato a falcidiare gli ambienti omosessuali, così come quelli dei tossicodipendenti e delle carceri. Alla politica che all’inizio rimane indifferente, restia a promuovere campagne di sensibilizzazione e di protezione, e che si assume con la propria inazione la responsabilità di una strage che sembra inarrestabile; alle case farmaceutiche riluttanti a rendere pubblici e disponibili i risultati delle proprie ricerche, gli attivisti di Act Up contrappongono azioni eclatanti, irruzioni e incursioni, sfruttando anche per quanto possibile i mezzi di comunicazione, in un’era in cui non esisteva la Rete né tanto meno i social media. Il film sceglie un’impostazione decisamente politica, soffermandosi spesso - oltre che sulle azioni a volte festose a volte guerrigliere - sulle riunioni degli attivisti impegnati a discutere delle modalità e delle strategie d’azione, cercando di restituire la pluralità di voci e la vitalità combattiva di quel movimento, dove i posti sui banchi potevano rimanere da un giorno all’altro vuoti per un decesso o per l’aggravamento di una malattia. Ma sceglie anche, ad un certo punto, di entrare anche nella dimensione intima e privata dei personaggi, descrivendo l’incontro, l’innamoramento e il rapporto tra il sieropositivo Sean, uno degli attivisti più estroversi e determinati, e Nathan, un neofita che assisterà devotamente l’amante anche quando questi sprofonderà nella malattia che lo mina. Da pubblico e politico, il film si trasforma quindi nella seconda parte in un dramma intimo e straziante (facendo un paragone con titoli celebri statunitensi, come se si passasse da Milk a Philadelphia tra il primo e il secondo tempo), cercando l’immersività dello spettatore sia nella dimensione erotica (con una delle più lunghe scene di sesso omosessuale viste nel cinema mainstream, fatta eccezione per la declinazione al femminile de La vita di Adèle), sia in quella della malattia e del lutto, dilatando i tempi del racconto in maniera quasi disturbante. Indagatore delle parole ma ancora di più dei corpi - desiderabili, impudichi, piagati, ansimanti di desiderio o di agonia - Campillo cerca nel contempo anche il respiro delle immagini pure, trasformando il pulviscolo che aleggia in un fascio di luce nelle cellule aggredite dal virus, o colorando di rosso sangue le acque della Senna. Il cerchio si chiude: si torna alla fine, quando, passati attraverso l’esperienza della morte, si torna alla vita: alla voglia di vivere (e di sopravvivere), di lottare (e magari di cadere combattendo), di godere, fino alla fine. Nahuel Pérez Biscayart, di origine argentina, è l’intenso Sean, mentre la bella Adèle Haenel (protagonista de La ragazza senza nome dei Dardenne, compagna nella vita della regista Céline Sciamma) porta un’immagine di femminilità in un cast prevalentemente maschile. Solo un'ultimo post scriptum: 120 battiti al minuto rischia di essere visto come un film storico, un film quasi in costume su un periodo trascorso e su un pericolo scongiurato; purtroppo i dati di realtà ci dicono che non è esattamente così. THE PLACE di Paolo GenoveseCon Perfetti sconosciuti era andata più che bene. Un appartamento, sette amici intorno a un tavolo, con l’incauto patto di rendere noti agli altri per tutto il tempo della cena telefonate o messaggi in arrivo sui rispettivi cellulari. Genovese ama il cinema di impianto teatrale (un altro risultato degno di essere ricordato in questo senso è Una famiglia perfetta) e lì aveva convinto pubblico e gran parte della critica grazie a un cast eccellente, affiatato, coinvolto e divertito, a una sceneggiatura solida e originale - abile nella costruzione dei personaggi, attenta ai ritmi e ai passaggi drammaturgici, accorta nell’alternarsi dei toni – e una regia in grado di amministrare alla perfezione questi due punti di forza. Purtroppo con The Place però Genovese si è fatto travolgere da un’ubris minimalista, e riduce ancora di più l’impianto ai minimi termini. Si parte dall’idea di una serie televisiva statunitense, The Booth at the End, e la si riproduce con sostanziale fedeltà, variando appena gli accenti e il contesto per adattarli alla realtà nostrana. Peccato non essersi accorti prima di cominciare a girare che quello che poteva funzionare in una serie tv, proprio per quella che è la sua natura, la serialità, potesse funzionare meno al cinema. La struttura è estremamente rigida: un bar-tavola calda, un uomo misterioso (Mastandrea, non lo vedremo mai alzarsi dalla sedia), riceve a turno al suo tavolino dei personaggi. Per tutto il film si susseguono dialoghi a due (raramente tre): l’uomo e i suoi “clienti”. Loro hanno ciascuno un desiderio, lui sembra avere il potere di realizzarlo. A patto che loro portino a termine un compito, generalmente atroce, che lui assegna loro traendolo dalla voluminosa agenda su cui prende continuamente appunti. L’azione non segue i personaggi al di fuori del bar; lo sviluppo delle loro azioni o non azioni, delle loro decisioni viene raccontato nei siparietti successivi in cui alternativamente tornano dall’uomo e si raccontano. Fine. La macchina da presa non esce dal locale che per dei ripetuti, inutili, ripetitivi establishment shot, giusto per ricordarci, che sì, siamo sempre nello stesso posto - a volte è giorno, a volte è sera -, fine. Se uno spettatore si alzasse dopo pochi minuti, avendo già capito tutto dell’impianto e del seguito del film, e uscisse dalla sala urlando per il tedio, avrebbe tutta la mia solidarietà. Non basta a Genovese cambiare a ogni manciata di secondi l’angolo di inquadratura per vivificare una storia che parte e arriva “seduta” e che si svolge in modo meccanico, senza un guizzo di regia, senza una sorpresa degna di questo nome, senza la capacità di dare atmosfera e spessore ai racconti che si succedono sullo schermo. Assente l’azione (o l’inazione) The Place è tutto basato sul linguaggio verbale, ma non vanta una scrittura capace di dare credibilità e anima a storie e personaggi. La sorpresa o il coinvolgimento dello spettatore non arrivano mai, e le scenette si ripetono meccanicamente, raccontando storie in parte prevedibili e in toto prive di interesse. Difficile dire se sia più spiacevole e molesta, più grottesca e risibile la costruzione dei personaggi (l’anziana bombarola, la suora che per recuperare il rapporto con Dio deve farsi scopare e mettere incinta, il ragazzo perduto che deve dire sinceramente al suo babbo bastardo che gli vuole bene, e così via), o la virata buonista che alla fine, tolti i morti e i feriti gravi, li porta più o meno tutti sulla via della redenzione, che significa la rinuncia alla soddisfazione dei desideri e il rifiuto di portare a termine missioni demenziali tipo uccidere bambine o stuprare femmine. Il valore del cast è tutto sulla carta: i caratteri così ben sbozzati nel film precedente qui sembrano tutti delineati sullo stereotipo dei rispettivi interpreti. Chi fa lo sbirro carogna? Ma Giallini. Chi fa la faccia da suorina perversa? Ma la Rohrwacher. Chi fa il popolano stralunato? Papaleo. Chi fa lo scazzato malinconico? Mastandrea ovviamente. E la popolana sempre sorridente e dal cuore triste? Ci sarebbe la Ferilli. Chi fa il giovanotto scapestrato ma tormentato? Ma Muccino, ça va sans dire. Tutti recitano se stessi come se stessero facendo tanti ammiccanti cameo e non come se fossero tenuti a dare corpo e anima, volto, carne e sangue a dei personaggi credibili e verosimili. Quand’è così nulla sembra funzionare, il montaggio sembra velleitario, la colonna sonora disordinata. Ma tant’è, inutile infierire. Aspettiamo Genovese e i suoi attori al prossimo film; in un altro place, speriamo migliore. THE SQUARE di Ruben ÖstlundChristian è un direttore di museo affermato, benestante, affascinante. Mentre crede di prestare aiuto a una ragazza in pericolo in una piazza di Stoccolma, viene derubato. Dando ascolto al consiglio di un collaboratore, distribuisce una lettera minacciosa in tutti gli appartamenti in cui abita il ladro credendo di poter recuperare la refurtiva. Per pubblicizzare The Square, una nuova istallazione acquisita dal museo, crede di conquistare l’attenzione dei media affidando la realizzazione di un video a due giovani creativi. Credendo di vivere l’ennesima avventura senza impegno, va a letto con una giovane giornalista. La sua vita sta per piombare nel caos. THE SQUARE è un film geometrico, polimorfo, stratificato. Volete un esempio? Partiamo dall’inizio: solo per restare al suo significato principale, The square è il titolo del film; è l’opera d’arte al centro del film; è un simbolo (“santuario di fiducia e di amore, entro i cui confini tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri”, che allude a un paio delle tematiche principali del film); è un elemento iconico simbolico ricorrente (i quadrati, talvolta concentrici – o conquadrici – che imprigionano i personaggi – di preferenza il protagonista, in una gabbia visiva: trombe delle scale, quadri, opera d’arte, campi sportivi, finestre, specchi, ecc.); è un elemento metatestuale che allude allo schermo cinematografico, e dunque – chiudendo il cerchio, anzi il quadrato – al film stesso che lo ha per titolo. Tuttavia il quadrato, o il film, non è uno spazio salvifico che ripara dal mondo esterno; al contrario, il film è uno spazio controllato contenitore di vite controllate che contengono a loro volta il caos incontrollabile. Il quadrato stesso è lo spazio geometrico che contiene le contraddizioni più deflagranti, dove un santuario può diventare il luogo dove una bambina bionda e povera può essere fatta cinicamente saltare in aria. Il caos è sempre presente nella storia e nella rappresentazione: una donna ospita una grossa scimmia nel proprio appartamento; un’altra rimane a una conferenza stampa insieme al marito affetto da sindrome di Tourette anche quando questi dà in escandescenze e ingiuria i relatori; una performance si trasforma in un’orgia di violenza. E a scatenare il caos, l’inferno sartriano, sono gli altri. Il film tematizza i rapporti umani soprattutto attraverso due figure chiave: una è la fiducia, a sua volta rappresentata nella situazione iconica in cui bisogna scegliere tra due direzioni “fidarsi-non fidarsi”, salvo scoprire amaramente le contraddizioni dei propri illusori valori morali, e nello stesso tempo calata nella narrazione nella forma dei continui smacchi cui la fiducia negli altri sottopone il protagonista. L’altra, collegata alla prima, è la relazione di aiuto. Nel film ricorrono un gran numero di situazioni in cui uno dei personaggi chiede aiuto. Solo per fare degli esempi: il protagonista al centro commerciale, che lo troverà solo da parte di un mendicante bisognoso ma disinteressato; la donna aggredita alla cena di gala, mentre tutti gli altri commensali abbassano la testa sul petto; il bambino – insieme portatore di caos e vittima – spinto giù per le scale, la cui voce continua a tormentare il protagonista anche a porte richiuse. La richiesta d’aiuto appartiene innanzitutto ai mendicanti, cioè ai bisognosi (ma anche qui il gusto ironico e provocatorio di Östlund, regista e sceneggiatore, porta a sottolineare tutte le contraddizioni possibili: come le mendicanti che dicono a bocca piena di non avere da mangiare mentre mangiano, o come l’attivista che si prodiga per salvare le vite, salvo non accorgersi del povero stramazzato al suolo a pochi passi da lei), ma chiunque si può trovare in qualsiasi momento nello stato di bisogno: al protagonista Christian capita più volte in varie situazioni durante il film, e toccherà anche lui fare i conti con l’indifferenza degli altri. I ladri aspirano ai nostri beni, i mendicanti all’aiuto e all’assistenza, le figlie alle attenzioni parentali, i collaboratori a sottrarsi alle conseguenze di un consiglio azzardato, i copywriter al successo professionale costi-quel-che-costi, l’amante allo sperma contenuto in un preservativo, il bambino alla riabilitazione: gli altri sono i portatori di bisogni e di desideri alieni e destabilizzanti, che minacciano continuamente le nostre vite, i nostri beni, la nostra integrità fisica e morale, la sfera della nostra individualità. Il film ci offre anche in questo senso un intero catalogo di esemplificazioni. Anche l’arte contemporanea ha una doppia ambigua veste nel film: da una parte sembra presa in giro nella sua assenza d’arte, nella sua astrusa concettualità (è arte un quadrato disegnato per terra? lo fa diventare arte una scritta posta lì accanto?); dall’altra però rivela quasi di rimbalzo la pregnanza di un gesto provocatorio, assurdo, grottesco, ma rivelatore. L’arte mette a nudo le nostre contraddizioni (all’entrata dell’istallazione scelgo la direzione “Mi fido”; ma sarò ancora disposto a fidarmi quando un’altra scritta lungo il percorso mi inviterà a posare e lasciare per terra portafoglio e cellulare?), ci pone faccia a faccia con le nostre paure verso un’alterità inevitabilmente minacciosa e non dominabile, ci mette di fronte alle possibili conseguenze concrete delle nostre scelte e dei nostri valori ideali, destabilizza il nostro ambiente vitale (come quando Christian discute della natura della propria relazione con la nuova amante in una stanza del museo scossa ogni poche decine di secondi dal frastuono simulato di una catasta di sedie che si schiantano al suolo). L’apoteosi viene raggiunta nella sequenza dell’uomo-scimmia che, con la propria performance durante una cena di gala eccede superando la finzionalità pseudoartistica e mettendo i presenti inermi davanti al rimosso animale, istintuale, bestiale che si nasconde appena sotto la superficie della civiltà e che riemerge a tratti come irruzione del caos incontrollabile; e nello stesso tempo interrogandoli con brutalità sui loro valori, sulla solidarietà umana, sulla responsabilità nei confronti degli altri. Parallelamente, l’oscenità del video pubblicitario concepito dai due creativi senza scrupoli sonda da una parte i limiti del mostrabile, del lecitamente visibile, dell’etica della comunicazione, dall’altra ci interroga sulla libertà di espressione, sulla liceità della censura, in un circolo vizioso (o in labirinto quadro) da cui è arduo uscire. Il tema tra il mondo artificioso dell’arte e della ricchezza da una parte, della bruta realtà della vita dall’altra era tematicamente e visivamente al centro di Animali notturni di Tom Ford; ma la messa in crisi dei valori borghesi e di quelli illuministici, della razionalità, dell’immagine di sé dell’uomo civilizzato contemporaneo erano già tematizzati con crudele precisione anche dall’opera precedente di Östlund, già premiata a Cannes nella sezione Un certain regard: l’ottimo, spietato, ironico Forza maggiore, dove era invece una forza scatenante naturale e non umana a far deflagrare le certezze in dubbi e contraddizioni, quando una valanga di neve pulverulenta si abbatte sulle geometrie di una moderna stazione sciistica e sulla quotidianità di un’ordinata felice famiglia borghese. Come Vi presento Toni Erdman, The Square esprime una riflessione profonda e disorientante sulla società, anzi sulla civiltà contemporanea, utilizzando un registro ironico e umoristico; ma anche qui si tratta di un umorismo atipico, rarefatto e piuttosto raggelato, a volte riconoscibile solo a posteriori, una volta superato il disagio provato davanti a situazioni disturbanti, come le già citate sequenze della lotta per il preservativo o della discussione tra gli amanti, o della conferenza stampa disturbata o del minaccioso portatore di caos che si rivela essere un bambino ostinato – petulante - ma innocuo. The Square si spinge forse ancora più in là; dove Toni Erdman si concentrava sulla satira di un mondo ciecamente votato alla frustrante ricerca del successo professionale ed economico, decostruito da un pagliaccio-mostro che tenta di salvare la propria figlia, The Square allude ad una dimensione geopolitica ed economica (la povertà nel mondo globalizzato, l’iniqua distribuzione della ricchezza, ecc.), da una parte irridendola mentre la enuncia (è il protagonista che registrando un messaggio di scuse al bambino ingiustamente e involontariamente accusato di furto deraglia in uno sproloquio non privo tuttavia di verità), dall’altra trascendendola in una dimensione che è antropologica, forse esistenziale, forse metafisica. Una dimensione dove l’arte, ridicola come un mucchietto di ghiaia che si sfalda e viene spazzato via dall’addetto alle pulizie, o ironica come un film intitolato The Square, è forse lì a preannunciare il caos che potrebbe travolgerci. BLADE RUNNER 2049 di Denis Villeneuve Dopo aver incrociato più volte i guantoni a distanza, Mauro Caron e Oruam Norac, già campioni italiani di critica schizofrenica, si affrontano finalmente face to face sullo stesso ring. Il motivo del contendere vale la pena di uno scontro: BLADE RUNNER 2049. Oruam Norac (ON): Quindi? Mauro Caron (MC): A te magari è piaciuto? ON: Beh, direi che se la sono cavata con onore. Toccare un film cult comporta sempre un rischio altissimo. Direi che Villeneuve e compagnia sono stati onesti. La coerenza con il primo Blade Runner c’è tutta. Persino lo smarrimento nel labirinto dell’umano-non umano. Oserei dire che è un film più dickiano del primo episodio. MC: Mmh. ON: Ma a te Blade Runner almeno era piaciuto? MC: Se ti dicessi mica tanto? Prima di andare a vederlo pensavo sarebbe stato il film della mia vita. Non è stato così. Una Rachel così poco sexy (sarà stata colpa degli anni ’80), un cacciatore così inefficiente, le lacrime “che si confondono con la pioggia” e le colombe bianche che frullano in volo al rallentatore mentre Harrison Ford segue il tutto con lo sguardo da ebete. Tappati le orecchie che sto per dire un’eresia: un misto tra John Woo e Baci Perugina. Una delle cose che mi aveva intrigato di più era la voce off, che contribuiva così tanto al tono noir, e Ridley Scott ha pensato bene di eliminarla dal director's cut... ON: Ah beh, cominciamo bene. Sarà difficile allora convincerti della bontà di 2049. Eppure nota bene che è un seguito che non gioca, come succede di solito, la logica scontata della moltiplicazione/accumulazione. Di solito il secondo episodio segue la via facile della proliferazione. Se nel prototipo c’era un alien, nel secondo episodio metticene a decine. Se ci sono tre velociraptor nel secondo metticene di più, e dei T-Rex, e così via. 2049 invece vola intenzionalmente basso, si mantiene quasi speculare al primo. Se là c’era un eroe umano che forse era un replicante, qui c’è un replicante talmente umano da dubitare di poter essere umano. E non solo: 2049 è straordinariamente coerente anche con il precedente film di Villeneuve, Arrival. Anche qui c’è al centro c’è una storia della tua vita, un concepimento anomalo: là dovuto a un corto circuito temporale, qui ad un corto circuito genetico. Ah, aspetta, e poi c’è anche la coerenza visiva: Arrival era un film giocato su un uovo nero e uno schermo bianco, e anche qui mi sembra ci sia un’ammirevole economia figurativa; e anche rispetto al primo Blade Runner, malgrado gli anni passati e la disponibilità di effetti speciali che una volta non c’erano, gli autori hanno avuto il buon gusto e il pudore di mantenere una certa continuità iconografica. MC: Va bene, ma non è (solo) con la coerenza che si fanno bei film. Un film va giudicato per se stesso, non perché assomiglia a qualcun altro. ON: E’ vero, ma solo in parte. Un film non è un’isola, ogni film interpella la nostra memoria di spettatori, in un gioco anche inconscio di confronti e rimandi, e poi qui stiamo parlando di un sequel, che per natura fa riferimento ad un altro film. Anzi, si pone umilmente nella situazione di essere figlio di un altro film, rispecchiando la fabula in cui K è o potrebbe essere il figlio di Deckard. MC: A te è piaciuta la coerenza. Ma secondo me il film ha la colpa imperdonabile di non reinventarsi un immaginario. Non solo sono passati 35 anni fa dal primo film, con tutto quello che hanno comportato in termini di evoluzione tecnologica e iconografica, ma sono passati anche 30 anni dentro il film. Eppure poco sembra cambiato. In fondo tutto quello che c'è in BR 2049 c'era già tutto e anche meglio in un film come Ghost in the Shell. ON: Però ammetterai che le sequenze aeree della discarica e quella della lotta nel teatro degli ologrammi sono molto belle. MC: Ologrammi. Senti come suona già vecchia la parola? Con un 2049 dove si ascolta ancora Frank Sinatra? Dove si spara con le pistolone e le carrozzerie delle automobili sembrano prese da uno sfasciacarrozze degli anni ’80? ON: Però insisto: secondo me il pregio di Villeneuve sta proprio nell’umiltà, nel modo in cui non ha voluto soppiantare un immaginario con un altro, nel tenersi fedele alla traccia, nel non lasciarsi contaminare da tutto ciò che è venuto dopo. In un certo senso 2049 contiene in sé già la propria critica, a proposito dell'impossibilità di ricreare il passato - neppure grazie al cinema -, come nella scena della ricreazione della Rachel "sbagliata", o nelle sequenze del teatro degli ologrammi con le immagini smangiate di Presley e di Sinatra... Blade Runner 2049 è il futuro prossimo di Blade Runner, non altro. Così doveva essere. Anzi, il film che più mi è tornato alla memoria come referente visivo, BR a parte, è un film più o meno coetaneo, L’elemento del crimine di von Trier. E guarda caso anche in quel caso si trattava di fantascienza contaminata con il noir, e che nascondeva una tematica esistenzialista e identitaria. MC: Sarà. Ma io gli faccio una colpa di non avermi mai stupito. Wallace è l’ombra di Tyrell, K è l’ombra di Deckard, Los Angeles è sempre quella, Joy è ancora più fantasmatica di Rachel. Non solo, il film si porta dietro perfino i difetti di disegno dei caratteri dell’originale. Deckard era un blade runner inetto, totalmente inadeguato alla missione affidatagli: uno che si salva solo per fortuna, per gli interventi di qualcun altro, o addirittura perché i replicanti sono talmente superiori, fisicamente e spiritualmente, da non prendersi nemmeno la briga di ammazzarlo. Se fa fuori un replicante, è sparando nella schiena a una donna. K. è più o meno di altrettanta inettitudine: il primo replicante si fa uccidere per nascondere un segreto, poi più volte K si trova in difficoltà ed è salvato da droni telecomandati che sparano missili (ti rendi conto di quanto povera sia questa fantascienza? In questo momento droni telecomandati stanno già sparando missili da qualche parte in Medio Oriente), o dai replicanti ribelli. ON: Ti stai soffermando su dettagli trascurabili, stai perdendo di vista l’orizzonte mitico-filosofico del film. A me è piaciuto molto come il film gioca con i miti universali, estraendo il tema della maternità, di cui nel primo film non c’era traccia, dal nome della sua protagonista, Rachel, che evoca la Rachele biblica che morì di parto. O come trasforma l’investigazione del protagonista in una ricerca della propria origine, della propria identità e natura, della propria paternità. Edipo puro. MC: Invece io credo che gli sceneggiatori si siano fatti prendere la mano e abbiano perso il senso delle proporzioni. Anche nella tematica umano-non umano: i replicanti di 2049 sono più umani degli umani. Piangono in continuazione, o hanno sempre gli occhi lucidi come se stessero per farlo. Provano nostalgia, tristezza, solitudine. Soccombono nella lotta, sono vulnerabili, sanguinano, muoiono, non reggono nemmeno sott’acqua. Che replicanti sono? In cosa sono superiori o diversi dagli uomini e dalle donne? Che senso ha? Hanno esagerato; così non c’è più differenza, non c’è più la tensione umano-non umano, appunto. Anche Ishiguro in Non lasciarmi si era reso conto dell’incongruenza dei suoi cloni eccessivamente umani, e si era inventato l’espediente dell’esperimento umanistico di Hailsham. ON: Ma è una fantascienza umanistica, esistenziale, ancora una volta mi sembra che stai perdendo di vista l’essenziale, il senso. Ovviamente il film parla di noi, non di androidi replicanti. Di quanto possiamo sentirci soli, estranei, precari, senza figli e senza padri. MC: Certo. E tuttavia è un film lento, inerte, un po’ lagnoso. Anche Arrival lo era, mi pare l’abbia detto anche tu. Si passa buona parte del tempo a guardare un Gosling inespressivo (l’espressione che gli riesce meglio) che cammina in ambienti inospitali. Sempre per restare su Villeneuve, ho trovato più tensione nella scena del corteo attraverso Ciudad Juarez in Sicario che in tutto 2049. Non fosse per il sound design che tenta disperatamente di ricordarci che stiamo vedendo un film che dovrebbe tenerci sulla corda (e grazie a Dio almeno non c’è l’elettro-pompier di Vangelis), probabilmente saremmo stati sopraffatti un invincibile torpore. ON: Ma non avevi neanche la curiosità di dove sarebbe andato a parare? MC: Proprio qui sta il punto: praticamente mai. E sai cosa mi preoccupa? Che Wallace è vivo e vegeto, Deckard e la sua figliola sono ancora in pista, i ribelli tramano nell’ombra, i replicanti per loro natura si possono replicare. Non è che dopo il reloaded ci aspetta pure il revolution? ON: Speriamo. MC: Speriamo di no. A CIAMBRA di Jonas CarpignanoFin dalle prime sequenze A ciambra, è azione, gesti, corpi in movimento, voci, suoni. E' un coinvolgimento sensoriale, immediato, quasi cinestetico quello che Carpignano propone allo spettatore. Al centro di un mondo frenetico e disordinato si individua tuttavia fin da subito una figura di adolescente. Magro, brutto, con le orecchie a sventola, il mento sfuggente, la bocca spesso sempiaperta e uno sguardo non particolarmente intelligente, Pio si rivela invece da subito un corpo agile, una mente sempre al lavoro, un antenna vibratile sempre attenta a capire come gira il mondo, e a come sfruttarlo a vantaggio proprio e della propria famiglia. Non c'è recinzione o barriera che lo contenga; Pio salta dalle finestre, scavalca muri, steccati, recinzioni. Stare rinchiuso, come in ascensore, gli provoca una sofferenza fisica, claustrofobica; venire portato da altri, come in auto, gli pesa, perché deve lui a decidere dove andare, a condurre il gioco e a guidare, anche se è ben lungi dall'avere l'età per la patente. Pio è un rom, uno zingaro, e vive in una sorta di baraccopoli alla periferia di Gioia Tauro (appunto la Ciambra di un titolo poco furbo, che non solo non dà indicazioni su contenuti o tematica, ma che rende difficile addirittura riconoscere la nazionalità del film), come anche i “marocchini” (in realtà migranti dall'Africa nera) che occupano uno spazio ancora più precario ai margini della città; spazi frequentati dagli “italiani”, malavitosi che trafficano tanto con gli uni che con gli altri, sfruttandone le rispettive abilità per i loro traffici loschi. Jonas Carpignano descrive la comunità senza sconti né moralismi: Pio e i suoi vivono oltre i bordi della legalità, un branco dedito ad attività predatorie tra furti di automobili, di valigie, di rame, di corrente elettrica, e razzie in villette e depositi, abituato a convivere con i frequentissimi controlli delle forze dell'ordine e con l'assenza dei famigliari detenuti in galera. Eppure è uno sguardo partecipe, affascinato dall'energia, dalla vitalità, dalla capacità di sopravvivenza al di fuori di regole e leggi. In brevi sequenze iniziali, dal respiro quasi western, viene rievocata quella che poteva essere una dimensione romantica della vita nomade, libera e immersa nella natura; ma ora la realtà è quella di una suburbanità marginale ed emarginata, dura eppure ancora umana e vitale. E' evidente quanto il regista conosca il territorio e i personaggi che mette in scena (o che spesso lascia muovere sulla scena - A ciambra è in effetti pressoché il seguito del precedente e pluripremiato film d'esodio di Carpignano, Mediterranea), e l'affetto e quasi l'ammirazione che il suo sguardo nutre per il suo giovanissimo antieroe. La sua cinepresa aspira evidentemente alla stessa anarchica libertà che attribuisce ai suoi personaggi. Certo, i pedinamenti alle spalle dei personaggi non può non ricordare il cinema dei fratelli Dardenne (soprattutto del loro primo periodo, da La promesse a Rosetta e a Il figlio), e lavorare con attori non professionisti comporta uno scotto da pagare; eppure è difficile immaginare A ciambra con altri volti e altri personaggi (Pio è il virilmente intenso giovanissimo Pio Amato; e molti degli altri personaggi fanno parte della sua famiglia) e uno stile di ripresa meno dinamico e apparentemente casuale. Dispiace quasi quando il regista incanala il racconto in uno sviluppo narrativo riconoscibile, impone un ritmo più disteso a qualche sequenza e introduce elementi metaforici come il cavallo bianco (un omaggio a Sciuscià?) e il fantasma del nonno o didascaliche come la scena con le prostitute. Nella prima parte A ciambra racconta una società caotica e un ragazzo che sembra surfare sulle onde del caos; nella seconda parte ci racconta di un ragazzo che sta per diventare – a modo suo – uomo. La corsa di Pio ogni tanto si ferma, ha qualche indugio, qualche titubanza. Quando finalmente piange, è perché ha perduto l'innocenza, e ha capito che le sue azioni hanno delle conseguenze sulle vite degli altri, che può far male a chi vuol bene e a chi gli vuole bene. Nell'ultima sequenza indugia un attimo, si volta a guardare il mondo dei bambini che sta lasciando, poi si gira e ineluttabilmente procede verso il mondo degli uomini. Si esce con la stessa tristezza di quando abbiamo visto Mowgli lasciare Bagheera, Baloo e il mondo della jungla per seguire la ragazzina smorfiosa nel villaggio degli uomini; con l'aggravante che qui sappiamo che il villaggio degli uomini è abitato da predatori... Con plateale e pubblico scorno di Castellitto, che sperava in un'opportunità per il suo Fortunata (ancora una periferia popolaresca, ma a confronto con A ciambra sembra teatro d'opera), l'Italia manda il film di Carpignano allo sbaraglio degli Oscar. E' sicuramente un azzardo e forse un atto di autolesionismo, ma il film è valido - ci ha creduto anche uno che se ne intende come Martin Scorsese che l'ha prodotto e sostenuto - e poi è una dichiarazione a favore degli statunitensi (ma pure degli italiani) che l'Italia non vive più negli anni '50 o in quelli della dolce vita; che non siamo più dei bigotti con i paraocchi; che (anche) il nostro cinema sa guardare al reale, che va a ficcare lo sguardo anche dove tanti non vorrebbero guardare, che, come Pio, siamo diventati grandi, a costo di perdere l'innocenza. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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