NUEVO ORDEN di Michel FrancoQuasi tutti i commentatori hanno parlato della violenza di Nuevo orden, rimproverandola, respingendola e definendola intollerabile o quasi intollerabile. Eppure, a ben guardare, il film di Franco non presenta molte immagini splatter o gore; le uccisioni avvengono tutte per arma da fuoco e, considerato il contesto e le vicende raccontate, perfino l'uso del sangue può definirsi parsimonioso. Franco si spinge talvolta sull'orlo dell'inguardabile (la carrellata iniziale sui cadaveri, la violenza sessuale, la tortura) ma trattenendosi sempre senza mai cadere al di là. Eppure la sensazione di disagio e di disturbo che provoca la visione del film è innegabile. I fatti sono spiacevoli. La festa di nozze della giovane Marianne offre un ritratto acido dell'alta borghesia messicana, barricata dietro muri, autisti e guardie del corpo a parlare di mazzette e di affari non tutti leciti, ad amoreggiare, ad ubriacarsi e a farsi con tutte le droghe che i ricchi possono permettersi. L'anziano domestico che si presenta a chiedere soldi per l'operazione alla moglie malata riceve una manciata di banconote e viene messo alla porta. Ma le cose stanno per cambiare. Dal rubinetto esce acqua verde, una coppia di invitati arriva inzaccherata di vernice dello stesso colore. Nel prologo si è vista un'irruzione in un ospedale, figure indistinte e inquietanti, un liquame verde che ruscella lungo una scala in un interno, un tappeto di cadaveri insanguinati sui quali risuona il suono di un allarme ossessivo. La radio trasmette bollettini di guerriglia urbana e saccheggi, gli elicotteri sorvolano la città. Presto gli invasori valicano i muri, le guardie sono dalla parte dei rivoltosi, i domestici approfittano per arraffare tutto quello che possono mentre i loro padroni vengono terrorizzati e sparati. Marianne scampa alla mattanza scortata da due poliziotti, solo per trovarsi imprigionata in un lager gestito da militari che torturano e umiliano i prigionieri per chiedere riscatti alle famiglie superstiti. Intanto nel caos, un nuovo ordine sta avanzando: ma non è detto che sia meglio di quello vecchio, e neppure del disordine totale. Ma a disturbare maggiormente, più della storia, che in un blockbuster hollywoodiano non ci avrebbe turbato più di tanto, è probabilmente lo sguardo adottato da Franco. Il regista, pur utilizzando tutte le inquadrature e i piani possibili, dai primi piani e dai dettagli ai campi lunghi e alle riprese dall'alto, mantiene costantemente il distacco dai suoi personaggi. La sua camera osserva, impassibile, incurante del disagio dello spettatore che spesso invece vorrebbe distogliere gli occhi. La freddezza emotiva con cui osserva le violenze, le esecuzioni, il terrore delle vittime, è simile a quella di Haneke in un altro terribile film di violazione e di invasione dello spazio domestico, Funny Games. Franco riesce ad istillare la stessa angoscia claustrofobica anche se rispetto agli interni del film austriaco gli ambienti sono più variati, passando dalla villa lussuosa (che rivelerà a posteriori l'astrattezza geometrica della sua architettura) allo squallore cupo e terrorizzante del lager dei militari, passando per i luminosi esterni di una Città del Messico solare, colorata, e totalmente in preda al caos e alla devastazione. Il regista non spinge all'immedesimazione con le vittime di questo incubo (non poi così) distopico: siamo loro vicine, ma gli rimaniamo distanti, con il regista determinato a non permetterci di empatizzare più di tanto con loro; non siamo loro, ma il punto è che potremmo essere loro. Per lo spettatore occidentale si insinua un altro sentimento, altrettanto sgradevole: i rivoltosi sono i più poveri e più emarginati dalle élite socio-economiche, in massima parte di etnia indigena, mentre le vittime al contrario sono per la maggior parte bianche. Le orde del disordine sociale sono quasi senza personalità, quasi degli zombi, e come gli zombi sono affamati; non di carne umana, non di giustizia, bensì di beni, di quei materiali e concreti beni di consumi lussuosi che loro non potrebbero mai permettersi e che arraffano avidamente, con cieca e febbrile bramosia. Inconsciamente, lo spettatore è portato quindi a identificarsi con le vittime bianche, che non sempre hanno la coscienza pulita, con un misto di sentimento di paura, di umiliazione e di senso di colpa. E' questa forse la violenza maggiore che infastidisce e disgusta lo spettatore occidentale, quella di essere resa vittima senza tuttavia essere riconosciuta incolpevole, senza che neppure il regista e la macchina da presa ci dimostrino un po' di pietà, di compassione e di empatia. Ma non finisce qui. L'ordine che viene ristabilito è quello che rimette al potere i potenti, che spazza via insieme alla rivolta anche i più innocenti, i più deboli e inermi. E' un ordine senza giustizia, senza libertà né uguaglianza e tanto meno fratellanza. I lavoratori ritornano al loro status di schiavi, i capri espiatori vengono sacrificati, gli inutili innocenti eliminati. Alla violenza del caos si sostituisce quella dell'ordine: alla mattanza sciatta e indiscriminata si sostituiscono le organizzate esecuzioni in serie, con i cadaveri cancellati dal fuoco; le messa in scena che coprono le menzogne dei potenti; lo spettacolo della morte con le impiccagioni ben allestite davanti al pubblico compiaciuto e vendicativo dei potentati militari e civili, mentre sulle strade tornano a sventolare arroganti le bandiere nazionali. Non arriva primo in queste stagioni Nuevo orden a raccontarci di una violenza virale (vedere il film nella nostra epoca minata dall'incertezza e dal senso di morte e di claustrofobia provocati dalla pandemia rende lo spettatore ancora più vulnerabile di fronte alla sfrontata e autoritaria brutalità del film), che non è lotta di classe - con quanto di consapevole, organizzato e finalizzato il termine comporta nella sua accezione marxiana - ma una rivolta nichilista e acefala, un incontrollabile ribollire di malcontento alimentato dall'ingiustizia e dalla diseguaglianza economica sociale che porta ad una ribellione luddista senza scopo e senza obiettivo. Ce l'ha raccontato Parasite, dove però il conflitto di classe veniva mediato da un gioco con i generi cinematografici che comprendeva anche i toni del grottesco e della commedia; ce l'ha raccontato Joker, che attenuava il proprio impatto collocandosi all'interno (per quanto in posizione estremamente eccentrica) di un universo stilizzato e fumettistico. Il fatto che tutti e tre i film abbiano ricevuto importanti premi negli ultimi grandi festival internazionali la dice lunga su quanto abbia intercettato la sensibilità degli intellettuali e delle personalità del mondo del cinema chiamati a giudicarli. Ma Nuevo orden (non lo si legga come un giudizio di valore) non attenua, non media, non fa sconti allo spettatore. Le sue immagini richiamano quelle degli scontri di piazza che vediamo ai telegiornali, provenienti da molte parti del mondo in fiamme, anche a noi assai vicine; e rievocano la memoria delle atrocità naziste o di quelle delle tante feroci dittature che hanno umiliato, devastato e insanguinato i Paesi dell'America latina in decenni molto più recenti. Nuevo orden è un viaggio disturbante in un allucinante incubo. La paura che incute è quella di svegliarci e di accorgerci che non stavamo sognando.
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LA TIGRE BIANCA (The White Tiger) di Ramin BahraniLa tigre bianca è un film un po' meno indiano di quel che appare a prima vista. E' tratto da un romanzo indiano (scritto in inglese da Aravind Adiga, Book Prize 2008), ambientato completamente in India, interpretato da attori indiani, che ha per soggetto la società e la mentalità indiana, ma è in realtà una produzione statunitense ed è diretto da un regista statunitense. C'è perfino un tocco di italianità nel film: l'ottima fotografia di Paolo Carnera, forse tra gli italiani più adatti ad una trasferta indiana (ha firmato le luci sulle periferie dei fratelli D'Avanzo e del Sollima di Suburra e Acab). Lo stile del film è quindi più vicino a un racconto morale occidentale che a un film di Bollywood. C'è una cornice narrativa, fornita dalle lettere che il giovane imprenditore Ashok scrive al Primo Ministro cinese, che si appresta ad una visita in India, e c'è il racconto in flashback, che inizia dall'infanzia del protagonista e narra della sua ascesa sociale ed economica, ma anche della sua crescita individuale e della sua maturazione (im)morale. La narrazione, strutturata solidamente e scandita dalla musica pop indiana, per il tramite di una storia individuale “esemplare”, è al servizio di una profonda descrizione critica della società indiana. L'Ashok narratore è in realtà Balram, nato in un povero villaggio. A scuola è un allievo brillante, tanto che il maestro lo definisce una “tigre bianca”, cioè una personalità rara che si distingue dagli altri. Ma le esigenze della famiglia, povera e autoritaria, gli impediscono ben presto di continuare a studiare per conseguire una propria emancipazione intellettuale e sociale, per destinarlo al sostentamento famigliare attraverso umilissimi lavori. Balram non si perde d'animo, e decide di costruirsi da sé le proprie opportunità. Con spregiudicati stratagemmi riesce a farsi assumere da una potente famiglia, arricchitasi grazie a violenza e corruzione (la morte del padre stesso di Balram è dovuta ai soprusi subiti) e a diventare l'autista personale del rampollo più giovane, Ashok, tornato a Delhi con la moglie, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, con una mentalità più aperta e progressista. Paradossalmente, l'emancipazione di Balram passa dunque attraverso la ricerca e l'accettazione di una condizione servile. Balram ama e odia i propri padroni, una coppia giovane, bella, agiata, perfino illuminata e di ampie vedute, di cui cerca di esaudire e addirittura di prevenire i desideri. Ma è permeato dalla mentalità servile della maggior parte dei suoi connazionali, e un evento drammatico servirà a ribadire la sua posizione subordinata e sacrificabile nella scala sociale. L'India contemporanea è ancora intrisa dalla mentalità della divisione in caste. Le origini umili di Balram e di quelli come lui, non sono una condizione revocabile o un punto di partenza, ma equivalgono a un destino sociale immodificabile e simile ad una legge di natura. La stessa tigre bianca che si materializza ad un certo punto del film, è a sua volta imprigionata dentro l'angusta gabbia di uno zoo, non diversamente dai polli nelle stie che Balram usa come una metafora dell'India: dove grandi masse di persone stanno come polli in gabbia, impotenti, vedendo i loro fratelli sgozzati davanti ai loro occhi, fiutandone l'odore del sangue, ma senza mai arrivare nemmeno a pensare di ribellarsi. Nessuno sembra poter sfuggire alle regole non scritte, nemmeno i padroni: la scelta è solo tra farsi assorbire dalla corruzione, che inquina la società tutta fino ai più alti livelli della politica, o fuggire. Balram sostiene che in India ci sono solo due vie per emergere (nella sceneggiatura non manca una stoccata verso le illusioni di The Millionaire): la politica o il crimine; e lui non ha possibilità di intraprendere una carriera politica. Partito con un tono leggero e scanzonato, il racconto si fa via via più nero, cinico e perfino inquietante; alla fine Balram ha realizzato il proprio sogno, anche se il nome che ora porta è rubato come la sua fortuna: è un imprenditore di successo e davanti all'ingresso di un albergo di lusso di Bangalore, la capitale indiana degli affari e della tecnologia, riesce a salutare il Primo Ministro cinese destinatario delle sue lettere. Il futuro non è più dell'Occidente, ma di Paesi come la Cina e l'India, preconizza Balram. E alla fine si compiace: potrebbe accorgersi che il suo crimine è stato solo un sogno e che nulla è veramente accaduto; ma la paura passa subito. E' tutto vero, e mentre lui esce dall'inquadratura sullo schermo resta la schiera dei suoi dipendenti, non più schiavi, ma possibili protagonisti di un futuro che non contempla più le caste ma forse nemmeno più il predominio dell'Occidente bianco. Ramin Bahrani, statunitense con ascendenze iraniane, ha già raccontato da Man Push Cart (2005) in poi le vite di emarginati (stranieri) nella società opulenta americana, e anche storie morali dove il prezzo per la sopravvivenza in una società competitiva passa per l'abdicazione alla propria umanità, attraverso l'esempio di cattivi maestri (99 Homes). Ora trova ne La tigre bianca (la cui trasposizione cinematografica era già stata annunciata nel 2009) un soggetto ideale, che ha ripreso, affidandole alla voce narrante, molte sentenze memorabili già presenti nel testo letterario di Adiga, e in Adarsh Gourav il giusto interprete per il giovane dalla faccia ingenua che si trasforma in un piccolo squalo dai baffetti mefistofelici. Gli interpreti dei “padroni” di Balram, Rajkummar Rao e Priyanka Chopra (qualcuno l'avrà vista in Quantico), sono anche i produttori esecutivi del film (e lei è stata anche Miss Mondo nel 2000). UN DIVANO A TUNISI (Un divan a Tunis) di Manele Labidi LabbéSelma, interpretata dalla franco-iraniana Golshifteh Farahani, con la sua bellezza particolare e esotica, a suo agio tanto nei blockbuster americani alla Pirati dei Caraibi che nelle produzioni indipendenti alla Jarmusch, tanto nel cinema iraniano che in quello hollywoodiano che in qullo europeo, è una psicoanalista di origini tunisine. Dopo aver passato anni di vita e di studi a Parigi, torna, in jeans e folta capigliatura riccioluta al vento, nel suo Paese d'origine, la Tunisia, appena uscita dalla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini, che ha visto la fuga di Ben Ali e il ripristino della piena democrazia. In tanti nel film le chiedono “Perché?”, senza ottenerne una risposta precisa. Forse una nostalgia da esule, forse l'insoddisfazione per la vita in Europa, forse la voglia di ricominciare in un Paese che sta per ricominciare in una nuova primavera piena di aspettative e di voglia di rinnovamento. In effetti però viene da chiedersi se una pratica di terapia psichica ideata da un medico ebreo e basata sullo studio di impulsi sessuali inconfessabili perfino a se stessi, possa avere ragion d'essere in un Paese di cultura mussulmana, dove la religione ha una forte influenza sui costumi e i comportamenti, compreso il suo portato di maschilismo e di perbenismo ipocrita (non lontano in fondo dalla nostra tradizione cattolica). Eppure davanti allo studio sul tetto di Selma immediatamente si crea una fila di aspiranti clienti, desiderosi di raccontare i propri problemi e soprattutto, probabilmente, di essere ascoltati. Manele Labidi Labbé, alla sua prima prova registica su una sceneggiatura firmata di proprio pugno, esordisce con ambizioni molto alte: emulare la commedia all'italiana, secondo le sue stesse dichiarazioni (nella colonna sonora ci sono anche due canzoni di Mina, scelte con cura per la coerenza tra testi e situazioni filmiche); far metaforicamente sdraiare sul divano della psicanalista un intero Paese; e cimentarsi con un genere difficile come la commedia. Obiettivi raggiunti (ovviamente) solo in parte, ma con risultati non disprezzabili e godibili. L'autrice mescola commedia di situazione (molte scene ruotano intorno al divano della psicanalista) a quella di carattere (riservata soprattutto ai personaggi che ruotano intorno alla protagonista, che è invece seriosa e molto compresa nel proprio ruolo professionale e terapeutico, e un po' legata anche sul piano degli affetti personali), con l'aggiunta di pochi tocchi onirici (più che giustificati dal contesto, si potrebbe dire: in uno incontra una sorta di silente sosia di Freud in un viaggio notturno di autoanalisi; nell'altra sogna per se stessa un happy end sentimentale lasciato invece in stand by), e usando talvolta i toni del grottesco anche al servizio della satira di una società che, malgrado la rivoluzione, stenta a lasciarsi alle spalle la corruzione, la burocrazia distorta, il clientelismo, l'autoritarismo. Nello studio di Selma sfilano una parrucchiera esuberante che vomita quando vede sua madre, un uomo attirato dal travestitismo, un imam che tenta per conformismo di procurarsi fraudolentemente la zebība, il callo sulla fronte che distingue i bravi mussulmani dediti alla preghiera (ma c'è anche una giovane che si taglia e si colora i capelli, e sarebbe anche disposta a unirsi in matrimonio con un coetaneo omosessuale, pur di riuscire a lasciarsi alle spalle la famiglia, le convenzioni sociali, e la Tunisia). Forse in definitiva il disegno dei nevrotici che passano sul lettino analitico è un po' frenato, e un po' sprecate le occasioni sia umoristiche sia metaforiche che avrebbero potuto scaturirne. Dopo un inizio promettente, capace di stuzzicare la curiosità e l'interesse dello spettatore, il film effettivamente si impantana un po' in ripetizioni, senza riuscire a portare a compimento le varie storie abbozzate (la durata è del resto inferiore all'ora e mezza), allo stesso modo in cui ristagna l'attività professionale della protagonista, ostacolata da una burocrazia ottusa e da un poliziotto che pure potrebbe avere un suo interesse sentimentale (la scena del coup de foudre per mezzo di alcol test è una delle più esilaranti del film). Ma scoprire una giovane Woody Allen femmina e franco-tunisina che gioca con ironia con i generi e gli stereotipi, è una cosa che fa comunque piacere e fa ben sperare per il futuro (della sua carriera, degli spettatori - tunisini e no - e di un mondo che riesca a ridere delle proprie storture). LA CANDIDATA IDEALE di Haifaa Al-MansourMaryam, medico in una città di provincia, pensa di essere la candidata ideale per esercitare in un grande ospedale della capitale Riad; invece, all'inizio quasi per caso, poi con sempre maggiore convinzione, si ritrova ad essere la candidata ideale alle elezioni del consiglio comunale. Ma essere donna in Arabia Saudita continua ad essere un problema, sia che si eserciti una professione sia che si decida di candidarsi alle elezioni amministrative. Esteriormente egualitaria (gli uomini vestono tutti la tunica bianca, portano tutti in testa la kefiah a quadrettini bianchi e rossi, quasi tutti portano la barba; le donne sono tutte coperte da pesanti abiti neri o di colori molto scuri), la società araba è invece profondamente discriminatoria, innanzitutto sulla base del genere sessuale. Maryam non può fare un viaggio senza il permesso del suo tutore maschio (in genere si tratta del marito o del padre); non è abbastanza sostenuta dai suoi superiori in ospedale, dove succede che pazienti maschi si rifiutino di farsi curare da un medico donna; e alle elezioni molti uomini si rifiutano persino di prendere in considerazione un candidato di sesso femminile; e molte donne anche, rassegnate ad una vita assoggettata all'autorità e all'influenza dei maschi di famiglia e vissuta perennemente nell'ombra e in secondo piano. Eppure l'Arabia Saudita ha fatto passi da gigante per quanto riguarda la condizione della donna, rispetto a soli pochi anni fa, quando la regista diresse il suo bel primo lungometraggio, La bicicletta verde. La protagonista de La candidata ideale infatti guida la macchina da sola, usa il cellulare, esercita una professione in cui ha a che fare con utenti maschi e ha addirittura uomini subordinati alle sue dipendenze, cose tutte impensabili fino a qualche anno fa. Eppure in certe occasioni deve ancora coprirsi completamente con il niqab (quando gira il suo video elettorale le viene consigliato di coprirsi l'unica parte del suo corpo lasciata scoperta dal tabarro nero che cancella completamente la sua immagine, cioè gli occhi), la sua professionalità è sottovalutata, il suo impegno pubblico per la comunità fatto oggetto di pettegolezzi e di irrisione. Eppure Maryam propone come sua priorità programmatica (a lungo rimane l'unica, prima che si aggiunga la lotta contro la mentalità repressiva e retrograda contro le donne...) un intervento semplice, concreto, utile per tutti e a tutti comprensibile: l'asfaltatura di un tratto di strada antecedente l'ingresso al pronto soccorso, dove le ambulanze non riescono neppure a transitare. La regista segue la sua protagonista (una Mila Al Zahrani dal viso bello e dolce alla Audrey Tatou) con uno sguardo partecipe, solidale e ironico, senza nascondere le ingenuità di una candidata per caso che costruisce la sua campagna elettorale seguendo i consigli dei tutorial scovati in Rete. Più che la messa in scena, che rimane corretta ma semplice, con una fotografia abbastanza scialba, nonostante gli apporti tecnici della coproduzione tedesca, il film si fa apprezzare per una sceneggiatura ben costruita, che evita i cliché narrativi più facili e prevedibili, anche nel finale, e schizza significativi ritratti degli altri membri della famiglia di Maryam: la sorella maggiore, fotografa di matrimoni, che inizialmente l'aiuta per mero interesse; la sorella minore, che si oppone strenuamente all'avventura della sorella, memore della sua infanzia segnata dalla "vergogna" di una madre ormai scomparsa, ma che in vita esercitava la scandalosa professione di cantante; e il padre, un musicista che fa mancare il proprio appoggio alla figlia (che ne trarrà però un’ulteriore occasione di emancipazione) perché impegnato a sua volta in una tournée di concerti che riporta la musica tra la gente, a cui per tanto tempo è stata sottratta e proibita, con l'ambizione di entrare a far parte della costituenda orchestra nazionale saudita. È ovviamente questo il modo per ricordare l'importanza dell'arte (e del rinascente cinema saudita), della cultura e delle tradizioni per l'identità di un popolo. Una speranza per il futuro, di cui ciascuno a suo modo Maryam e suo padre, le interpreti del film, la regista Haifa Al-Mansour e La candidata ideale fanno pienamente parte. Nell’ultima sequenza, dall’alto e a distanza, vediamo la macchina di Maryam immettersi in una strada trafficata: non è che una macchina tra le tante, ma finalmente l’energia, il talento e la ricchezza delle donne possono cominciare a scorrere nelle vene della società araba. MATTHIAS & MAXIME di Xavier DolanXavier Dolan è Xavier Dolan: prenderlo o lasciarlo, amarlo o detestarlo. O forse no; qualche suo film mi ha convinto di più, altri meno. Spinto dal padre, Xavier comincia a recitare a 4 anni, fin da bambino doppia centinaia di film e telefilm; la sua prima sceneggiatura la scrive a 17 anni, a 19 dirige il suo primo film e arriva direttamente alla ribalta di Cannes. Probabilmente non è facile per un enfant prodige continuare a fare cinema per tutta la vita; fino ad ora il regista canadese ha mantenuto una coerenza che si può tranquillamente definire d'autore, e il suo percorso si muove nel medesimo campo tematico e narrativo. Si tratta di temi importanti: l'amore e l'attrazione, il rapporto con la madre (il padre, attore e cantante, è invece assente come personaggio, ma presente come attore in diversi suoi film, a cominciare dal suo primo J'ai tué ma mère), l'identità sessuale, la rivelazione dell'omosessualità. Ma il suo cinema comincia già a segnare il passo, e a rivelare, ma è solo un mio parere, una certa ripetitività. Le sue caratteristiche autoriali – le sequenze impetuose, i dialoghi concitati e confusi, le parentesi musicali, che utilizzano sia la musica classica che il pop, i ralenti, lo spunto autobiografico – cominciano a lasciare un sospetto di maniera, in un film eccessivo anche come durata, dove tutti sembrano gay anche quando non dovrebbero esserlo, comprese le donne. Dolan interpreta in prima persona il personaggio di Maxime, in partenza da Montreal verso l'Australia, per cercare una dimensione nuova di vita. Matthias fa parte della sua cerchia di amici, e ha invece la strada segnata verso l'affermazione professionale e la formazione di una famiglia. Ma Galeotto fu il filmino arty (che non vedremo mai) girato dalla una sorella di un terzo amico, secondo il cui copione i due devono scambiarsi un bacio. E' il risvegliarsi di un'attrazione nata già anni prima e rimasta a covare sotto la cenere. Stavolta invece, mentre scorre il conto alla rovescia verso la partenza di Matthias, la passione sembra destinata a scoppiare inarrestabile. Forse, in definitiva, è il tema del distacco il filo rosso, la tematica profonda del cinema di Dolan. Matthias è in procinto di lasciare la sua vecchia vita e il suo nuovo amore, Rupert deve mollare il suo idolo John F. Donovan (La mia vita con John F. Donovan), Louis torna a dire addio ai famigliari prime di morire (E' solo la fine del mondo), Tom va alla fattoria per il funerale dell'amato (Tom a la ferme), la mamma Diane e Steve sono destinati a lasciarsi dopo una serie di separazioni (Mommy), Laurence deve separarsi dalla sua identità sessuale (Laurence Anyway), il represso Hubert sogna niente di meno che di uccidere sua madre per trovare sollievo al suo male di vivere (J'ai tué ma mère). Ma Xavier, a quanto pare, non ha nessuna intenzione di separarsi dal proprio cinema. Anche quest'anno Milano (in gemellaggio con Como) ha ospitato il Noir in Festival, che propone proiezioni cinematografiche (concentrate nel grande, accogliente auditorium dello Iulm, dotato di un impianto audio fantastico), tra concorso internazionale e concorso del noir italiano, omaggi e anteprime, oltre ad una nutrita e per nulla secondaria sezione dedicata alla letteratura di genere. Un festival bellissimo che meriterebbe un pubblico immensamente maggiore: pur giocando in casa in un'università come lo Iulm che offre ad esempio corsi in cinema, televisione e nuovi media, e con ingresso libero alle proiezioni, l'enorme auditorium era talvolta desolantemente semivuoto. Per il premio intitolato a Claudio Caligari (autore di tre soli ma incisivi lungometraggi, Amore tossico, L'odore della notte e Non essere cattivo) è stato proiettato come evento speciale Il traditore, di Bellocchio, mentre erano in lizza per il concorso La paranza dei bambini di Giovannesi, Lo spietato di De Maria, 5 è il numero perfetto di Igort, Gli uomini d'oro di Alfieri, L'uomo del labirinto di Carrisi, e Il ladro di giorni di Lombardi. Li ho visti tutti (cliccate sui rispettivi link per leggere le recensioni disponibili su Into the Wonderland), tranne l'ultimo. A vincere, con uno statisticamente improbabile ex-aequo, sono il neo-neorealistico La paranza dei bambini e Lo spietato, decisamente più pop, che viste le accoglienze non proprio entusiastiche partiva decisamente sfavorito. La selezione era comunque decisamente buona e il risultato tutt'altro che scontato, tra l'esercizio di stile alla Frank Miller di Igort, la rivisitazione glocal del genere di rapina firmato da Alfieri e il tentativo (non ancora risolto sul piano drammaturgico e narrativo) di internazionalizzazione di Carrisi. Scamarcio e Servillo si affermano come attori noir dell'anno, protagonisti di due opere ciascuno (Lo spietato e Il ladro di giorni il primo, 5 è il numero perfetto e L'uomo del labirinto – che vede la partecipazione anche di Dustin Hoffman - il secondo). Il più curioso dal punto di vista del casting è però decisamente Uomini d'oro, che schiera in ruoli drammatici delle maschere da commedia come Leo, Morelli e, addirittura, Fabio De Luigi, che aveva rifiutato il ruolo, pur avendo apprezzato il copione, per timore di rovinare il film; così racconta Alfieri nell'introdurre la proiezione, ma alla prova dei fatti De Luigi non sfigura. Sulla strada aperta da Lo chiamavano Jeeg Robot, un nuovo dignitoso tentativo di resuscitare il cinema di genere in Italia. Anche il concorso internazionale era molto stuzzicante, tra rivelazioni cinesi, il remake coreano di un classico del polar come Quai des orfevres 36, proposte scandinave e diverse opere provenienti dall'America latina. Purtroppo sono riuscito a vedere solo due film, appunto sudamericani, tra i quali però c'era il vincitore del concorso. 4X4 è un film argentino a budget contenuto, il tipico film scommessa giocato su un ristrettissimo ambiente concentrazionario. Un ladruncolo si infila in un auto parcheggiata in una tranquilla stradina di Buenos Aires. E' il 4x4 del titolo, che si chiama non a caso Predator, e che si rivela una trappola letale. Se entrare è stato facile, uscire da veicolo, blindato, insonorizzato e con i vetri oscurati, risulterà impossibile. Gran parte del film si svolge quindi interamente nell'abitacolo dell'automobile, con un unico attore (che comunica con il telefono di bordo unicamente con il proprietario del veicolo) e qualche comparsa oltre i vetri dell'auto. A tre quarti il film svolta: si presenta il proprietario dell'auto, che vuole vendicarsi di una città violenta sul casuale ladruncolo (anche assassino in passato, in effetti, veniamo a sapere). La situazione precipita, e l'ultimo segmento di film vede sostituirsi al protagonista unico due nuovi personaggi, il padrone dell'auto e il mediatore in pensione mandato dalla polizia, che intavolano un dibattito pubblico (a far da coro la gente esasperata radunata per strada) su criminalità, proporzionalità delle punizioni, colpe del singolo e responsabilità sociali. In parte già visto, ma la tensione funziona e i tre attori sono adeguati ai ruoli.
Il film che si aggiudica il Black Panther viene invece dal Brasile. Siamo nel paese di Bacurau, che dà il titolo al film, nello stato nel Pernambuco, che i turisti conoscono per le località costiere di Recife e Olinda. Ma qui siamo nell'interno rurale, in un paese talmente sperduto da poter sparire da un giorno all'altro dalle mappe satellitari, perdere il segnale dei cellulari e rimanere tagliata fuori dalle strade di comunicazione e dall'approviggionamento idrico. Bacurau è uno strano oggetto filmico, dove convivono dischi volanti vintage (malgrado l'apparente arretratezza dell'ambientazione, viene da chiedersi se non ci si trovi in un film di fantascienza, la didascalia iniziale ci dice che il film è ambientato tra qualche anno) e anziani giardinieri nudi, vaccini trasportati in ghiaccio e misteriosi motociclisti in tenute variopinte, discendenti dai banditi cangaçeiro legati alla comunità e americani dagli occhi di ghiaccio, musei pieni di armi ancora funzionanti e dighe abbandonate in cui si arroccano i reietti della società, riprese dal drone e bizzarre goffaggini narrative, il tutto in una narrazione corale e comunitaria frequente nel cinema latinoamericano ma quasi sconosciuta a quello occidentale. Per metà film non si capisce assolutamente dove il film possa andare a parare, né comprendere il motivo per cui è stato inserito in un festival noir. Poi il film svolta, rivela un inaspettato versante di ficcante metafora sociopolitica ma, anziché farsi più astratto, si trasforma in un thriller sociale di scioccante violenza e percorso da una tensione non convenzionale. Udo Kier ci mette i suoi occhi gelidi da assassino, ma i suoi cacciatori di uomini scopriranno che le vittime designate nascondono un passato ferino e niente affatto docile o remissivo. Commedia di paese, falsa fantascienza, fiaba nerissima, pamphlet atroce sulle diseguaglianze tra mondo ricco e mondo povero, satira politica, western alla I magnifici sette, tocchi horror, thriller dalle allucinate cadenze dilatate. Non so se fosse il film migliore del concorso, ma sicuramente è un ufo (oggetto filmico non identificato), bizzarro ma efficace, non a caso già vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes. Dirigono a quattro mani Juliano Dornelles, Kleber Mendonça Filho, già scenografo e regista di Aquarius, arrivato anche in Italia per la presenza carismatica di Sonia Braga. A chiusura del festival è stato proiettato in anteprima Il mistero Henry Pick. Siamo un po' fuori tema, col noir non c'entra nulla e il mistero del titolo è un mistero letterario, incentrato sull'apparizione di un romanzo che ottiene un clamoroso successo, firmato da un pizzaiolo bretone deceduto che nessuno, famigliari compresi, ha mai visto leggere un libro o scrivere un rigo. Un critico letterario (star di una trasmissione televisiva letteraria come in Francia hanno sempre fatto e in Italia mai) scettico e incredulo sacrifica matrimonio e carriera pur di indagare sul caso, sconvolgendo la vita di alcune delle persone coinvolte, prime tra tutti la figlia del sedicente scrittore. Il film appartiene infatti a quel filone del cinema francese intellettualistico, libresco, con personaggi legati al mondo dell'editoria, decisamente rivolto ad un pubblico non più giovane, che ha prodotto nelle ultime stagioni titoli pregevolissimi come Il gioco delle coppie o Belle epoque. Carina l'dea della biblioteca dei libri rifiutati (anche se sprecata subito un po' in farsa), ma stavolta il risultato è molto più modesto, l'interesse e la curiosità si mantengono flebili e molto sa di dejavu, a cominciare da Fabrice Luchini, ormai piuttosto logorato dai ruoli di intellettuale misantropo e un po' arrogante (cui alla fine naturalmente ci si deve affezionare grazie alla rivelazione del suo lato umano), e che pedala sulle strade di provincia come già faceva in Moliere in bicicletta. Parasite (Gisaengchung, 기생충, Corea del Sud) di Bong Joon-ho Bong Joon-ho è uno degli autori più interessanti, anche se non molto prolifico, della new wave coreana (un'onda lunga, che dura ormai da una ventina d'anni mantenendo una sua inesausta vitalità). In Parasite - Palma d'Oro al Festival di Cannes 2019 che doppia quella attribuita l'anno scorso a Un affare di famiglia di Kore-eda, un'altra storia dall'Oriente di affetti famigliari e di impostura - sembrano confluire tematiche presenti in due delle sue opere precedenti: il ritratto di una famiglia in strenua lotta per la sopravvivenza, come in The Host, dove una famiglia di marginali si trova a combattere eroicamente contro un enorme mostro uscito dal fiume; e la rappresentazione di una società divisa in ricchi e poveri, come in Snowpiercer, dove un treno in corsa perenne tra paesaggi glaciali del futuro è la rappresentazione icastica di una società rigidamente divisa in classi. Parasite riprende dal primo la vivacità narrativa, la commistione dei generi, uno straniato umanismo nella rappresentazione di personaggi che nascono come cinici e grotteschi, riuscendo nello stesso tempo ad evitare la schematicità e la seriosità del secondo, la cui tematica viene calata in un contesto realistico e contemporaneo, benché intelligentemente stilizzato. Se The Host ibridava abilmente e con originalità commedia, dramma, family, avventura, horror, satira politica e sociale, analogamente Parasite a sua volta mescola commedia e dramma, humor e horror, metafora politica e sociale, o, per dirla con le efficaci parole del regista stesso, “dramma realistico, crime, commedia, triste dramma sociale, thriller terrificante”. Rispetto a Snowpiercer, la metafora cambia, per così dire, di asse: da quello lineare e orizzontale del treno ai volumi abitativi stratificato verticalmente di Parasite: che non solo colloca la famiglia ricca nei quartieri alti della città, nelle vicinanze delle montagne, e quella povera nei bassifondi, in un seminterrato dove arrivano gli insetti e i fumi delle disinfestazioni, l'orina degli ubriachi e i liquami traboccanti delle inondazioni, ma scagliona a sua volta la casa dei ricchi su una serie di piani; in alto ci sono le stanze “leggere” dei figli, al pian terreno gli ambienti freddi ed eleganti degli spazi comuni famigliari, nel seminterrato gli spazi servili e più in basso ancora, in un bunker nascosto sottoterra come una tana di animali, lo spazio ulteriormente parassitario. Quando il piccolo rampollo intravede in casa l'intruso che vive nascosto nello scantinato, resta traumatizzato; non ha visto solo una sorta di fantasma, come ritengono in famiglia: peggio, ha visto un povero, una visione dalla quale avrebbe dovuto essere invece ben protetto. Nell'attenta strategia della narrazione e degli spazi, il film si può considerare diviso in tre parti, ambientate nella ricca casa Park, con alcuni intermezzi nella derelitta casa dei Kim, disoccupati che vivono di lavoretti e di espedienti. Nella prima assistiamo all'infiltrazione dei Kim (il pater familias è interpretato da Song Kang-ho, uno degli attori coreani più familiari anche agli spettatori occidentali, essendo una presenza costante in diversi film sia di Bong Joon-ho che di Park Chan-wook) nella casa dei Park. Dopo che il figlio, grazie ad una raccomandazione, è stato assunto in casa Park come insegnante d'inglese della figlia maggiore, inizia una cinica spietata strategia per scalzare da casa i diversi collaboratori domestici (l'autista, l'amata domestica) per soppiantarli con gli altri membri della famiglia, fino alla saturazione. Una spietata arrampicata sociale narrata con toni da black comedy, dove la vetta da raggiungere è quella di una posizione redditizia ma comunque servile. Nella seconda, che assume cadenze thriller, assistiamo invece alla guerra tra poveri, letteralmente senza esclusione di colpi, che si scatena all'interno della casa, tra nuovi e vecchi servitori e tra diversi livelli di parassitismo. Dopo che tutti i poveri sono temporaneamente ripiombati nei rispettivi inferi (il bunker, il seminterrato), la terza parte, una sorta di finale quasi horror alla luce del sole del lussuoso giardino dei Park, vede infine l'incontro catastrofico tra i tre gruppi famigliari, dove la lotta dei poveri con i poveri e dei poveri con i ricchi arriverà ad un climax apocalittico. Paradossalmente, più il film vira verso il genere e verso il grottesco, più la rappresentazione dei personaggi diventa partecipe, empatica. La sorte della famiglia di bastardi approfittatori dei Kim alla fine ci tocca emotivamente, ma altrettanto ci tocca quella della coppia dell'ex-domestica, o dei Park. Nella commedia dell'arte (quasi goldoniana), degli equivoci e dei travestimenti di Parasite, ed è questo uno dei suoi meriti, non ci sono buoni e non ci sono cattivi. Le famiglie dei poveri sono arrampicatrici, subdole, parassitarie; quella dei ricchi ammette la presenza dei corpi estranei dei servi solo se hanno la capacità di rispettare spontaneamente invisibili ma inflessibili limiti, e detestano finanche l'odore di persone costrette a vivere in ambienti malsani o nell'ordinaria promiscuità urbana. Ma tutti i gruppi di personaggi in fondo sono legati al loro interno da affetti famigliari e coniugali; sembra addirittura che possa sbocciare un amore interclassista, la figlia dei Kim si preoccupa di preparare un piatto di cibo per l'uomo che poco dopo la assalirà, e in effetti sembra che nessuno voglia veramente fare del male agli altri, almeno fino all'esplosione di follia finale. Tutti appaiono in fondo funzioni di un sistema codificato e ineluttabile, dove i sentimenti umani sono in subordine rispetto alla rigida classificazione economico-sociale. Il sistema capitalistico, con le sue regole e la sua divisione in caste, fino agli intoccabili, non solo è dominante, ma è pervasivo, ineluttabile, privo di alternative. Nel film aleggia un altro fantasma, oltre a quello nascosto nel bunker: un grottesco universo distopico al di sopra del 38° parallelo, non un modello sociale, economico, politico e di convivenza umana alternativo, ma un altrove degno solo di irrisoria parodia. Quando il figlio nel finale immagina una fuga onirica in cui la famiglia (ormai definitivamente menomata, come in The Host) possa tornare a riunirsi, è di nuovo grazie a un illusorio progetto di accumulazione capitalistica: l'eventuale happy end passerebbe attraverso l'arricchimento, l'accesso al mondo della ricchezza e alle sue case; anche se ancora abitate dai fantasmi della povertà, del passato e della violenza. LE VERITA' (Le vérité - The Truth) di Hirokazu Kore'edaKore'eda Hirokazu ha evidentemente gradito le atmosfere francesi (il suo Un affare di famiglia aveva vinto la Palma d'oro l'anno scorso al festival di Cannes) tanto da girarvi il suo nuovo film. L'oggetto del suo cinema è sempre lo stesso, film dopo film: la famiglia e i legami di sangue (reali o presunti) tra i protagonisti. Non cambia tematica con Le verità, ma, per non fare passi falsi nel contesto cinematograficamente esotico sembra situare la sua opera al punto esatto di mediazione tra altri due film francesi recenti. In Sils Maria (2014) di Olivier Assayas, la Binoche era un'attrice al vertice di maturità della propria carriera, che come in Eva contro Eva si trovava a fare i conti con un'attrice molto più giovane e spregiudicata (interpretata dalla Grace-Moretz); in Quello che so di lei (La sage femme, 2017) di Martin Provost, Catherine Deneuve era una donna esuberante e estroversa che torna a sconvolgere la vita della figliastra seria e responsabile. Ne Le verità, la Deneuve è Fabienne, un'attrice cinica e tagliente - che ha sacrificato qualsiasi affetto alla sua carriera e alla sua vocazione, forte come un destino - che deve fare i conti con un'attrice molto dotata con cui si trova a recitare sul set di un nuovo film (con una crasi del suo ruolo in La sage femme e di quello della Binoche in Sils Maria), mentre la Binoche passa al ruolo della figlia seria e risentita che in Quello che so di lei era affidato a Catherine Frot. Anzi, da Sils Maria sembra mutuato anche il tema del rapporto paradossale tra presente e passato delle protagoniste: nel film di Assayas la protagonista interpretata dalla Binoche si trova a girare un revival della commedia che interpretò da giovane, ma trovandosi stavolta nel ruolo dell'antagonista matura; qui la Deneuve è addirittura sul set di un film di fantascienza intimista, in cui ha il ruolo di una donna che invecchia, mentre sua madre, autoesiliatasi nello spazio per sfuggire a una malattia, rimane sempre giovane. In entrambi i casi c'è un cortocircuito tra giovinezza e maturità, presente e passato, che dovrebbe sfociare in esiti paradossali e conturbanti (anche se lo spunto fantascientifico ne Le verità rimane un'enunciazione, senza che Kore'eda si sforzi a trarne suggestioni visive). Come i film citati, anche Le verità indaga sul particolare rapporto che si instaura tra madri e figlie (in Sils Maria la Binoche si confrontava non solo con il doppio “negativo” dell'attrice giovane, ma anche con quello “positivo” di una fedele assistente interpretata da Kristen Stewart), risultando probabilmente un film più vicino all'animo e alle esperienze del pubblico femminile. Kore'eda gira un film forse non strettamente necessario, ma elegante, servito dalle grandissime rappresentanti di due diverse generazioni del cinema francese, girato con grande sobrietà e quello che si potrebbe quasi definire pudore. Il suo è ancora più del solito un film “da camera”, con poche ambientazioni e quasi tutte in interni. Ai locali della villa di Fabienne, dove la figlia Lumir si è recata in visita in compagnia del marito americano e della figlioletta, o nel giardino di casa, si contrappone, in rappresentazione del mondo esterno, l'ortus conclusus del set cinematografico, altrettanto chiuso e autosufficiente, dove si giocano altri dramma materni-filiali: sia nella rappresentazione (le protagoniste del film nel film sono appunto madre e figlia, anche se le rispettive età sono paradossalmente invertite), sia nella trama principale, dove Fabienne si trova a fronteggiare una rivale che potrebbe avere l'età di sua figlia (e che, per complicare le cose, assomiglia fisicamente e artisticamente ad un'amica-rivale della stessa Fabienne, morta anni prima in un incidente che potrebbe essere stato un suicidio, e al quale lei non è forse estranea). La partita si gioca a quattro, perché oltre a Fabienne, oltre alla figlia Lumir e all'attrice giovane, c'è un quarto personaggio femminile (quelli maschili sono accessori: mariti disoccupati sempre a rischio alcolismo o relegati al ruolo di cuochi, assistenti servili come maggiordomi, ecc.) a completare il quadro, la bimba figlia di Lumir. C'è in effetti nel film un altro tema, oltre a quelli enunciati, insito in modo eclatante nella professione della protagonista Fabienne, e in modo più latente anche in quella di sceneggiatrice di Lumir: è il tema del rapporto tra realtà e finzione (anche se bisogna dire che il plurale del titolo c'è solo nella versione italiana). C'è ovviamente la realtà, anche psicologica, e la finzione mimetica del cinema; c'è l'ambiguità delle motivazioni umane (l'amica di Fabienne si è suicidata? Fabienne è responsabile della sua morte?); c'è la realtà dei fatti e il racconto soggettivo dei personaggi (l'autobiografia di Fabienne, appena pubblicata, è zeppa di falsità e omissioni); ancora c'è la bugia metaforica e il regno della fantasia (dove il nonno potrebbe essersi trasformato in una tartaruga e viceversa). Se quindi una riconciliazione ci sarà, sarà propiziata ancora una volta con le armi della finzione: una falsità scritta a tavolino, recitata con innocenza dalla voce più innocente di tutte: e allora anche una vecchia diva come Fabienne/Catherine può abbassare le sue difese e forse aprire il suo cuore. MADEMOISELLE (Ah-ga-ssi o The Handmaiden) di Park Chan-wookCerto non si può pretendere che un regista faccia sempre lo stesso film. Eppure mi rattrista il confronto tra Mr. Vendetta (2002), un capolavoro sporco, crudo e crudele, in cui i personaggi si dibattono tra le maglie del fato cieco e dell'ingiustizia, e Mademoiselle, con la sua fredda geometria narrativa, la sua eleganza manierista, il suo erotismo patinato da rivista vintage per soli uomini. Ancora in Stoker, malgrado lo sradicamento geografico-culturale (il film è un una produzione statunitense firmata da Ridley e Tony Scott e interpretata da Mia Wasikowska e Nicole Kidman), Park Chan-wook sembrava aver trovato nella sceneggiatura di Wentworth Miller molti dei temi a lui congeniali: la sessualità, l'erotismo, la malattia, la violenza, la morte. In Mademoiselle, invece, pur tornando a scrivere la sceneggiatura, e in collaborazione con un suo fido collaboratore come Jeong Seo-Gyeong, sembra girare un film meno personale, o meglio trasformare le proprie tematiche in un esercizio manieristico e sterile. Eppure il film è ricco di spunti potenzialmente fecondissimi, a cominciare dal confronto tra le culture, che schiera un maniero gotico-vittoriano (e stanze segrete e biblioteche proibite e sotterranei che nascondono mostri) che rimanda a quella europea, i personaggi popolari coreani, l'aspirazione alla raffinatezza e all'eleganza – anche morbosa e sadica - della cultura giapponese, incarnata da Hideko - l'unico personaggio principale realmente giapponese della vicenda (ma l'attrice è in realtà anch'essa coreana...) - ma anche rappresentata dagli abiti, gli accessori, gli ambienti e gli arredi, e pure citata più volte attraverso la tradizione nipponica degli shunga, le stampe esplicitamente sessuali in cui si esercitarono anche sommi esponenti dell'arte figurativa come Utamaro e Hokusai, il cui Sogno della moglie del marinaio da immagine si incarna quasi in un motivo narrativo. La storia è quella di Sook-hee (la frizzante Kim Tae-ri), giovane coreana cresciuta in un ambiente di ladri, trafficanti e truffatori nell'epoca dell'occupazione nipponica della Corea, che viene fatta assumere al servizio di Hideko (Kim Min-hee), una nobildonna giapponese, per propiziarne la seduzione da parte del sedicente conte Fujiwara, in realtà un truffatore coreano che medita di liberarsi di Hideko facendola internare in manicomio dopo essersi impossessato del suo patrimonio. Hideko è concupita però anche dallo zio Kouzuki, un coreano che aspira a sua volta ad assurgere al rango della nobiltà giapponese, e che ha allevato la giovane in un'atmosfera di vizio e di depravazione dopo la scomparsa della moglie. Già da queste poche righe di riassunto si capisce come uno dei temi che stanno a cuore a Park in questo film è quello della menzogna e della dissimulazione. Sook-he si finge domestica, Fujiwara, il cui incarico è di produrre libri falsi, si finge nobile e giapponese e la sua seduzione ha un secondo fine. A scompigliare qualsiasi piano però interviene il desiderio, con i suoi obiettivi dichiarati e previsti e quelli dissimulati e soprattutto quelli inattesi. Desiderio di denaro, di potere, di prestigio sociale, di amore, di sesso, di piaceri morbosi, di dominazione. La storia si falsifica, di divide in tre parti, in ciascuna delle quali lo sguardo narrativo cambia, e come in un gioco di specchi gli stessi fatti vengono visti e rivisti da prospettive differenti; e dove le alleanze, i tradimenti, i giochi di attrazione e di seduzione mutano continuamente la loro conformazione geometrica. Poiché i protagonisti sono in realtà quattro e non tre, ai tre atti segue un epilogo che vede rientrare in gioco in prima persona il perverso zio di Hideko, cui viene affidato da Park Chan-wook il compito di iniettare nella storia la dose di violenza sadica che nei suoi film non può mai mancare. Il film però, seguendo le evoluzioni di una trama che sembra scritta da Boileau e Narcejac (i formidabili autori di Les diaboliques), allunga i suoi tempi (il cinema coreano non sembra conoscere la concisione), si ripete (dove un film occidentale a sorpresa avrebbe risolto le rivelazioni con fulminei flashback, Park Chan-wook torna indietro a riraccontare pedissequamente, a chiosare e precisare), per avvoltolarsi alla fine in una serie di finali cui non giova il rilievo che assume il personaggio un po' macchiettistico (e afflitto da un trucco posticcio) di Kouzuki. Di sicuro Chan-wook ha voluto giocare come il gatto con il topo con lo spettatore, non solo facendolo entrare in un labirinto narrativo in cui le aspettative di chi guarda sono continuamente disattese e spiazzate, ma anche mettendolo in un'ambigua situazione voyeuristica, ponendolo, mentre assiste a diverse sequenze di levigato sesso saffico, nella stessa situazione premasturbatoria degli ospiti (rigorosamente maschili) di Kouzuki, invitati nella sua villa per assistere e ascoltare le letture di libri pornografici, spesso di argomento sado-masochistico, tenute da un'impassibile geisha cui è permessa solo qualche goccia di sudore. Forse Mademoiselle avrebbe potuto e voluto essere un capolavoro di cinema di squisito e perverso erotismo orientale, un noir torbido e conturbante, una riflessione beffarda sul voyeurismo spettatoriale, una riflessione sui difficili rapporti storici tra Corea e Giappone, e su quelli affascinanti e problematici tra la cultura (anche erotica) occidentale e orientale. Ma purtroppo è un film prolisso, manierista, addirittura lezioso, che fruga tra le pieghe dell'erotismo (evocando la letteratura e l'arte figurativa) fino a evocare i fantastici amplessi tra donne e piovre di Hokusai, ma autoimponendosi dei limiti precisi nelle scene di nudo. In Mr. Vendetta una donna malata geme per la sofferenza; al di là della parete, dei ragazzi equivocando i suoi gemiti si eccitano e si masturbano. A mio parere vale più questa singola crudele, straziante sequenza, che mescola sesso, malattia, caso, incomprensione tra esseri umani, incolpevolezza della colpa, senso dell'assurdo e mancanza di senso, equivoco del peccato, che l'elegante ridondante sontuosa costruzione narrativa di Mademoiselle. BURNING - L'AMORE BRUCIA (Beoning) di Chang-dong LeeBurning ha una combustione molto lenta. Si muove adagio, indugia, si perde in meandri inessenziali. Come molti film coreani, ha una durata eccessiva, che sfiora le due ore e mezza. Prima che le fiamme inizino ad ardere, ce ne vuole del tempo. L'interesse dello spettatore cresce lentamente, ipnoticamente, se non si è già smarrito nel frattempo. La narrazione si muove secondo un doppio movimento. Il primo è lineare (boy meets girl). Jong-Su - un campagnolo che tira avanti facendo lavori di fatica ma che sogna di diventare uno scrittore - conosce una ragazza, Haemi. Anzi, è lei a riconoscerlo: da piccoli abitavano nello stesso villaggio e lei gli racconta episodi che lui non ricorda: lui le disse che era brutta, lui la salvò dopo che a sette anni era caduta in un pozzo. Con la scusa di dare da mangiare a un fantomatico gatto, lei lo attira a casa sua e nel proprio letto. Quando torna da un viaggio in Africa, Haemi è accompagnato da una nuova conoscenza, Ben. Ben è giovane, ricco, affascinante. Tra i tre si instaura un rapporto di amicizia, ma Ben è un rivale troppo forte per Jong-Su, che pure è ormai innamorato di Haemi. Poi c'è una cesura. Haemi balla a seno nudo davanti ai due giovani, disegnando movimenti armoniosi contro la luce del tramonto. Poi scompare. Da quel momento il film prende un movimento spiraliforme. Il racconto, e Jong-Su, cominciano a girare in tondo, stringendosi sempre più verso un punto focale, che vede al centro Ben e non più Haemi. Tutto si ripete. Jong-Su torna in tribunale al processo del padre, i suoi pedinamenti si avvitano infruttuosi, i suoi sopralluoghi lo riportano più volte alle serre che Ben ha affermato di divertirsi a incendiare (ma le fiamme che si vedono sullo schermo sono ben poche), o a girare intorno ad un pozzo che forse non esiste e non è mai esistito; compare una seconda ragazza che non è più Haemi, Jong-Su vede Ben sbadigliare di nuovo. Pur in un contesto sociale puntualmente caratterizzato (il contrasto tra città e campagna, tra ricchi e poveri, il mondo del lavoro precario, la presenza fantasmatica della propaganda del Nord – già un doppio maligno -, il consumismo di bassa lega), Burning diventa un racconto sempre più astratto. Che conduce a due film epocali del cinema occidentale. La narrazione è è disseminata di falsi indizi, di realtà apparenti. La stessa Haemi è il fulcro di una serie di falsi indizi, di racconti non verificati: forse è caduta in un pozzo, forse no; forse c'era un gatto a casa sua, o forse no. Anche le parole hanno uno statuto ambiguo. Ben parla di serre incendiate, ma forse usa cinicamente un'atroce metafora che Jong-Su non osa interpretare. Come in Blow Up (e poi in modo diverso ne La conversazione di Coppola) in Burning la realtà appare ambigua, indecifrabile, illusoria. Forse c'è stato un delitto; forse no. L'uomo cerca di decifrare una realtà che si fa beffe di lui. Il film di Antonioni si conclude davanti a un campo di tennis dove due mimi giocano una partita con una pallina invisibile agli occhi; all'inizio di Burning Haemi davanti agli occhi stupiti e affascinati di Jong-Su – aspirante scrittore di romanzi, quindi potenziale inventore di storie immaginarie – sbuccia e mangia un mandarino che non esiste. Diversi sono i modi di indagine (la fotografia in Blow Up, le intercettazioni acustiche ne La conversazione, la ricostruzione mentale in Burning – di nuovo, Jong-Su è un romanziere e quindi quella che viene ricostruendo è una trama romanzesca), ma la realtà continua a sfuggire e a non farsi ingabbiare in una costruzione ermeneutica. Jong-Su è irretitito da una donna che ha forse una vita immaginaria, e che ad un certo punto scompare (“come un filo di fumo” dice allusivamente Ben). Per Jong-Su inizia allora un movimento vertiginoso, in una ricerca che si svolge a circoli viziosi. Accadeva la stessa cosa a Scotty ne La donna che visse due volte, anche se Haemi a differenza di Madeleine/Judy non resusciterà o non ricomparirà più. Come in Vertigo, i pedinamenti portano Jong-Su in un museo; come quello di Madeleine, il passato di Haemi appare ambiguo e forse irreale. C'è forse un pizzico di Hitchcock anche nel movimento all'indietro della mdp, che esce dalla finestra di Jong-Su seduto davanti alla tastiera del pc per allontanarsi dall'edificio e inquadrare la città, che sembra citare al contrario la sequenza iniziale di Psyco, dove la panoramica sulla città diventa un movimento in avanti della mdp che si avvicina ad un edificio per penetrare infine dalla finestra nella camera dove si trovano Marion e il suo amante. Psyco ci porta a sua volta al tema del doppio. Se Haemi era il doppio amoroso di Jong-Su, la sua potenziale metà, il suo oggetto del desiderio perduto, Ben è a sua volta la metà oscura di Jong-Su, la sua ombra negativa. Ben è tutto quello che Jong-Su non è: ricco mentre lui è povero, annoiato da Haemi tanto quanto Jong-Su ne è affascinato; Jong-Su regala l'orologio a Haemi mentre Ben glielo sottrae; è spregiudicato e libero nelle sue azioni quanto Jong-Su si sente impacciato e gravato da colpe non sue (la separazione dei genitori, la condanna del padre). Iconicamente, la distanza tra i due è marcata dall'abbigliamento o dai mezzi con cui i due giovani si muovono, uno scalcinato camioncino contro una Porsche fiammante. Jong-Su si misura quindi in una lotta contro la propria ombra, in un regno di ombre dove Haemi non c'è più, il passato è una terra mobile senza punti di appiglio, e dove molti indizi non arrivano mai a costituire una prova. Quando Jong-Su compie la sua giustizia immaginaria, si spoglia di tutti i propri vestiti e li brucia nel rogo della propria ombra maledetta; ripetendo sia il rogo con cui il padre lo costrinse a celebrare il distacco dalla madre che l'ha abbandonato sia i roghi (mai visti e forse inventati) che Ben ha detto di appiccare per mero divertimento; e nello stesso tempo bruciando simbolicamente una parte di sé. In un rogo romanzesco, che in fondo in fondo nessuno ci costringe a prendere per vero. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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