Gli Oscar 2017E così non ha vinto La la land. Ossia, ha vinto solo 6 statuette. 6 statuette (dopo il record delle 14 nomination il risultato si ferma ben al di sotto dei film più premiati) che sembrano dire che è il miglior film del 2016. E invece no. O forse sì, così come annunciano smarriti nel pasticcio delle buste Warren Beatty e Faye Dunaway. E invece no, proprio no. Il miglior film è Moonlight. Alla fine la luna splende più delle stelle. La figuraccia è come minimo interplanetaria, ammesso che la cerimonia non venga seguita anche da altri mondi, e stupisce che non sia stata fatta in Italia, dove siamo abituati alla guittaggine e alla cialtroneria, e dove le cerimonie delle premiazioni cinematografiche ci hanno da sempre abituati all’improvvisazione e all’approssimazione, bensì a Hollywood, la capitale mondiale del cinema, là dove il cinema è una cosa serissima, e prima di tutto un’industria fortissimamente strutturata, fatta da tostissimi professionisti e dove non si può sbagliare un colpo. Ma forse l’erronea proclamazione di La la land è un clamoroso caso di lapsus freudiano in diretta mondiale, l’inconscio della società dello spettacolo che sceglie libidicamente il piacere e il godimento delle canzoni e delle danze tra le stelle (anche a costo di imparare che i sogni hanno un salatissimo prezzo) mentre il Super Io aveva deciso di autopunirsi imponendosi la scelta di un film dove si intrecciano profondamente le problematiche di razza, di genere sessuale e di emarginazione sociale. E’ un dato statistico di fatto che il cinema cosiddetto “leggero”, spesso più difficile da realizzare ad alti livelli rispetto a quello drammatico, viene discriminato quando si tratta di festival e premi. Così La la land ha brillato ai Golden Globe, dove i film comedy godono di una categoria protetta rispetto all’ingombro dei drama, ma è andato sotto agli Oscar, dove alla leggerezza del musical è stata schiacciata dal peso specifico dell’impegno, tanto più necessario (e praticato) dopo le polemiche sugli Oscar troppo wasp dell’anno scorso e vista la temperie politica dell’incipiente era Trump, di cui si agognava la fine ancora prima che iniziasse. Ma paradossalmente, nel momento in cui non si fa altro che parlare di fake news, le false notizie sono uscite direttamente da una busta dell’Academy, con il Dolby Theatre di Los Angeles trasformato in un teatro dell’assurdo. Devo ammettere subito (forse dovevo farlo ancora prima) che al momento attuale non ho ancora visto Moonlight, e quindi non posso fare paragoni ragionati. Per quello che ho visto, La la land poteva meritare il massimo riconoscimento, per l’insieme delle sue componenti e per il risultato complessivo, che è soffuso di una grazia rara. Ne ho avuto prove (anche indirette) sui social, dove ho letto dibattiti accesi (spesso incentrati sulla domanda capziosa, ma significativa, che suona come: La la land è o non è un capolavoro?), ho trovato molti che hanno visto il film più volte nel giro di pochi giorni (non credo succeda più molto spesso), e molti altri che sono rimasti sconvolti (non è un termine eccessivo) dall’unhappy end. Ma il finale non sarebbe stato così scioccante se Chazelle, oltre che farci innamorare dei suoi personaggi, non ci avesse emotivamente travolto con l’artificio della storia rinarrata in maniera alternativa nel sottofinale, trasportata dall’onda irresistibile della musica e impaginata con immagini fantastiche. Questo, indubbiamente, è cinema, nella sua forma migliore e al meglio della sua forza di fascinazione. Per fortuna dalla contesa è uscita vincitrice Emma Stone; anche qui, non sono in grado di fare paragoni con tutte le sue concorrenti (mi spiace già in anticipo per la Portman in quello che poteva essere il ruolo della sua vita; sono un fan della Huppert che sicuramente sarà stata perfetta in Elle; e Meryl Streep resta una delle attrici più mirabolanti, che ha vinto tutto), ma guardate la Stone nella scena del provino. Guardate come entra ed esce nel personaggio del suo personaggio, come in pochissimo tempo, sul suo volto in primo piano, si alternano emozioni differenti. Arriva al provino con la tensione della candidata messa alla prova, entra nel personaggio iniziando la finta telefonata ridendo e scherzando, poi si fa seria, e quindi è travolta da una tristezza struggente; poi il provino viene interrotto da un evento esterno e la Stone rimane sospesa tra Mia e il personaggio che Mia sta interpretando; sul suo viso permane il turbamento che l’ha sconvolta, che lascia gradualmente il posto allo sgomento, alla rabbia incredula. Se La la land è puro cinema, la Stone (senza nulla togliere a Gosling forse in una delle sue interpretazioni migliori, alle prese con un personaggio comunque credibile e non banale, e che ha dovuto imparare, oltre che a ballare e cantare come la sua partner, pure a suonare il pianoforte) è la sua profetessa. Meritate anche le statuette per scenografia, fotografia (i concorrenti erano in gran parte in gara con atmosfere fosche e cineree), e ovviamente colonna sonora (di grande coerenza interna oltre che fascino) e canzone (City of Stars). Casey Affleck vince per Manchester by the Sea con un personaggio introverso e sommesso, con un’interpretazione tutta in sottrazione, che però il partito preso del regista spinge sin sulla soglia del rischio di manierismo. Il film vince anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Che è bella, a volte secondo me superiore alla regia, dello stesso Lonergan, con una grande attenzione ai rapporti tra i personaggi e con un’attenzione inconsueta per le figure secondarie (anche la Williams meritava forse per l’intensità regalata a una delle scene migliori del film, in cui la mdp si tiene a rispettosa distanza proprio quando le regole del melodramma avrebbero spinto a sfondare le distanze e a infierire con i primi piani); ma ha, a mio parere, una pecca imperdonabile: il lungo flashback in cui Lee rivive tutta la sua tragedia, seduto in silenzio davanti all’avvocato che sta tentando di affidargli la tutela del nipote. Il flashback racconta tutto - il preambolo, lo svolgimento, l’acme, il dopo -, con un’ansia di spiegare tutto (ebbene sì: uno “spiegone”, direbbero quelli di Gazebo), che nel resto del film non è mai così pesante e invadente. Il fatto che poi il regista decida di accompagnare il tutto (presente e passato, uniti dalla solennità della malinconia) con lo scontatissimo, abusatissimo cosiddetto Adagio di Albinoni, non fa che esaltare e sottolineare quello che secondo me è un vero e proprio errore di sceneggiatura. Non conosco neppure i concorrenti al miglior film straniero (tranne l’ineffabile Toni Erdmann), ma non posso che essere d’accordo con il premio all’iraniano Il cliente. Fahradi fa un cinema personale, complesso (ma comprensibile a tutti), profondamente umanista ma tutt’altro che consolatorio, con la capacità di conferire a quelle che potrebbero sembrare storie ordinarie la tensione e il pathos che li rende dei feroci e ineludibili thriller dell’anima. Il regista ha festeggiato a Londra, in forte e clamorosa polemica con la politica trumpiana; ma battendolo sul tempo la prima a dichiarare che non avrebbe messo piedi nella patria di Capelli arancioni era stata la sua attrice, Taraneh Alidoosti. Un film che ha decisamente perso è Arrival, del canadese Villeneuve, pluricandidato che rimane praticamente a mani vuote. E’ in effetti un film involuto, che sembra e forse è ripiegato su stesso, che manca della grandiosità del film di fantascienza e che, per perseguire un effetto di spiazzante rovesciamento narrativo finale, non riesce a guadagnare un’intima necessità. Sul nostro sito c’è chi l’ha trovato profondo, e chi l’ha trovato pretenzioso. Tra i film d’animazione, l’europeo La mia vita da zucchina ha scontato forse l’eccessiva depressività dei toni, già messa in evidenza sul nostro sito dal contributo di Oruam Norac nel suo Face/Off. Tra gli esclusi ovviamente ci interessava in particolare la sorte di Fuocoammare, che concorreva come miglior documentario: ma si trattava anche in questo caso di un film difficile pur nella semplicità del suo messaggio, con uno iato non sanato tra le sue diverse componenti. Al contrario, il monumentale (dura più di sette ore) documentario sulla vicenda Simpson O.J. è, come recita il sottotitolo, Made in America, con quell’impasto tra sport e spettacolo, violenza e avvocati, tragedia privata e evento pubblico che ne faceva anche nei pronostici il vincitore naturale e predestinato.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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