PREMESSA Non mi piacciono molto le classifiche, così opto per una rassegna (s)ragionata a volo d'uccello sull'annata cinematografica, non necessariamente in ordine di gradimento, ma per libere associazioni d'idee e per assonanze, lasciando in coda una breve rassegna sul cinema italiano che si potrebbe definire di genere. Parliamo di nuovo di una stagione anomala, con uscite ritardate di progetti bloccati dal Covid, con i cinema aperti a singhiozzo, guastata da una pandemia che non molla il colpo, ibridata dalle uscite su piattaforme di film inediti o quasi nelle sale. In attesa di scoprire se e fino a quando potremo continuare a vedere cinema al cinema, con le sale già in sofferenza tendenziale e oggi prese a mazzate dall'emergenza sanitaria, o se le sale da proiezione (e tutti i lavoratori che vi sono impegnati) sono destinate all'estinzione come l'umanità intera in Don't Look Up. Sia per i migliori che per i più deludenti, parto da quelli che si possono definire Autori, e che quindi suscitavano le aspettative più alte. Si potrebbe cominciare con delle domande. Ci sono ancora gli autori? Cioè registi paragonabili ai grandi autori del passato? E chi ci sta dentro e chi no? Se ne potrebbe discutere a lungo. Nel frattempo vi propongo la mia selezione, tra conferme e disillusioni, riscoperte e irritazioni, gloria y dolor. Ci sono autori che perseguono tenacemente un proprio percorso e una propria poetica, declinandola attraverso situazioni, personaggi e generi differenti. Una coerenza che talvolta viene letta come ripetitività e mancanza di idee. Può darsi che a volte sia così, ma è per l'appunto la caratteristica per cui li chiamiamo autori, e che li differenzia dagli anonimi professionisti capaci di passare da un genere e da un tono all'altro senza lasciare traccia riconoscibile del proprio pensiero o del proprio stile. Nella colonna a destra ci sono i film di cui trovate una recensione argomentata qui Into the Wonderland (o, più semplicemente, cliccate sui link quando li trovate sui titoli dei film nel testo); di alcuni film, come Rifkin's Festival, Madres paralelas, Una donna promettente, Pieces of a Woman, No mataras, 3/19, Atlantide, Sesso sfortunato o follie porno, The Shift (oltre che di altri film come Borat, Nomad, Mank), ho scritto più o meno ampiamente sull'annata 2021 di SegnoCinema. UN ANNO DI CINEMA D'AUTORE: CONFERME E SCOPERTEAl primo posto della mia personalissima classifica (che una classifica non è) metto Woody Allen, un autore di capolavori (comici e no) assoluti, ma dalla filmografia talmente sterminata da includere per forza di cose anche film che abbassano la media. Ma, visto dopo la dolorosa pausa del lockdown, Rifkin's Festival ha suscitato in me grande affetto e tenerezza. Forse lo smalto di un tempo si è un po' appannato, ma Rifkin's è Allen allo stato puro, cinefilia + umorismo + malinconia, più un nichilismo razionalista ma profondamente umanista, nel quale mi ritrovo in pieno. Lunga vita ad Allen. Altro autore dai molti titoli Pedro Almodovar, che nel 2021 ha portato addirittura due film sugli schermi: La voce umana, ispirata a Jean Cocteau con Tilda Swinton in un fiammeggiante one-woman-show e Madres Paralelas. Il secondo mi è piaciuto molto. Temi classicamente almodovariani (identità, rapporto con la madre, famiglie non tradizionali) ma allargati stavolta in un discorso che guarda anche alla storia e alla politica. Non sono, come qualcuno ha obiettato, due film in uno; c'è un tema comune, la perdita, e le soluzioni esplicitate: la memoria e l'affetto empatico e solidale. Ottima Cruz e promettente la Smit (già vista nell'interessantissimo No mataras, se lo trovate su qualche piattaforma dategli un occhio e leggete la mia recensione su Into the Wonderland o su SegnoCinema). Sorrentino torna a dividere, pur con un film in teoria nettamente meno divisivo del passato. E' stata la mano di Dio è una storia autobiografica, un'educazione sentimentale ambientata nella Napoli cui l'arrivo di Maradona conferì un inaspettato stato di grazia. Gli viene rimproverato di essere un film spezzato in due (in modi diversi sembra una caratteristica di molti film recenti), ma racconta di un evento spartiacque; di essere un racconto frammentario ma racconta dell'adolescenza, un'età dove si accumulano le esperienze più disparate (comprese quelle più imbarazzanti e inconfessabili), tra le quali alcune si disperderanno nel nulla, altre saranno seminali nell'andare a formare il carattere e indirizzare la propria esistenza. Per me il miglior Sorrentino dopo La grande bellezza. Anche Paul Schrader sembra incapace di fare film che non declinino in forme diverse i suoi personaggi e i suoi temi abituali: l'Eroe colpevole in cerca di Redenzione; l'Innocente da salvare; il Mondo Corrotto; il malvagio Corruttore che diventa l'incarnazione del Male, da punire e da fermare. Il collezionista di carte ne è l'ennesima declinazione, ricca di tematiche, di coerenza e di stile; ma Schrader, come altrove, non è in grado di sostenere registicamente la soluzione finale, rischiando anche stavolta di inficiare negli ultimi minuti tutto il lavoro meticolosamente costruito. Wes Anderson è un autore che non mi sta particolarmente a cuore (stucchevole ossessione per la simmetria e umorismo spesso puerile) e il suo The French Dispatch è stato accolto con freddezza e insofferenza dalla critica, rimproverato di vuoto formalismo, manierismo gratuito e autocompiacimento. Niente da obiettare, eppure paradossalmente a me il suo ultimo film ha suscitato simpatia: una vera e propria gioia per gli occhi (tutti da premiare scenografi, costumisti, truccatori, art director, fotografi, ecc.), che sarebbe stata tale anche se il film fosse stato parlato in marziano, un cast fantascientifico allegramente sprecato, e un commovente omaggio a Jacques Tati. Non gli ha giovato aver collocato in prima posizione l'episodio forse leggermente più gustoso, con i luminosi nudi integrali della Seidoux che illuminano lo schermo. Buono anche il risultato di Martone, con Qui rido io. Non conosco sufficientemente la storia del teatro napoletano e detesto cordialmente la canzone napoletana classica, ma il film mi è parso un interessante ritratto biografico e sociale con un Toni Servillo in grande spolvero. Ancora Servillo (già in Sorrentino) duetta/duella con Orlando in un altro film concentrazionario nei quali Di Costanzo sembra essersi specializzato, Ariaferma. Un carcere in via di dismissione diventa il palcoscenico in cui carcerati e guardie possono scoprire un nuovo modo di relazionarsi, come esseri umani, al di fuori dei ruoli prestabiliti. Un buon film, un po' programmatico e prevedibile, molto compreso in se stesso. Jonas Carpignano dipinge con adesione un ritratto di adolescente e un'educazione sentimentale sullo sfondo di un mondo permeato dalla malavita e da una complice e silenziosa connivenza in A Chiara. Il nome di Jan Komasa non dirà molto al pubblico italiano. In Polonia è una specie di divo grazie alle sue ricostruzioni storiche della Seconda Guerra Mondiale (Warsaw 44). Nel 2021 è uscito da noi Corpus Christi, su un giovane ex-detenuto che si spaccia per un parroco di campagna. Grande intensità drammatica ed emotiva, con un protagonista perfetto (Bartosz Bielenia). Il suo film successivo, The Hater, ha una tematica molto attuale e interessante (le fake news, l'odio in rete, l'uso distorto dei social), ma è meno bello e risolto. Alcuni dei film che mi sono piaciuti di più nel corso della stagione hanno paradossalmente in comune il tema della maternità: oltre al già citato Madres paralelas rientrano nella categoria il piccolo ma prezioso Petite maman, nuova indagine di Celine Sciamma nell'identità femminile; il Leone d'oro La scelta di Anne, di Audrey Diwan, con l'ottima Anamari Vartolomei, intensa e drammatica storia di aborto in un'epoca in cui l'aborto era un reato e una vergogna; Mai raramente a volte sempre, ancora un film sull'interruzione di gravidanza, racconto minimalista e delicato firmato da Eliza Hitman; e Pieces of a Woman, diretto da un regista maschio (di origine ungherese: Kornel Mundruczò) che l'ha però scritto insieme alla compagna, che racconta un lutto dolorosissimo, tra piano-sequenza virtuosistici (tra cui quello celeberrimo del parto) e un fitto impianto metaforico (ottima la performance di Vanessa Kirby); cui si potrebbe aggiungere il marocchino Adam, di Maryam Touzani, in cui lo sviluppo narrativo convenzionale naufraga e si disperde (positivamente) nella scoperta della maternità. Un'altra donna dietro la macchina da presa (Jasmila Zbanic) per raccontare di una madre che tenta disperatamente di salvare i propri figli: è la protagonista (interpretata da una febbricitante Jasna Duricic) di Quo vadis, Aida?, che agli Efa ha scippato il titolo a Sorrentino. Non un film eccelso, ma il tema (la strage operata dai serbo-bosniaci a Sebrenica, con più di 8000 civili maschi massacrati sotto gli occhi impotenti delle truppe delle Nazioni Unite; e il dovere della memoria) si impone da sé. Genitori invece alle prese con figlie forse assassine sia nel francese La ragazza con il braccialetto che nell'americano La ragazza di Stillwater, entrambi film di buona fattura drammatica. E' stato d'altra parte l'anno delle donne, che si sono imposte in quasi tutte le principali competizioni internazionali. Il premio Oscar è andato a Chloe Zhao, autrice sino-americana che continua a dedicare la sua attenzione a protagonisti e gruppi sociali marginali, per motivi etnici o socioeconomici. Bello il suo Nomadland, con la McDormand vagabonda on the road in un'America in crisi economica e morale. Viaggia in treno invece la protagonista finlandese di Scompartimento n. 6, che vanta varie candidature di prestigio. Un classico boy meets girl (anzi in questo caso girl meets boy), con diffidenza iniziale e conseguente attrazione, ma con un'ambientazione particolare tra vecchi vagoni e la lunga notte russa. Regia di Juho Kuosmanen, da segnalare la protagonista di Seidi Haarla. Un altro premiato (Orso d'oro a Berlino) che imposta un discorso ancor più corrosivo verso la propria società d'origine è Bad Luck Banging or Loony Porn. Il film di Radu Jude è tre o quattro film in uno, di genere e stile differenti (un prologo porno hardcore, una passeggiata per Bucarest che sembra girato in cinema-veritè, un catalogo enciclopedico, un farsesco processo scolastico) apparentemente disomogenei ma che finiscono per comporre un pamphlet critico assai preciso e circostanziato verso la società rumena - e non - contemporanea. Tra i film segnalati con premi negli ambiti di festival e concorsi spiccano almeno un altro paio di titoli, firmati da esordienti (ma con le spalle solide). Florian Zeller trasforma la sua piece teatrale The Father in un film maturo, compatto e intenso (malgrado il suo sviluppo apparentemente frattale e labirintico), avendo a disposizione un fuori classe come Anthony Hopkins, in un'interpretazione perfetta e calibratissima. Sul tema cinema e malattia, ha conquistato un paio di Oscar tecnici anche The Sound of Metal, primo lungometraggio di Darius Marder. Una donna promettente è stato segnalato soprattutto per la sceneggiatura, che mescola horror, romantic comedy, film sociale su machismo e #metoo, revenge movie. Ma Emerald Fennell, già sceneggiatrice e show runner per serie tv, compie anche un notevolissimo lavoro registico, tessendo in realtà un'opera raffinatissima anche nella composizione e nella simbologia visiva e nel commento musicale e costringendo Carey Mulligan a una performance mutante e proteiforme. Piuttosto bistrattato, mi ha abbastanza convinto anche Nuevo orden, del messicano Michel Franco, crudele rappresentazione di un mondo percorso da divisioni profonde dove può improvvisamente scoppiare la rabbia, all'apparenza incontrollabile ma utile al potere per instaurare un nuovo ordine ancora peggiore del precedente. Nulla di nuovo, forse, ma con una rappresentazione insieme secca, brutale e visionaria. Buon cinema latinoamericano anche in arrivo dal Festival del cinema africano, asiatico e d'America latina, ma non vale la pena darne conto perché purtroppo rimasto senza distribuzione italiana. Irrompe infine negli ultimi giorni dell'anno sugli schermi come una cometa impazzita Don't Look Up, imponendo ancora una volta un prodotto targato Netflix nel dibattito critico, mediatico e social, com'è successo solo negli ultimi mesi con Squid Game, Strappare lungo i bordi o l'ultimo film di Sorrentino. Adam McKay (La grande scommessa, Vice) dirige una commedia in cui l'apocalisse si trasforma in una commedia amara e grottesca e dove gli sberleffi continuano anche dopo la fine del mondo e i titoli di coda. Cast "spaziale" (Di Caprio, Lawrence, Streep, Lawrence, Chamelet, Ariana Grande) e indubbia aderenza allo spirito dei tempi; il modo in cui politica e media reagiscano in modo inadeguato, meschino e grottesco a tragiche emergenze che minacciano il genere umano (cambiamento climatico, pandemia) è già impietosamente sotto gli occhi di tutti. Leggi anche: 2021: LE DELUSIONI D'AUTORE 2021: I FILM ITALIANI DI GENERE (da Freaks Out a Diabolik...)
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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