Enzo Ceccotti, ladruncolo inseguito dalla polizia, cade nel Tevere, le cui acque contaminate da rifiuti tossici e radioattivi gli donano una forza immensa e la capacità di rimarginare le ferite subite. Enzo ne approfitta per sradicare bancomat e rapinare furgoni blindati, ma il suo destino cambia quando il suo percorso incrocia quello di Alessia, una ragazza orfana e abusata che vive in un mondo di fantasia - in cui Enzo si trova ad incarnare suo malgrado il suo eroe Jeeg Robot - e quello dello Zingaro, criminale di borgata inguaiato con una gang di narcotrafficanti napoletani che sogna la svolta definitiva alla propria vita con il salto nella criminalità di alto livello e destinato anch’egli ai superpoteri e allo scontro finale tra bene e male.
Il fumettista Menotti, lo sceneggiatore Nicola Guaglianone e il regista-attore Gabriele Mainetti, cui appartengono le sei mani che hanno scritto e diretto Lo chiamavano Jeeg Robot, sono nati rispettivamente nel 1965, nel ’73 e nel ‘76. Nel ‘79 sugli schermi televisivi italiani faceva il suo esordio Jeeg Robot: difficile quindi non pensare, visti gli esiti, ad un’educazione sentimentale e culturale profondamente segnata, tra gli altri, dall’immaginario dei manga e degli anime. La coppia Guaglianone e Mainetti, d’altronde, aveva già firmato i cortometraggi Basette e Tiger Boy, incentrati su personaggi fumettistici ed eroi mascherati. Jeeg Robot porta in effetti a maturità, in termini di linguaggio e di metraggio, quello che in Tiger Boy era in nuce, passando per la stessa inquadratura (il protagonista mascherato di spalle, che contempla dall’alto la città che si stende ai suoi piedi), ma rovesciando tempi e funzione della maschera: nel secondo caso tolta dal ragazzino protagonista negli ultimissimi fotogrammi, solo dopo aver superato la vergogna degli abusi subiti e aver riconquistato dignità e fiducia in se stesso - anche grazie al travestimento e alla ri-personalizzazione in chiave mitico-eroica; nel primo indossata da Enzo esclusivamente nell’ultima sequenza a marcare un’identità (ri)conquistata grazie all’assunzione di responsabilità e all’amore e all’interesse per gli altri. L’obiettivo perseguito dagli autori[i] sembra in sé un’impresa da superpoteri: unire cioè la tematica superomistica, anche se revisionista[ii], e l’iconografia manga (con tutti gli stereotipi, i cliché e l’immaginario pop-puerile-kitsch che variamente le caratterizzano) con il cinema italiano, notoriamente refrattario all’utilizzo dei generi e al registro del fantastico. Distrutto, letteralmente e simbolicamente (come dichiarato da Mainetti stesso), il cinema italiano “due camere e tinello” nella scena in cui Enzo sperimenta a casa sua i nuovi superpoteri piegando un calorifero, gli autori si spingono oltre, aggiungendo agli ingredienti una love story in piena regola e virando verso i toni cupi e violenti del poliziottesco d’epoca o meglio ancora verso le grandi crime fiction (Romanzo criminale, Gomorra) che hanno riportato un po’ di nerbo in una cinematografia nazionale spesso innocua ed esangue. L’operazione, già ad alto rischio, viene ulteriormente complicata (e risolta) dagli autori torcendo tutti gli stereotipi dei relativi generi di riferimento. Così i cliché supereroici, sia narrativi (superforza, mascheramenti, scontro finale nello stadio gremito) che tematici (la presa di coscienza che i superpoteri implicano responsabilità oltre che privilegi – lezione appresa dallo stesso Hiroshi-Jeeg nella saga animata) vengono snaturati e rivitalizzati in versione italo-romanesca-sottoproletaria, grazie all’ambientazione nei paesaggi della periferia romana, all’uso del dialetto, alla prosaicità dei personaggi e delle loro motivazioni (fino ad un combattimento finale ambientato sì durante un affollatissimo derby, ma nei deserti esterni dello stadio; o fino alla maschera da supereroe fatta a maglia); mentre il cotè romantico viene “sporcato” affidandolo ad un emarginato e ad una spostata psichica e accostando scene da fiaba in abiti da principessa (come quella del tram) ad un brutale accoppiamento nel camerino di un negozio, unico rapporto sessuale tra i due mostrato nel film. Il virtuoso attrito ricercato tra schematicità dei generi e autentica e dolorosa verosimiglianza dei personaggi è esemplificato dall’impossibilità della missione che Alessia assegna al suo Jeeg: salvare l’amato (nonostante tutto) padre, insalvabile anche per il più potente dei supereroi, in quanto già morto in maniera ignobile nell’espletamento di un lavoro – letteralmente – di merda. Scrittori e regista dislocano in effetti i personaggi su un duplice registro di superficialità (o bidimensionalità) e di profondità (o tridimensionalità), caratteristiche attribuite convenzionalmente le prime al fumetto, le seconde - in ordine crescente - a cinema e letteratura. Così i personaggi sono bidimensionali quando mangiano solo budini e guardano solo porno, quando bamboleggiano in un loro mondo fumettistico, quando strabuzzano gli occhi e digrignano i denti come in un anime; acquistano spessore quando rivelano un proprio doloroso passato, quando imparano a d amare, quando insegnano agli altri a provare sentimenti, o anche quando rivelano un’anima queer e il sogno di essere amati ed apprezzati. Nella miscela di crudeltà e ironia, di realismo criminale borgataro e immaginario pop-vintage, di scene d’azione girate senza le goffaggini dei tv-movie all’italiana ed effetti speciali dignitosamente vorrei-ma-non-posso, all’interno di sequenze efficacemente montate e di location ben scelte e fotografate, si muove un gruppo di interpreti perfettamente adeguati per maschere e fisicità, al centro del quale spicca il terzetto di protagonisti: l’inaspettata Ilenia Pastorelli (al suo debutto al cinema dopo la partecipazione a “Il Grande fratello”) che smussa le note stridenti dando candore, trepidazione e fragilità alla sua svitata Alessia; Luca Marinelli, in bilico tra il Cesare del pressoché contemporaneo Non essere cattivo e un ghignante Joker di periferia; e infine Claudio Santamaria, supereroe egoista e riluttante, appesantito ed abulico, nella cui filmografia sembrava già iscritte le tappe premonitrici dell’approdo a Jeeg Robot: il volto e il corpo del gangster di Romanzo criminale, la voce italiana dell’eroe mascherato nei Batman della trilogia di Nolan (nonché in The Lego Movie) e l’incarnazione del fumettistico e ineffabile Pentothal in Paz! (e ad Andrea Pazienza, sia detto come sommo complimento, Lo chiamavano Jeeg Robot, col suo umorismo, la sua violenza e la sua tenerezza, probabilmente sarebbe pure piaciuto). [i] e già sostanzialmente fallita, paradossalmente, dal nostro regista più titolato a cimentarsi con i generi, Gabriele Salvatores, autore dell’anodino ed esangue Il ragazzo invisibile. [ii] La rinascita del cinema dei supereroi grazie alla Cgi ha prodotto anche parallelamente una copiosa messe di parodie o problematizzazioni delle rispettive tematiche; caso vuole che contemporaneamente a Jeeg approdi agli schermi italiani anche il più scorretto (sinora) degli eroi mascherati, Deadpool.
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Il racconto di una manciata di anni nella vita di Antonia Pozzi, una ragazza della buona borghesia milanese degli anni ’30, amante della fotografia e della montagna. E una dei più grandi poeti italiani del ‘900, anche nel giudizio di Eugenio Montale. Senza saperlo, perché muore suicida a 26 anni in un prato di Chiaravalle. Cito Filomarino, prodotto da Guadagnino, ricostruisce la storia di Antonia con rigore filologico, ed un minore interesse verso la sua leggibilità narrativa e anedottica (l’innamoramento per un suo docente, mentore spirituale e culturale; l’opposizione del padre autoritario; le amiche e i giovani cui cerca di donare il proprio eccesso di amore). L’intento ambizioso è quello di penetrare nell’animo poetico della giovane, mettendo in tensione la fisicità della Caridi e le parole poetiche, anche scritte, di Antonia, nel suo breve bruciante arco vitale, tra l’incoercibile forza del desiderio e l’amore incondizionato per la cultura e per la natura; tra i palpiti della giovinezza e una malinconia invincibile che non cede che alla morte.
Julián, che vive e recita a Madrid, rinuncia a curare un male incurabile e si prepara a vivere da uomo gli ultimi giorni di vita e a sciogliere i suoi ultimi nodi: sistemare l’amato cane (l’eponimo Truman), congedarsi dal figlio lontano. L’amico di sempre, Tomás, parte dal Canada per tributargli un ultimo saluto. Gay racconta con sobrietà e perfino azzardando qualche tocco di malinconico umorismo i pochi giorni che i due trascorrono insieme, senza preoccuparsi di raccontarci il retroterra della loro amicizia, e senza costringerci alla commozione con il patetismo a tutti i costi. Film di dialoghi (ma anche di cose non dette) e di attori, che chiama a lavorare sotto le righe e attraverso le sfumature due mattatori come l’argentino Darín (Il segreto dei suoi occhi) e lo spagnolo Cámara (Parla con lei). Ai Goya ha sbancato aggiudicandosi i premi per il miglior film, la regia, la sceneggiatura e per entrambi gli attori protagonisti.Quo vado? ormai più che un film è una sorta di totem, forte di oltre 65 milioni di incasso che lo affiancano ad Avatar sul podio dei maggiori incassi italiani di sempre e che sfidano qualsiasi discorso critico. In un anno particolarmente felice per la commedia italiana, con prodotti maturi come Perfetti sconosciuti, La pazza gioia, Io e lei, Medici e Nunziante proseguono diritti per la propria strada, sfruttando la maschera irresistibile di Checco Zalone, che stavolta è un impiegato dell’ufficio Caccia e pesca che a causa dell’abolizione delle provincie rischia di perdere il mitico posto fisso, sua ragione di vita. Piegandosi ma non spezzandosi, rinuncia a qualsiasi buonuscita e si fa sballottare nelle sedi più ostiche, dall’Italia al Polo Nord. Emblema dei vizi e dei difetti dell’italiano medio (?), qui messo a confronto con altri stili di vita e altre culture, Checco macina efficacemente gag e battute. Il dibattito se poi la bilancia penda di più verso la critica sociale o l’autoassoluzione consolatoria, rimane aperto e legittimo.
1985. I magistrati Falcone e Borsellino vengono praticamente rapiti dalle forze dell’ordine e trasferiti con le rispettive famiglie sull’isola-prigione dell’Asinara per motivi di sicurezza. L’operazione non servirà ad impedire che entrambi vengano assassinati dalla mafia nel fatidico 1992. Intanto, in un tempo buzzatianamente sospeso, tra le carte del maxiprocesso in preparazione che non arrivano, il lavoro in uno stato di segregazione e un’atmosfera da vacanza balneare obbligata, nella convivenza forzata emergono differenze di carattere e di temperamento, ma anche lo spirito cameratesco di due uomini con gli stessi valori ed obiettivi. Infascelli confeziona un biopic su due eroi civili tutto in anticlimax, dal respiro forse più televisivo che cinematografico, ma dove i rischi dell’agiografia e della martirologia sono scongiurati in partenza grazie alla prospettiva adottata. Nel contesto, appropriate le performance del quartetto di interpreti principali.
Tomás, adolescente irrequieto ma forse semplicemente ancora un po’ bambino, viene spedito a raggiungere il fratello maggiore Fede a Città del Messico. Con lui e il suo coinquilino Santos, universitari squattrinati, scioperati e disimpegnati (estranei alla protesta che infiamma l’Università) e poi con Ana, leader studentesca, inizia un improbabile viaggio alla ricerca di Epigmenio Cruz, il musicista amato da loro padre, che ha segnato la loro infanzia e che, si dice, una volte fece piangere di commozione Bob Dylan. In Güeros si respira nouvelle vague a pieni polmoni, da Godard fino a tutti gli epigoni a seguire (come il bertolucciano I sognatori si conclude in una strada in preda alla rivolta giovanile, che potrebbe essere di oggi come degli anni ’60), speziata con influenze dello scrittore cileno-messicano Bolaño (vedi la Città del Mexico bohémienne e la ricerca della poetessa scomparsa ne I detective selvaggi). Ruizpalacios tenta di fissare su pellicola, grazie anche ad una fotografia virtuosistica, in b/n e 4:3 (premiata al Tribeca), quei frammenti di vita irripetibili ed inconcludenti che, senza saperlo, costituiscono l’indimenticabile poesia della giovinezza. Tra i premi, Orso d’Oro a Berlino per l’opera prima e 5 Ariel in Messico.
QUESTI GIORNI di Giuseppe PiccioniQuesti giorni potrebbe essere catalogato un road movie al femminile. Ma il road movie, inutile dirlo, è maschio, antropologicamente maschio. Dalla preistoria, la donna è condannata dalla maternità alla stanzialità; al maschio, che deve procurare il sostentamento della femmina e della prole, spettano i rischi del viaggio e i piaceri dell’avventura. Ma se l’antropologia (con l’aiuto dei contracettivi) cambia, anche il cinema rispecchia - ci mancherebbe altro - il cambiamento. Mentre il cinema americano, con un immaginario ancora tutto maschile, ha disseminato di violenza le strade di donne guerriere o ribelli (da Meyer-Tarantino a Thelma e Louise), il cinema italiano fino ad oggi ha esitato nell’esporre i propri personaggi femminili ai rischi della strada. Piccioni, di giovani donne, ne mette in gioco addirittura quattro. Una viaggia per affrontare un nuovo lavoro e cercare una vita differente; una per sfuggire alla malattia e al pensiero della morte; una per concedersi una vacanza prima di diventare madre e moglie; una per allontanarsi da un amore sbagliato. Da Gaeta a Belgrado, affrontano un viaggio in cui nulla succede e tutto cambia, ognuna in spostamento verso una maturità diversamente cercata e perseguita lungo l’itinerario, attraverso gli incontri, le confidenze e le rivelazioni, e le ore di questi giorni mobili e decisivi. Ma la cosa più strana è che non sono sole: in una manciata di mesi, il cinema italiano si affolla improvvisamente di donne in viaggio, e di uomini immobili sullo sfondo: quelle che si danno alla pazza gioia, e che scappano da una condizione che le etichetta e le costringe, o le indivisibili che (a piedi, in furgone, in scooter, in motoscafo, in barca, a nuoto) cercano un’uscita da un destino sociale e famigliare sostanziato di carne e sangue. Le donne e le ragazze di queste storie (tra gli otto sceneggiatori le donne sono tre), mentre prendono il largo dalle rispettive situazioni famigliari, attraversano addirittura le medesime stazioni: come l’acqua, in cui rischiano di morire e da cui rinascono come veneri prosaiche e affaticate; o come le cliniche e gli ospedali in cui attraversano la sofferenza. Rischiano, soffrono, muoiono, rinascono; ma si sono messe in moto: sarà inevitabile incrociarle lungo la strada.
HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino8 odiosi, ok, ma nell’emporio di Minnie sono in 9, anzi in 10. Senza contare O.B., se si vuole, 8 uomini + 1 corpo estraneo. Chi è o cos’è Domergue? Solo “la prigioniera”? Qualcosa di più, o meglio, qualcosa di diverso. Domergue è brutta e cattiva; il suo aspetto si fa terrificante, i denti si spezzano, la faccia e i capelli si imbrattano di vomito, sangue e materia cerebrale, ma i suoi poteri hanno del magico: sbeffeggia la propria impiccagione e predice la morte altrui cantando; vede ciò che gli altri non vedono, ha dalla sua pozioni letali e aiutanti in grado di assumere mutate sembianze, strappa gli arti ai suoi nemici portandoseli appresso come macabre appendici, e il suo fratello diabolico emerge – niente meno che - da sottoterra.
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AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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