Il viaggio finale di Julieta verso l’incontro con Antía, che rimane fuori campo, segna il punto di risarcimento all’infrazione di una regola (come in ogni melodramma che si rispetti). La lacerazione da rimarginare è certamente sentimentale, ma ancora di più è normativa: ad essere ricomposta è infatti quella che appare come una regola esistenziale, si potrebbe dire filogenetica, che innerva tutta la narrazione precedente. La regola inespressa può essere così enunciata in breve: alla base di ogni nuova relazione c’è una separazione, alla base di ogni nuova vita una morte, reale o simbolica. La declinazione è puntuale, quasi ossessiva: Julieta conosce Xoan quando (perché) si è separata dall’uomo del treno, lasciandolo a morire in solitudine ma concependo proprio in quel momento la nuova vita che sarà Antía; la loro relazione si rafforza e diventa stabile solo al prezzo della morte della moglie di Xoan; il padre di Julieta incontra un nuovo amore, e genererà un nuovo figlio, grazie alla malattia e alla morte della moglie; Antía trova l’amica del cuore proprio mentre suo padre muore, ed è dopo la morte di Xoan che si stringe il legame tra Julieta e la figlia. Perfino la separazione tra le due porta Antía a generare tre nuove vite; ma a restare sola è Julieta. La sua relazione con Lorenzo non deriva dalla separazione da Antía, come si potrebbe credere, ma dalla morte di Ava, prendendo avvio nell’ospedale in cui lei è ricoverata e nel cimitero dove viene sepolta. Con la separazione tra madre e figlia la catena si interrompe e provoca il trauma, quell’abisso nel tempo in cui Julieta e Antía non si vedranno più. ll dramma di Julieta (e del film) sta precisamente in questa frattura non risanata, in questa separazione che non genera nulla. Pure - contrapposta all’altra figura celibe del film, ma in chiave distruttiva, Marian - Julieta cerca di ricostruire un rapporto con la figlia attraverso la sublimazione della scrittura, la rievocazione affabulatoria del passato. Non è sufficiente, come non le basta sfiorare la propria morte sacrificale. Per ricucire la ferita, scopriamo alla fine, bisogna che Xoan muoia di nuovo, che anneghi una seconda volta. La regola è salva. Solo da una nuova morte potrà nascere la possibilità di un nuovo incontro.
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Gli Stati Uniti si rendono conto di non aver vinto un conflitto armato da tempo. Il Pentagono si rivolge a Michael Moore per avere consigli su quale Paese invadere la prossima volta. Moore parte in missione: senza spargimenti di sangue e senza mire petrolifere attraversa Europa e dintorni (Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Italia, Norvegia, Portogallo, Slovenia e Tunisia) alla ricerca di Paesi da invadere simbolicamente, in cerca di buone politiche e buone pratiche da riportare in patria al fine di migliorare la vita dei propri connazionali. La cosa meno riuscita del film è probabilmente proprio la metafora militaresca che ispira sia il paratesto - che tra “invasioni” nel titolo e i militari in locandina rischia di essere fuorviante per il potenziale spettatore del film rispetto ai suoi reali contenuti - che alcuni pretesti narrativi come la cerimonia della bandiera a stelle e strisce “piantata” sui territori “occupati”. In realtà, sul modello di Sicko, in cui nel 2007 Moore paragonava il sistema sanitario liberista statunitense con quelli “umanistici” di Canada, Gran Bretagna e Francia, o addirittura della vituperata e demonizzata Cuba, non di un’invasione si tratta, bensì di un grand tour, alla ricerca quindi di costumi e modi di vita differenti, talvolta pittoreschi, e di cultura e di civiltà scomparse (almeno negli Usa). A differenza del grand tour classico, però, quello di Moore è un itinerario che più che alla formazione e all’elevazione morale, culturale e spirituale del singolo (e facoltoso) viaggiatore, punta alla dimostrazione di una precostituita tesi di carattere politico. E cioè che l’Europa , sotto moltissimi aspetti, adotta politiche molto più efficaci ed efficienti rispetto agli Usa per conseguire la felicità dei suoi cittadini. Per dimostrare la propria tesi Moore non indietreggia di fronte a nessuna semplificazione, nessuna superficialità dello sguardo, nessuna tendenziosità del punto di vista. Volando radente sopra la superficie che nasconde le profonde problematiche e le destabilizzanti contraddizioni delle società nazionali visitate, Moore ad esempio dimostra come gli italiani vivano una vita beata e dedita ai piaceri della vita grazie al generoso sistema dei congedi lavorativi retribuiti (ferie, nozze, maternità, feste nazionali), che li rende per giunta lavoratori più gratificati e produttivi; o come i francesi curino la qualità dell’alimentazione fin dall’infanzia e gestiscano un sistema di welfare che sarebbe anche alla portata degli americani, se solo questi riducessero gli abnormi investimenti militari. Moore gioca costantemente con gli stereotipi, ma andando a confermarli per mezzo di effetti di spiazzamento: così gli italiani sono gaudenti – certo, grazie alle ferie! i francesi sono dei buongustai – perfino le mense scolastiche sembrano ristoranti stellati! i tunisini tutelano i diritti delle donne – anche grazie ai partiti islamisti! gli sloveni hanno le università gratis – ci vanno pure gli americani! Superficialità e schematizzazione, peraltro autodenunciate attraverso il registro dell’ironia (l’Italia, per rimanere su un terreno dove ci è più agevole riconoscere lo stereotipo e il suo livello d’intensità, è definita il paese di Gesù, don Corleone e Super Mario...), non sono però imputabili a carenza d’informazione o di approfondimento, o ad una faziosità ipocrita e preconcetta, quanto funzionali al progetto politico – ed etico – che mira ad individuare forme di gestione dei vari aspetti della vita umana che abbiano per obiettivo la soddisfazione dei bisogni, dei desideri e delle esigenze degli individui e delle collettività e non l’accumulazione dei profitti. Come un’Alice sovrappeso, Moore si muove con falso stupore in una wonderland che è etimologicamente un’utopia, cioè un non-luogo, un posto che non esiste nella realtà e che purtuttavia offre il miraggio di un mondo migliore. Il finale stesso del film offre una chiave d’interpretazione favolistica, chiamando in causa Dorothy (gli Usa) che aveva dimenticato di avere in realtà sempre posseduto le scarpette (ideali ed idee) per sfuggire al distorto mondo di Oz (il capitalismo liberista). L’operazione è semmai quella di perseguire la prospettiva utopica non nel mondo delle favole, ma attraverso la concretezza di pratiche esemplari realizzate, realizzabili ed esportabili; o meglio, reimportabili nella propria patria dopo un lungo periodo di oblio e allontanamento da valori ed idee già presenti nella fondazione e nella storia della nazione americana. E’ un catalogo delle meraviglie che mostra carceri non ciecamente punitive; scuole che mettono al centro la libertà e la creatività del bambino; università che garantiscono l’accesso a tutti, indipendentemente dal reddito; aziende che favoriscono la partecipazione dei lavoratori al proprio successo; nazioni che ammettono con onestà intellettuale i propri errori e ne tutelano la memoria per evitare di ripeterli. Nello sfogliare questo catalogo, Moore passa dai toni frivoli della prima parte a quelli più gravi quando entrano in gioco temi come la memoria storica, la giustizia, il ruolo delle donne, fino ad accenti autenticamente dolorosi quando vengono mostrati i brutali pestaggi di agenti americani ai danni di persone inermi. Analogamente, anche il linguaggio, come già in altri suoi docu-film, va a comporre un pastiche in cui si mescolano interviste a persone reali, spezzoni di film, filmati di repertorio, riprese di telecamere di sorveglianza. Ancora una volta (e il pensiero corre di nuovo a Sicko, che affronta i temi della cura e della salute), è inoltre il corpo stesso dell’autore/testimone Moore – eccessivo, sgraziato, sbagliato, sciatto, malvestito – a farsi elemento linguistico incarnato, simbolo somatizzato (quasi cristologico) dei mali e dei peccati della nazione1. Libro dei desideri per un’America frustrata, ma anche specchio deformante in grado di suscitare la riflessione dello spettatore europeo, il film di Moore vuole tenere aperte le porte della speranza e dimostrare con la sua (falsa) ingenuità che un altro mondo – un’altra America – è realmente, positivamente, umanisticamente possibile. Trump – e rispettivi elettori e omologhi – permettendo. 1 Moore non ha potuto partecipare alla promozione del film: nei giorni dell’uscita era in ospedale, pare per un’intossicazione dovuta all’acqua inquinata dal piombo di Flint, Michigan, la città raccontata nel film d’esordio Roger and Me, prima sfruttata e devastata e poi abbandonata alla propria rovina dall’industria pesante americana. |
AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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