THE POST di Steven SpielbergSpielberg continua con la sua revisione (da ottica democratica) della storia americana: dopo film come Amistad, Il colore viola, Lincoln, Il ponte delle spie, eccoci ora negli anni ’70 a parlare di stampa e potere, proseguendo la tradizione epica del cinema sul giornalismo americano, che va dal citatissimo L’ultima minaccia (cui ho preso in prestito a mia volta il facile titolo del post) a Tutti gli uomini del presidente, fino al recente Il caso Spotlight e, in un certo senso, a Snowden. Il potere - concepito come arbitrio, come legittimità di agire alle spalle della Nazione per fini inconfessabili e inconfessati, mettendo a rischio la vita dei propri concittadini, arrogandosi il diritto di nascondere la verità, di mentire, di adottare politiche interne ed estere tutto meno che etiche – e la stampa - concepita come atto di fede nella verità, nella giustizia, nel dovere di informare i cittadini e di metterli nelle condizioni di giudicare la politica, qualsiasi sia il prezzo da pagare – arrivano al punto di collisione quando, nel 1971, emergono delle carte segrete uscite dal Pentagono che dimostrano che diversi governi e presidenti americani hanno mentito sulle reali motivazioni e sull’andamento della guerra in Vietnam, in cui tanti giovani americani hanno perso o rischiano la vita e teatro di stragi che hanno colpito anche la popolazione civile. Quando il New York Times viene bloccato da un’ingiunzione governativa, spetta al meno blasonato e più provinciale Washington Post raccogliere la staffetta (costituita fisicamente da scatoloni pieni di migliaia di documenti, i cosiddetti Pentagon Papers) e sfidare le ire e l’ostilità del governo Nixon, le conseguenze penali e la prigione, e anche le conseguenze finanziarie (il giornale stava in quegli stessi giorni per essere quotato in Borsa) e di conseguenza il destino e la sopravvivenza stessa del giornale. A salire sulla barricata è il direttore Ben Bradlee, ma a permettergli di superarla è Katharine Graham, editrice del giornale dopo la morte del padre e del marito, cui spetta la decisione finale se dare alle stampe il materiale. Interpretata da una trepidante intrepida Meryl Streep, donna sola in un mondo in cui tutte le leve del comando (nella politica, nella finanza, nell’informazione) sono in mano a maschi, la Graham è solo una delle figure femminili, che, anche se con ruoli e capacità d’influenza decisamente inferiori, costellano il film (la moglie di Bradlee, la figlia della stessa Graham, l’assistente della Procura, la giornalista del Post, le donne in attesa fuori dal tribunale dove si decide le sorti del conflitto Governo vs Post e Times), mettendo in luce la presenza femminile in un mondo apparentemente di soli uomini (la sceneggiatura è stata scritta da una donna e un uomo, Liz Hannah e Josh Singer). Il resto è lavoro, ancora prima che etica (“che lavoro pensi che facciamo qui?” chiede il direttore a un collaboratore dubbioso), di cui ci vengono mostrate fasi e retroscena, in cui emerge anche la dimensione collettiva e condivisa del lavoro: le ricerche delle fonti, l’ordinamento dei documenti, i pareri legali, la composizione dei testi, la stampa in rotativa. Anzi, è un lavoro connaturato con l’etica (almeno in una dimensione ideale e hollywoodiana), un lavoro che ha l’etica come fonte, come regola e come obiettivo, consapevole che “il giornalismo è la bozza della storia” (citazione ripresa recentemente anche da papa Bergoglio), e che sulla base della storia le azioni degli uomini verranno giudicate. Non è un caso che il film sia stato realizzato durante il primo anno di presidenza di Donald Trump, che dalla sua discesa in campo, e ancora più e ancora peggio dal momento della sua elezione, conduce una personale e asimmetrica guerra personale e politica (ma, di nuovo, nel senso di un esercizio oppressivo e mistificatorio del potere più che di un’azione finalizzata al bene pubblico) contro la libera stampa, a base di accuse, insulti, false notizie. Per non parlare poi di Paesi dove i giornalisti invisi al potere vengono assassinati o imprigionati: secondo il rapporto di Reporters sans frontières, sono stati circa una quarantina i giornalisti e le giornaliste assassinati deliberatamente nel mondo nel corso del 2017 (oltre a quelli rimasti uccisi per “effetti collaterali”), mentre sono 380 quelli detenuti o tenuti in ostaggio (a non molta distanza dall’”ovvio” primato cinese, per numero di giornalisti imprigionati spicca un aspirante futuro membro dell’Unione europea, la Turchia di Erdogan). Un film quindi, malgrado l’ambientazione storica, l’aspetto esteriore vintage e la convenzionalità dell’assunto drammaturgico e stilistico, di stretta e necessaria attualità. Sapido il finale, in cui spiamo dalle finestre all’interno di due edifici: il primo è la Casa Bianca, dove ascoltiamo Nixon dare al telefono ordini espliciti di perpetuo ostracismo verso il Washington Post; il secondo è il Watergate Building, dove assistiamo all’effrazione all’interno della sede del Comitato nazionale democratico: l’episodio che diede inizio allo scandalo Watergate, fatto esplodere dallo stesso giornale, che causò l’impeachment e poi le dimissioni del presidente repubblicano... Mauro Caron invece lo ritiene un film retorico e convenzionale: leggi la sua recensione in Hollybloog.
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Dr. Caron e Mr. NoracRicordate quel film di John Woo in cui Travolta e Cage si scambiavano le facce e così il buono aveva la faccia del cattivo e il cattivo aveva la faccia del buono? e poi il cattivo si sfregia la faccia da solo in modo che il buono non possa più riavere la propria faccia e poi il buono colla faccia da cattivo uccide il cattivo colla faccia da buono e così via? Archivi
Novembre 2023
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