NOIR IN FESTIVAL: UNA RASSEGNA CRITICA DELL'EDIZIONE 2022Il Noir in Festival è indubbiamente una manifestazione di egregia qualità, che mescola in modo intrigante cinema, letteratura e altri media. Vedendo la selezione del concorso cinematografico internazionale dell’edizione 2022, viene però spontaneo chiedersi quale orizzonte sia stato disegnato intorno al concetto di cinema noir, un genere che si è caratterizzato nel tempo (a partire dal suo periodo d’oro negli anni ‘40-50) con caratteristiche e specificità piuttosto precise. Ma partendo dalla visione degli otto film in concorso quest’anno sarebbe assai arduo ricavare una definizione o una delineazione del noir, sia pur aggiornato alla contemporaneità: si sono visti film horror, film sperimentali psicologico-metafisici, drammi bellici, film di spionaggio, film sul doppio, thriller complottistici e così via. Il noir diventa così, nella visione dei direttori artistici del festival, una definizione-contenitore dove stipare le paure e i malesseri contemporanei, legati all’identità, al controllo, alla solitudine, alle minacce incombenti di guerre e malattie, alla violenza su donne e bambini, e fino alla distruzione totale dell’umanità, un’ipotesi che non è più un divertissment da cinema e letteratura fanta-apocalittici ma sta diventando una sinistra plausibile prospettiva concreta, tra guerre, minacce nucleari, pandemie, sconvolgimenti climatici. E’ la prospettiva che si delinea nel film (fuori concorso) messo malignamente in apertura dai curatori del festival, l’anglosassone SILENT NIGHT, diretto da Camille Griffin. Come nel Melancholia di Lars von Trier, quella che dovrebbe essere una felice riunione di famiglia (lì era un matrimonio, qui una festa natalizia; la padrona di casa è Keira Knightley), si trasforma nella seconda parte nell’angosciosa attesa di un evento catastrofico. Il cambiamento climatico, forse lo zampino dei russi, chissà: l'umanità sembra destinata ad essere spazzata via da un'ondata di morte. I personaggi, e il film, finché possono, sembrano prenderla con filosofia, tra bisticci tra bambini, pettegolezzi tra adulti, segreti che si svelano, rancori e desideri sopiti che vengono alla luce. C'è una pillola consigliata dal governo e dagli scienziati, pensata per andarsene con dignità risparmiandosi sofferenze atroci, ma non tutti sono disposti a prenderla; molti commentatori ne hanno approfittato per rispolverare in maniera problematica il dibattito vax/no vax, ma qui il caso è leggermente diverso; nel film la pillola serve a dare la morte, il vaccino anti-Covid serve ad evitarla. Non è escluso invece che il film faccia un riferimento ironico e polemico al “suicidio” britannico della Brexit: la pillola letale si chiama infatti, semplicemente, “Exit”. Le cose migliori del Festival si sono viste decisamente al di fuori del concorso; a chiudere i battenti è stato collocato un mito cinefilo come Park Chan-wook (l'autore di Mr. Vendetta, della relativa trilogia e di Old Boy), con un titolo tra l'altro perfettamente adeguato all'occasione come Decision to Leave. Park abbandona il manierismo di certi suoi ultimi film (penso il particolare a Mademoiselle), per girare un romantic mistery che mescola La donna che visse due volte e una versione dark di In the Mood for Love. Non tutto è perfetto (uno dei protagonisti scompare a metà film senza spiegazioni, il finale è un po' lungo e contiene uno dei metodi di suicidio più improbabili mai visti), ma si tratta di un film intrigante, divertente, ben recitato, ben diretto (a Cannes ha vinto il premio per la regia e ci sono delle scene riprese in soggettiva dall'interno di uno smartphone...). Stavolta non si può negare che siamo in pieno noir: c'è la femme fatale (per quanto meno sexy di quanto uno spettatore occidentale è tenuto ad aspettarsi), mariti morti ammazzati, detective irretiti nella tela della vedova nera. Park inspiegabilmente nega, ma c'è tanto dell'Hitchcock di Vertigo: musiche hermanniane, pedinamenti, paura dell'altezza, la storia che si ripete quando il dramma sembra ormai compiuto, la donna che ritorna, l'esito finale. Proprio ad Hitch è dedicato il documentario di Mark Cousins My Name Is Alfred Hitchchock. Il prolificissimo Cousins (tra i suoi temi niente di meno che la storia universale del cinema, Orson Welles, ma anche il fascismo in Italia) dopo qualche titubanza ha accettato di occuparsi del maestro del brivido, rivedendo in sequenza i suoi 52 lungometraggi e riordinando poi i materiali in un'antologia per temi (desiderio, tempo, altezza, ecc.), evitando scrupolosamente di cadere nei luoghi comuni e nel già detto: basti dire che il tema “altezza” è trattato senza quasi fare riferimento all'imprescindibile (fin dal titolo) Vertigo. L'interessantissimo viaggio di due ore nel cinema, nel pensiero e nella visione di Hitchcock è accompagnato nella versione originale dalla flemmatica voce... di Hitchcock. Impossibile ma affascinante; la voce in realtà è quella dell'attore Alistair McGowan. C'è noir nell'universo (del concorso nazionale)? Forse, qua e là. Magari ce n'era di più nella sezione dedicata alla letteratura, dove il prolifico ed eclettico Harlan Coben si è aggiudicato il Raymond Chandler Award e Fuoco di Enrico Pandiani il Premio Scerbanenco dedicato al noir nazionale. O nella bella locandina disegnata da Paolo Bacilieri che omaggia Le iene nel suo trentesimo compleanno. E probabilmente ce n'era di più nel concorso italiano, una specie di vero e proprio grand tour nell'Italia più nera, dalla Roma horror di PIOVE (che si aggiudica il Premio Caligari), alla Calabria 'ndranghetosa di UNA FEMMINA (appena un soffio sotto Piove nel gradimento dei giurati e vincitore della menzione speciale), alla Sardegna delle faide familiari nel maloreddu western IL MUTO DI GALLURA, alla Puglia malavitosa di TI MANGIO IL CUORE, alla Milano violenta degli anni di piombo di ERO IN GUERRA MA NON LO SAPEVO, per tornare nella capitale, tra pugilato e malavita, con GHIACCIO. Il concorso internazionale premia invece con il Black Panther il franco-belga BOWLING SATURNE di Patricia Mazuy. Frères ennemis, fratelli nemici, per dirla con il titolo di un film di qualche anno fa. Uno è un poliziotto (Arieh Worthalter), erede di un bowling di cui affida la gestione all'altro, il fratellastro (Achille Reggiani), negletto e frustrato, che si scopre serial killer. Le premesse ci sono, ma il film ristagna, vira a metà strada, sbanda senza imboccare le possibili piste che sembra tracciare, sfiora a volte il ridicolo involontario come nella scena in cui l'ambientalista, interesse sentimentale del poliziotto, si trova ad assistere ad occhi sbarrati a scene di caccia grossa insieme agli amici del padre di lui. Personalmente ho decisamente preferito l'italiano PROFETI, di Alessio Cremonini, già sceneggiatore di Private (di Saverio Costanzo), di cui rappresenta quasi una declinazione al femminile. Anche qui due individui su fronti opposti, sullo sfondo di un conflitto bellico. Lì si trattava di un militare israeliano che occupava la casa privata di un palestinese, qui di una giornalista italiana (Jasmine Trinca) catturata dai jidahisti del Califfato e e affidata in custodia alla moglie di un mujaheddin (Isabella Nefar). Nel chiuso della casa sperduta in zona di guerra in qualche remota regione dell'Iraq, ovviamente le due donne metteranno a confronto le relative visioni del mondo e intraprenderanno forse un lento processo di avvicinamento e di reciproca conoscenza. Finale amaro. Le argomentazioni dialettiche espresse nel film non brillano per originalità, ma la tensione psicologica tiene e ispira qualche motivo di riflessione. A mio parere il miglior film del concorso. Dal film bellico-psicologico ad una spy story in piena regola nel sudcoreano HUNT, opera prima dell'attore di Lee Jung-jae, universalmente noto come protagonista di Squid Game. Siamo nella Corea degli anni '80, quando si fronteggia la dittatura comunista del Nord e il regime antidemocratico e repressivo del Sud, sostenuto dagli Usa. Ci sono complotti per uccidere il presidente sudcoreano e rovesciare il governo, e i responsabili di due sezioni dei servizi segreti sono messi l'uno contro l'altro. Tutti sono implicati in qualche complotto, e si susseguono sparatorie furibonde, torture e colpi di scena a ripetizione. Interesse per lo sfondo storico, ineccepibile confezione professionale, ma il troppo stroppia e la mitica sparatoria per strada di Heat è presa come modello di minimo sindacale per ogni scena di azione. In concorso c'è anche un nome prestigioso come quello di Steven Soderbergh. Il regista americano è solito alternare grandi produzioni e progetti low budget. KIKI – QUALCUNO IN ASCOLTO è uno di questi, chiaramente condizionato dalla situazione pandemica per concezione, ambientazione e tematica. Il tema è interessante – la pervasività della tecnologia nel nostro privato e nella nostra intimità, qui rappresentato dall'assistente vocale Kiki. Prima parte, quasi tutta in un appartamento dove lavora l'agorafobica protagonista (Zoë Kravitz) - analista dei flussi vocali provenienti dai Kiki per correggerne i bug - spaventata dai pericoli del contagio ma anche reduce da una traumatica aggressione sessuale. La seconda parte si apre, ma per indirizzarsi verso un thriller piuttosto convenzionale dall'esito scontato. Diciamo che si tratta di un divertissement abbastanza gradevole. Ci si allontana ancora di più dal noir con ENYS MEN, un film psicologico quasi sperimentale addossato praticamente tutto sulle spalle di un'unica attrice che vive da sola su una remota isola della Cornovaglia tra ricordi e allucinazioni. Fotografia interessante, interesse generale o noir molto dubbio.
Dal cinema sperimentale si passa al genere più schietto con LA NINA DE LA COMUNION, un horror di banalissima amministrazione dove la presenza malefica è appunto quella di una bambina scomparsa durante la propria Comunione. Il modello esibito è quello dei film di fantasmi giapponesi, ma il film replica per tutta la durata, fino alla noia, le stesse situazioni orrorifiche e non trova una propria ragion d'essere nemmeno nell'immaginare una spiegazione originale degli eventi. Suscitavano curiosità gli altri due film del concorso, provenienti da Paesi – purtroppo – al centro dell'attenzione mondiale, come l'Iran e l'Ucraina. Dall'Iran, che – suo malgrado – ci ha regalato tanti capolavori negli anni passati, arriva un film, TAFRIGH, basato su un'idea balzana, quella di una donna che scopre l'esistenza di un sosia di suo marito, sposato a sua volta con una sosia di se stessa. Una trovata abbastanza indifendibile che non riesce a trovare una soddisfacente giustificazione metaforica o politica. Anche qui un pizzico di umorismo involontario, come quando il clone più buono per fare un favore alla moglie del clone più mascalzone si reca a chiedere scusa ad una famiglia offesa da quest'ultimo, senza sapere che questa ha deciso di riempirlo di legnate appena si fa vedere. Ripiombiamo di nuovo letteralmente nel noir con SASHENKA, ambientato nell'Ucraina sovietica degli anni '60. Fotografia in b/n, paesaggi (naturali e umani) raggelati, messa in scena e recitazione astratte. Un bambino è allevato come una bambina da una madre/matrigna crudele e folle e dal padre compiacente; la frustrazione lo porterà a ridursi all'invalidità, ma porterà poi ad esiti devastanti. Ci sono omicidi, indagini (si fa per dire), condannati, colpi di scena. Fin troppo, e se la prima parte è abbastanza lineare, benché divisa tra una linea narrativa presente e una in flashback, dal momento in cui le storie si riuniscono succede di tutto, tra travestitismo, necrofilia, amputazioni, parricidi, matricidi, infanticidi (riusciti o tentati), condanne alla pena capitale, malattie fisiche e mentali, amputazioni, ecc. Il tutto con quella che sembra la sindrome da cinema polacco dei cabarettisti di Zelig, dove in ogni scena si sente il vento fischiare o l'orologio ticchettare, e dove i personaggi rimangono impassibili sia che vengano condannati a morte benché innocenti sia che spacchino sulla testa dei figli pesantissimi vasi di cristallo. Siamo a metà strada tra Psyco e I pugni in tasca, peccato che il risultato sia un film pasticciato, eccessivo sotto le mentite spoglie della stilizzazione, e perfino disonesto nella messa in scena ai fini di ingannare lo spettatore.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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