IO CAPITANO di Matteo GarroneQuando ho visto per la prima volta il trailer di Io capitano mi sono chiesto come ci fosse arrivato Matteo Garrone in Africa (un progetto di delocalizzazione così radicale da parte di una autore europeo, un'immersione così profonda nella realtà di un altro continente, con una storia africana, attori e musiche africani, senza la presenza di un solo bianco sullo schermo, lo ritrovo a mia memoria in anni recenti solo nel Twist a Bamako del marsigliese Guediguian), e come si conciliasse una rappresentazione all'apparenza neorealista di una storia di migrazione con un percorso autoriale approdato alla figuratività barocca e favolistica di Pinocchio e de Il racconto dei racconti.
Mi sono così rinfrescato la memoria sulla filmografia di Garrone, e ne ho ricavato l'impressione che la costante del suo cinema (se ce n'è una, in un percorso che è comunque quello di un autore dotato di indubbia e fortissima personalità) è forse rintracciabile proprio nel suo rapporto con le diverse strategie di approccio al reale (ho scoperto di averne già scritto nel breve saggio Il falegname, l'alchimista e l'imbalsamatore, sul n. 222 di SegnoCinema del marzo 2020). Il cinema di Garrone può così trascorrere dal (neo)realismo quasi documentaristico al minimalismo sociologico e cronachistico delle prime opere; dall'iperrealismo noir de L'imbalsamatore e di Dogman al realismo grottesco e stilizzato di Gomorra e di Reality (ecco un titolo che è una dichiarazione di intenti e nello stesso tempo un tentativo di depistaggio); dai capricci barocchi e visionari dei film favolistici al realismo magico di Io capitano. In una sorta di sintesi si potrebbe dire che nell'ultimo film si incontrino gli estremi della sua carriera, dalle storie di ordinaria immigrazione di Terra di mezzo o Ospiti al racconto avventuroso e picaresco di Pinocchio, di cui Io capitano conserva del resto anche la strutturazione paratattica degli episodi. Come Marco e Ciro di Gomorra che aspirano il Paese dei Bengodi del benessere camorristico, come i discoli Pinocchio e Lucignolo che cercano il piacere eterno della Città dei Balocchi, così gli aspiranti musicisti senegalesi Seydou e Mossa sognano la fama e il successo che potrà essere tributato loro solo nella Terra promessa dell'Europa. Suggestioni mitiche a parte (si è molto speso il termine “odissea” per trovare un progenitore nobilitante del viaggio dei due ragazzi attraverso l'Africa – Appunti per un'Odissea africana si potrebbe quasi titolare, parafrasando forse non gratuitamente Pasolini), la potenza di Io capitano è però per una volta, fatto piuttosto inedito nel cinema di Garrone, nel nudo racconto dei fatti e nel messaggio umanistico e politico, che l'autore, in quest'epoca così terribilmente difficile, ha voluto addirittura epitomizzare nel titolo stesso del film. Gli stessi momenti onirici-poetici, che tanto posto hanno preso nella percezione degli spettatori e dei commentatori, sono solo due in tutti il film, e in entrambi casi rappresentano icasticamente il senso di colpa del protagonista e la forza del suo desiderio di ricucire una realtà che si va lacerando ogni giorno che passa, ad ogni passo del suo viaggio reale pieno di orrore e di terrore. In entrambi i casi si tratta di un ritorno (ci si riallaccia allora al tema dell'odissea omerica, che non è un viaggio verso l'altrove, come quello di Deydou e Mossa, bensì di un lunghissimo ritorno a casa): Seydou torna sui propri passi per redimere dalla morte una donna abbandonata nel deserto e farla volare nel cielo; Seydou torna in volo nel cielo fino a casa, per salutare la madre che ha deluso e ingannato. Ma l'intento di Garrone era quello di mostrarci, al di là delle fughe risarcitorie del sogno, la realtà “vera” della migrazione, così come raccontata da tanti testimoni, capovolgendo il punto di vista dal quale siamo solito guardarla come spettatori e abitanti dell'Occidente opulento e geloso. Non vedremo lo sbarco, ma una partenza ed un viaggio; non vedremo l'accoglienza e il respingimento, ma l'anelito e la spinta verso una meta agognata (non per sfuggire alla povertà o alla guerra, come si è spesso sottolineato, ma per l'aspirazione ingenua ma legittima ad una vita migliore); non il percorso di integrazione o di ripulsa, ma un viaggio doloroso dove (come nel romanzo di Collodi) la trasgressione al destino radicato nella propria terra comporta il rischio di perdersi e di venire derubati, di venire rapiti e torturati, di rischiare la morte, nel ventre di balena di un carcere della mafia libica o mangiati dai pesci sul fondo del Mediterraneo. Se io stesso fatico a liberare il film di Garrone dai suoi riferimenti mitico-favolistici, che peraltro non si sovrappongono mai (a parte le due sequenze citate) al registro eminentemente realistico della rappresentazione, occorre fare un passo a vanti e seguire Seydou nella sua presa di coscienza, nel suo percorso di maturazione, di crescita, di emancipazione. Seydou, che assume incoscientemente, per necessità e disperazione, la guida di un barcone pieno di profughi che deve affrontare la traversata del mare sconosciuto tra la Libia e l'Italia, al suo arrivo non sarà più il ragazzo ingenuo e sognatore che era all'inizio. E non sarà nemmeno un burattino di legno che si trasforma in un bambino obbediente e giudizioso. Perché Seydou non ha obbedito, ma ha preso il timone nelle sue mani; si è fatto (letteralmente) carico dei suoi simili; ha combattuto per salvare le loro vite; non ha permesso che nessuno morisse sulla sua barca (anzi, qualcuno vi ha visto la luce). In spregio agli europei chiusi nei loro egoismi e ai nostri connazionali che li vorrebbero morti o lontani dai loro occhi e del loro cuore, di fronte all'indifferenza di un elicottero rumorosamente e minacciosamente immobile sopra la sua testa, Seydou ha imparato o forse ha serbato una lezione incommensurabile che rivendica a gola spiegata: che nessuno si salva da solo e che l'impresa più grande che un uomo possa compiere è pensare agli altri e battersi per loro. Dopo i premi assegnati a Garrone e al protagonista Seydou Sarr alla Mostra del Cinema di Venezia (dove è stato premiato anche The Green Border di Agnieszka Holland, sul "confine verde" tra Bielorussia e Polona) , senza neppure ripassare la lista degli altri candidati, sono contento di vederlo rappresentare il nostro Paese (in un'epoca in cui i Fratelli sono solo d'Italia) agli Oscar 2024.
0 Commenti
FELICITA' di Micaela RamazzottiNon ho elementi né informazioni sufficienti per stabilire se ci siano delle radici o delle motivazioni autobiografiche dietro la finzione di Felicità. Quello che è certo che Micaela Ramazzotti rivendica convintamente, appassionatamente, la necessità di scrivere (la sceneggiatura è firmata da Isabella Cecchi e Alessandra Guidi), girare e interpretare questa storia. All'esordio come autrice, quello che mi ha sinceramente e profondamente stupito è l'adesione totale della Ramazzotti all'immagine cinematografica che altri autori (maschi) le hanno costruito – forse non a caso – addosso, dove perfino il titolo scelto, ironicamente beffardo, sembra perfettamente in linea con una carriera fitta di cose belle e cuori grandi, tenerezze e gioie pazze, anni felici e anni ancora più belli. Desiree, la protagonista del film interpretata dalla Ramazzotti, che porta a sua volta un nome antifrastico, è quindi una sorta di compendio e di miscuglio dei precedenti personaggi dell'attrice: è cioè di nuovo una giovane donna bionda, un po' svampita, spontanea, ingenua, incolta e un po' volgare, fin troppo sincera, che commette errori ma animata sempre da buoni sentimenti. In questo caso Desiree, parrucchiera per le produzioni cinematografiche, è succube di varie relazioni tossiche. Da una parte c'è una famiglia mostruosa, con un padre (Max Tortora, già cattivo padre ne La terra dell'abbastanza) intrattenitore televisivo di mezza tacca per emittenti di mezza tacca, che aspira velleitariamente a fare un salto di qualità nel mondo del cinema senza possedere alcun talento ma che intanto sfrutta la bontà della figlia per estorcerle denaro con ogni pretesto; una madre (Anna Galiena, già – allora seducente - parrucchiera ne Il marito della parrucchiera) complice del turpe marito; e un fratello (Matteo Olivetti, anche lui abitante de La terra dell'abbastanza) psichicamente problematico che non è in grado di badare a se stesso o di mantenersi con un semplice lavoro malgrado i finanziamenti della sorella. Dall'altra c'è Bruno, un intellettuale egocentrico che forse la ama davvero, ma non può esimersi dal trattare con irritata insofferenza l'impresentabile naïveté della ragazza. Sullo sfondo, un ambiente di lavoro dove tutti i maschi sono pronti ad attingere alla sua proverbiale generosità sessuale. Desiree è un cuore semplice (casualmente la protagonista del racconto di Flaubert che porta questo titolo si chiama Felicité) che, (fatte salve le debite innumerevoli differenze) come la Bess de Le onde del destino, si prodiga letteralmente anima e corpo per chi ama, fino al sacrificio, elargendo con generosità denaro, fiducia malriposta, protezione sororale, sesso e pompini, sempre alla ricerca morbosa e frustrata di quel riconoscimento che i suoi genitori le hanno sempre negato. Adeguandosi (come la Barbie Stereotipo del film con Margot Robbie) anche come interprete ad un ruolo-stereotipo che evidentemente sente proprio, la Ramazzotti autrice imposta su una chiave quasi macchiettistica anche gli altri personaggi, a cominciare dai due genitori, loschi come un Gatto e una Volpe pinocchieschi, eccessivi e sopra le righe; abbozzando senza troppo approfondimento il complessato fratello e mettendo addirittura in costume come una cosplayer la sua compagna d'istituto psichiatrico. Il personaggio forse più sfumato spetta forse al di solito istrionico Rubini, che qui disegna con finezza un personaggio che, per quanto antipatico, sembra tutto sommato quello più ragionevole. Anche il tono della narrazione si adegua all'impostazione generale, forzando alla ricerca di un verismo borgataro colorito e di un ritratto femminile popolaresco e fragile per cui tifare e simpatizzare. Un primo tentativo registico per la Ramazzotti forse non ancora maturo e ingabbiato dal proprio cliché interpretativo, ma indubbiamente – come l'avrebbe voluto Desiree - generoso: il pubblico le ha dato credito e ragione, attribuendole il relativo premio all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. IL RITORNO DI CASANOVA di Gabriele SalvatoresCasanova, il Giacomo Casanova realmente vissuto per buona parte del XVIII secolo, è un personaggio unico. Unico perché multiforme fino alla vertigine, un uomo capace di essere, nella stessa medesima vita, studente, seminarista, predicatore, carcerato, violinista, avventuriero, seduttore, viaggiatore, baro, impresario, indovino, spadaccino, spia, ricchissimo, poverissimo, drammaturgo, saggista, filosofo, storico, traduttore e infine sfrontato, minuzioso, sopraffino narratore della propria stessa incredibile vita. Il personaggio ben si presta quindi ad una storia di infinite duplicazioni, dove le opere, le citazioni e i personaggi si rimandano, rimano e si specchiano gli uni con gli altri. Tutto parte dalla vecchiaia: quella di Casanova (53enne nell'omonimo romanzo di Arthur Schnitzler, 63enne nel film); quella di Schnitzler stesso (56enne nel momento della pubblicazione del libro, nel 1918); quella degli interpreti, Servillo e Bentivoglio (circa 130 anni in due); quella infine (e soprattutto) del regista, Gabriele Salvatores, che, a 72 anni, sceglie come molti altri colleghi di diversa età e provenienza (Almodovar, Allen, Branagh, Cuaron, Inarritu, Spielberg, Mendes, Bruni Tedeschi, ecc.) di guardare indietro alla propria vita (di volta in volta infanzia, giovinezza, maturità, storia famigliare) e al proprio mestiere, cercando il senso dell'una e dell'altro - e del rapporto tra i due. Il ritorno di Casanova è innanzitutto, ed evidentemente, due film: un 8 ½ ambientato nel presente, ma in bianco e nero, e un Ritorno di Casanova di ambientazione settecentesca (ma rivisitata nel ‘900), assai fedele alla fonte letteraria, ma a colori (doppio impegno per il direttore della fotografia Italo Petriccione). Gli specchi in cui si riflettono i volti dei protagonisti (centrale la scena in cui Giacomo Casanova contempla quasi con perverso compiacimento il proprio volto deformato e invecchiato) si rispecchiano negli schermi e dei monitor in cui scorrono le immagini del film nel film e costituiscono la cifra non solo narrativa e stilistica, ma addirittura strutturale dell’opera. Tuffiamoci nella vertigine: il Casanova delle Memorie di Casanova si riflette nel Casanova del Ritorno di Casanova in un film che si riflette nei precedenti film su Casanova e nel precedente Il ritorno di Casanova del 1992 (al posto di Bentivoglio c’era Alain Delon); Casanova stesso nel film nel film “recita” il personaggio del seduttore e dell’avventuriero, che ormai teme in pericolo di anacronismo; intanto il regista Bernardi interpretato da Servillo specchia angosciato la propria vecchiaia in quella del proprio protagonista, ma anche in quella sodale dell’attore che interpreta Casanova; mentre Gabriele Salvatores specchia i tormenti della propria età in quella di Bernardi, il quale però rivede anche se stesso, come in uno specchio deformante, nella figura del regista concorrente, insieme doppio ringiovanito e temuto rivale, esattamente come lo è Lorenzi per Casanova nella novella e nel film nel film); e lo stesso gioco di rispecchiamento riguarda anche le figure (ancillari) femminili, dove all’Amelia e alla Marcolina del film/romanzo corrispondono la giornalista amante di Bernardi e la giovane Silvia. Tutto torna, insomma, nel film di un regista che con il precedente Comedians era già tornato sulle proprie orme, rifilmando, come se ne dovesse celebrare le esequie, il testo di Trevor Griffiths che già aveva portato sul palcoscenico del Teatro dell’Elfo (con un memorabile gruppo di attori) e poi sullo schermo, con il titolo di Kamikazen, ultima notte a Milano, nei lontani anni ‘80. Tornano anche gli attori e i compagni di strada del percorso di Salvatores, tra una schiera di volti familiari che vanno dallo stesso Bentivoglio (già in sei film del regista), a Catania (cinque film con Salvatores, ma già nel Comedians teatrale fin dall’86), a Balasso e Leonardi (già nel film Comedians), ai compagni storici dell’avventurosa fondazione del Teatro dell’Elfo (Elio De Capitani sullo schermo e Ferdinando Bruni voce narrante), a Bonadei (anche lui già nel Comedians cinematografico e attore di punta del nuovo Elfo in spettacoli memorabili come Nel guscio o Alla greca). Il gioco dei rimandi e dei rispecchiamenti non finisce qui: per delineare il suo ritratto di regista da anziano, con la relativa crisi professionale, artistica, sentimentale ed esistenziale, Salvatores rende un amplissimo omaggio al capostipite del genere, il Fellini che già dopo sette film e mezzo sente il bisogno di raccontare di sè medesimo in 8 ½, prima di rivolgersi a sua volta a mettere in scena e rileggere a suo modo il mito di Casanova.
Sia il Bernardi di Salvatores che il Guido Anselmi sono alle prese con un film interminabile perché i rispettivi registi non riescono o temono di dargli un senso compiuto e definitivo; entrambi sfuggono ai produttori esigenti, eludono le conferenze stampa, schivano i giornalisti o li affrontano con il fioretto spianato. Per entrambi vita e cinema si confondono e la confusione, della vita e del cinema, e del loro inestricabile rapporto di realtà e finzione, è precisamente il tema tanto di 8 ½ che de Il ritorno di Casanova. Nel suo rendergli un ampissimo (forse fin troppo) omaggio, Salvatores incontra sul suo percorso anche un altro autore, eclettico, innamorato del cinema, e che ha fatto di se stesso uno dei temi principali e degli ironici protagonisti del proprio cinema, Woody Allen, che ha spesso corteggiato il cinema felliniano. La smania di Casanova di tornare nell’agognata Venezia, e il desiderio nostalgico di Bernardi per la giovane Silvia e per una speranza di futuro, mi ha ricordato, forse a sproposito, lo ammetto, la corsa di Isaac Davis che in Manhattan si rende conto alla fine che l’unica cosa che conti veramente nella sua vita è il sorriso di Tracy. E la ronde (una figura che piaceva allo stesso Schnitzler), o danza macabra, o giostra delle vanità, che chiudeva 8 ½ nella scena onirica sul set echeggia nella scena finale del deserto del Bardo di Inarritu, ma si dilata nelle frivole atmosfere dei festival di San Sebastian e di Venezia, rispettivamente nel Rifkin’s Festival di Allen e ne Il ritorno di Casanova di Salvatores. Che finisce su una spiaggia, come La dolce vita di Fellini (o ancora Rifkin's Festival, dove una Morte uscita dal Settimo sigillo di Bergman spiega molto pragmaticamente all'angosciato protagonista il senso della vita e l'inevitabile caducità della vita). Ma lì il protagonista contemplava un mostro marino morto e dava l’addio con la mano alla giovinezza e all’innocenza, qui Bernardi ritrova la ragazza che quell’illusione di giovinezza e di futuro può ancora donarla al disilluso protagonista, emergendo come una visione dal mare notturno, portandola ancora sulla propria pelle bagnata e nel proprio ventre gravido di una nuova vita che verrà, mentre quelle vecchie, presto o tardi, se ne andranno via. MIXED BY ERRY di Sydney SibiliaSydney Sibilia continua imperterrito a comporre la sua galleria di personaggi anarchici e sognatori, che cercano la propria (anomala) strada in un'Italia - oggi come ieri - asfittica e incapace di sfruttare le potenzialità della propria migliore gioventù (come plasticamente dimostrato dal fenomeno della cosidetta “fuga dei cervelli”, ovvero giovani che vengono istruiti e formati a spese dello Stato italiano, per poi essere “regalati”, una volta pronti a restituire al Paese le loro conoscenze e le loro capacità, ad altri Paesi più dinamici e aperti, e magari anche più opportunisti). In Smetto quando voglio un gruppo di laureati disoccupati o sottoccupati metteva a frutto i propri talenti (di chimici, antropologi, economisti, ecc.) per produrre e smerciare nuove droghe, non ancora illegali in quanto non ancora registrate dai registri degli stupefacenti; ne L'incredibile storia dell'isola delle rose un giovane ingegnere con un gruppo di amici costruiva dal nulla, negli anni '60, una piattaforma marittima fuori dalle acque territoriali italiane, facendone di fatto un piccolo Stato anarchico e indipendente. In Mixed by Erry, ispirandosi liberamente di nuovo, come nell'Incredibile storia, a vicende reali, Sibilia racconta degli intraprendenti fratelli Frattasio, tre adolescenti nella Napoli degli anni '80, che creano dal nulla un nuovo business. Manco a dirlo, illegale. Enrico lavora in un negozio di dischi e di elettrodomestici, ma sogna di fare il dj. Comincia a creare per amici e vicini compilation su audiocassette. Comincia a venderle. Comincia a pensare che la cosa si possa fare più in grande. Si fa prestare soldi dagli strozzini per acquistare nuovi apparecchi di duplicazione e milioni di cassette vergini. La nuova attività riempie locali di merci e attrezzature, dà lavoro ai fratelli, agli amici, agli ex contrabbandieri di sigarette. Le forze dell'ordine lasciano correre, senza rendersi conto delle dimensioni del fenomeno ed avendo a che fare con problemi più gravi ed impellenti. La camorra fiuta il business, ma non fa in tempo a metterci le mani sopra. Il marchio “Mixed by Erry” spopola, dilaga, riesce a bruciare sul tempo l'uscita delle compilation ufficiali del Festival di Sanremo, si allea con l'imprenditoria perbene, da clandestina diventa la prima azienda discografica in Italia, con le sue cassette false oggetto addirittura di ulteriore falsificazione. Si prepara il salto all'era dei cd, ma ovviamente le cose non possono continuare così per sempre e i sognatori di Sibilia alla fine si trovano sempre a fare i conti con la realtà. Il film sorvola allegramente sui danni prodotti da Frattasio al sistema della discografia nazionale, che alla fine drizza le antenne, ma soprattutto agli artisti, privati dalla pirateria dei diritti d'autore. Ai suoi (anti)eroi, così come ai predecessori dei film precedenti, viene sempre concessa una pregiudiziale di innocenza e di ingenuità, che si accompagna alla loro genialità e alla loro vitalistica intraprendenza. Così quella dei Frattasio (interpretati da volti poco noti) finisce per venire raccontata come un'avventura guascona, travolgente e accattivante, un altro lato di quell'effervescenza che mise a soqquadro la Napoli degli anni '80, ribollente delle energie nuove di Maradona, di Massimo Troisi, di Pino Daniele, di una rinascita sportiva, cinematografica, teatrale e musicale forse irripetibile. Ben scritto, interpretato tra timidezza, spavalderia e omaggi al Troisi che all'inizio degli anni '80 dava una svolta al cinema napoletano e faceva saltare gli stereotipi con titoli come Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, con un ricco corredo musicale d'epoca, e tutto il dovuto corredo di scenografie e costumi vintage, Mixed by Erry è complessivamente un film divertente e riuscito, da guardare fino ai titoli di coda, che riservano un ultimo gustoso colpo di scena. L'ULTIMA NOTTE DI AMORE di Andrea Di StefanoLa ricetta sembra semplice. Si prende una struttura di genere ben consolidata, si disegnano dei personaggi credibili e di carattere, li si affida ad attori (non necessariamente divi, anzi, meglio di no) con il physique du role, si costruisce una trama coerente, si immerge tutto in una location ben caratterizzata e potenzialmente riconoscibile: Lo chiamavano Jeeg Robot rimane in questo senso un capostipite nella cinematografia italiana recente.
Ma la ricetta è facile, ottenere un buon risultato non lo è altrettanto (lo dimostra la stessa seconda prova di Mainetti), soprattutto nel cinema italiano dove l’unico “genere” ammesso e riconosciuto è quello della commedia. L’ultima notte di amore (un titolo ambiguo, citato a volte con l’iniziale di “amore” a volte maiuscola, a volte minuscola, che può attrarre ma anche fuorviare) ne è invece un esempio ben riuscito. In una sostanziale unità di tempo (una notte) di luogo (Milano dentro la cerchia delle sue tangenziali) e d’azione (la “missione” affidata a Franco Amore, poliziotto alla vigilia della pensione, e le sue immediate conseguenze), L’ultima notte è un poliziesco-noir ben congegnato, ben serrato nelle sue linee narrative e nelle sue atmosfere, con personaggi disegnati a sbalzo (in particolare i due protagonisti, il poliziotto e la sua consorte Viviana), interpreti all’altezza (Favino sul filo di una controllata gigioneria, Linda Caridi strepitosa nel ruolo della moglie petulante, appassionata e intraprendente, Gerardi e Di Leva solidi comprimari) e con una convincente ambientazione tra la Milano del business (in cima ai grattacieli) e quella del crimine (in uno svincolo automobilistico sotterraneo). Tutto funziona: la panoramica della Milano notturna ripresa nel piano-sequenza aereo dei titoli di testa, fino alla finestra dell’appartamento in cui inizia la storia; la struttura temporale, che prevede un prologo, poi un lungo flashback che dalle premesse (per intercessione di un amico para-malavitoso e dopo aver salvato dalla morte un anziano cinese, il poliziotto Franco Amore, ad un giorno dalla pensione, si vede affidare un lavoretto extra: il servizio di scorta a due cinesi con un carico misterioso chiuso in una valigetta) ci porta dritto nel cuore drammatico della storia (il totale deragliamento della missione, a causa di un controllo dei carabinieri lungo la strada), per poi riportarci al punto di partenza (giustificando le incertezze e le goffaggini dell’incipit, ora riviste sotto tutt’altra prospettiva), e condurci poi attraverso una lunga notte di terrore ad un’alba livida e non consolatoria. Favino dà corpo e volto a un poliziotto “normale”, che è arrivato alla fine della carriera senza mai sparare un colpo e senza mai (o quasi) sgarrare da un comportamento sostanzialmente integerrimo, e che all’improvviso vede tutto il proprio passato, la carriera di cui è orgoglioso, la serenità della propria vita, la tranquillità della propria coscienza, il futuro in cui spera, messi improvvisamente in gioco e in pericolo per un incarico accettato con titubanza e di malavoglia. La paura, l’incertezza, il rimorso, la determinazione nel lottare per la propria salvezza, si mescolano in un personaggio ben compreso nel suo ruolo di genere e nello stesso tempo dotato di una complessa e profonda umanità. Splendido il ruolo affidato a Caridi, con una moglie ciarliera e apparentemente frivola, ma fedele al proprio compagno nella buona e nella cattiva sorte, che assumerà con autorevolezza un ruolo decisivo nello sviluppo degli eventi. Franco e Viviana sono due persone ordinarie, che si trovano al centro di una vicenda rimbombante di sparatorie, fughe, inseguimenti, sospetti, tradimenti, senza mai perdere un briciolo della loro credibilità, grazie ad una storia che non li costringe mai al superomismo dell’uomo (e della donna) comune tipico di tanto cinema hollywoodiano. L’abilità di Di Stefano si rivela oltre che nel disegno della trama e dei personaggi anche nei particolari, nei dialoghi (esemplare quello tra i poliziotti all’uscita dalla sede di lavoro), nelle scene di azione (si veda la concitata sparatoria dove è difficile capire cosa succede in quegli attimi frastornanti, e della quale qualche dettaglio fulmineo emergerà solo nel ricordo a posteriori), nei personaggi minori (i cinesi, il superiore, la magistrata). Efficace anche la rappresentazione di una Milano stratificata tra attici e bassifondi, passando per la medietà di una piccola borghesia che abita ai piani di mezzo di un condominio accanto alla massicciata della ferrovia che porta alla Stazione Centrale, dove si mescolano vecchie e nuove immigrazioni, tra parlate del Meridione e lingue esotiche, faccendieri nostrani e affaristi cinesi. Con un orgoglioso aspetto da b-movie, quali ormai non se ne fanno quasi più, il film è fotografato con tinte notturne da Guido Michelotti e immerso nelle musiche di Santi Pulvirenti, forse l’elemento meno convincente del tutto, che sembra ispirata a uno spartito anni ‘70 che si srotola dai Goblin a Morricone. NOTTE FANTASMA di Fulvio RisuleoRisuleo dice di aver cominciato a scrivere Notte fantasma da un'immagine (un poliziotto che costringe un giovane a ballare con una donna) e dall'idea, oggetto di discussione con gli amici, di un poliziotto fuori di testa, ovvero il tema dell'esercizio del potere da parte di un uomo psicologicamente disturbato. Un'idea quest'ultima molto di attualità, visto i pazzi che si divertono a lanciare missili micidiali, quelli che uccidono ragazze per un ciuffo fuori posto, o quelli freddamente lucidi che infliggono al mondo intero i loro mostruosi deliri imperiali (e magari il finale fosse, almeno in qualche caso, analogo a quello del film). La declinazione del tema prevede stavolta che un ragazzo romano (figlio di immigrati), venga fermato di notte da un poliziotto in borghese (purtroppo per lui ha comprato un po' di fumo in un giardinetto per fare un piacere agli amici) e venga da questi praticamente tenuto in ostaggio per tutta una lunga notte, trattato di volta in volta come un criminale, come una vittima divertente, come un giocattolo, come un compagno d'avventure, o come un figlioccio putativo. Tra paura e sconcerto, il giovane Tarek si vede trascinato in un'odissea notturna di incontri e di scontri (umani e automobilistici), danze forzate e posti di blocco, visite familiari ai vivi (la figlia del poliziotto) e ai morti (in un cimitero deserto). Dall'archetipico Cattivo tenente in poi si erano già visti poliziotti fuori di testa; si erano già visti film che descrivevano la loro parabola narrativa tutto in una notte fino alle prime luci dell'alba che dissolvono i fantasmi notturni; e si erano già visti film di strana coppia, con personaggi apparentemente lontanissimi e inconciliabili che alla fine trovavano un loro umano punto d'incontro. Nulla di particolarmente innovativo quindi nel progetto narrativo di Fulvio Risuleo, che oltretutto gira con un budget visibilmente limitato. Di nuovo c'è l'idea di girare un neo-noir italiano, girato in una Roma assai poco cartolinesca, nelle strade notturne semideserte, tra archi, ponti, cunicoli sotterranei, colombari, e di mescolarlo (per sua stessa ammissione) con il genere nazionale per eccellenza, quello della commedia all'italiana, confrontandosi a distanza in particolare con la strana coppia formata da Gassman e Trintignant ne Il sorpasso di Dino Risi. Il vero asso nella manica del film è rappresentato dalla scelta di casting che affida il ruolo di Tarek al giovane esordiente Yothin Clavenzani, con un fisico totalmente anticinematografico e una recitazione naif, pettinato e vestito in maniera sciatta e ordinaria, credibilissimo nella parte del ragazzo qualunque spaventato e disorientato piombato improvvisamente in un'avventura sgradevole e dagli esiti imprevedibili. Il suo aguzzino (dal volto però umano) è interpretato da Edoardo Pesce, che torna a lavorare con Risuleo dopo Il colpo del cane e che ha l'occasione di sviluppare in un ruolo da protagonista il carattere da villain già ammirato in film precedenti come Fortunata, Cuori puri o Dogman. Con risultati forse un po' inferiori alle aspettative, probabilmente anche perché la sua cattiveria deve essere continuamente trattenuta al fine di costruire un personaggio ambivalente, che deve essere pronto a svoltare verso risvolti più umani. In effetti forse quello che manca al film è un senso maggiore del pericolo; una mancanza che toglie un po' della tensione necessaria al noir avvicinando maggiormente il genere del film in definitiva a quello del confronto/scontro di caratteri. IL COLIBRI' di Francesca Archibugirancesca Archibugi, fin dal suo primo film, Mignon è partita, datato 1988, ha sempre cercato, a volte partendo da soggetti originali, a volte da spunti letterari, di raccontare storie famigliari, di borghesie medie, tra gioie, dolori, amori e disamori coniugali, bambini e bambine preferibilmente con qualche problema di salute. Tutto ritorna ne Il colibrì, tratto dal libro di Sandro Veronesi: gente comune (benché molto benestante), le cose della vita (Les chose de la vie era il titolo di un film del 1970 firmato da Claude Sautet, che di queste cose se ne intendeva), un gruppo di personaggi che gira intorno al protagonista e alla sua famiglia, una bambina che pensa ci sia un filo che la tiene legata ai muri costringendola a preoccuparsi di non fare inciampare quelli che gli stanno intorno. Ha colpito molto la spiegazione che giustifica il titolo, che designa il protagonista, non solo perché era piccolo da bambino, ma anche perché si dice sia un uomo che impiega tutte le sue energie a rimanere fermo. Ma non mi sembra del tutto vero: in fondo Marco non è un conservatore che si sforza di rimanere immobile, ma un uomo comune intorno a cui accadono molte delle cose che nella vita possono accadere a tutti: occasioni che non si realizzano e amori che non si consumano; una bella carriera; una moglie (insoddisfatta) e una figlia (inquieta); la perdita delle persone care; le amicizie perse e ritrovate, quelle tradite e quelle che nascono. In più Marco è un ultrabenestante, con una meravigliosa casa sulla costa toscana. E' lì che si consuma un evento luttuoso, una delle scene primarie che dà una svolta fatale alla vita del giovane Marco, della sua innamorata, di suo fratello, e a cascata di molti altri personaggi che entrano nella vicenda. Da lì in poi non sono poche le sventure che toccano la vicenda dell'uomo comune protagonista, tra suicidi, disastri aerei, incidenti in montagna, bambine problematiche, disagio psicologico, diversi cancri, tradimenti coniugali e non. Il libro di Veronesi procede per schegge eterogenee (narrazioni, dialoghi, lettere, mail, chat, inventari, ecc.), rimescolandone inoltre il naturale ordine cronologico. Espedienti entrambi non nuovi (mi vengono in mente esempi rispettivamente di Stoker, di Camilleri o di Coe), che servono però a rivelare la storia pezzo per pezzo, come un puzzle di cui vengono fornite alla rinfusa le tessere di forma e colori differenti. La Archibugi e i suoi sceneggiatori riprendono la frammentazione cronologica, rendendo a loro volta il film un enigma narrativo che si svela a poco a poco. Il procedimento è suggestivo anche se alla fine non tutto torna e non tutto è chiarissimo. Minimalista da una parte (tutto ruota intorno ad un nucleo di personaggi legati tra loro), massimalista dall'altro (Marco viene seguito per tutto il corso della sua vita, dall'infanzia alla morte, con diversi attori ad interpretarlo da bambino e da ragazzo e Favino truccato per cercare di renderlo credibile sia come uomo maturo che come anziano), il racconto si ricostruisce a posteriori così ricomponendo l'ordine delle sequenze. E' strano che quando tutto sembra ricomposto e la storia avviata alla conclusione, si inserisca un nuovo episodio non “preannunciato”, quello di una partita a carte dall'altissima posta, che spezza il climax e la tensione emotiva che dovrebbero accompagnare lo spettatore verso il finale. L'Archibugi regista sembra più a suo agio con le scene intime o con pochi personaggi, mentre diventa subito più teatrale nelle scene più articolate, impressione aggravata quando interviene il trucco posticcio ad invecchiare attori e personaggi. Mi ha un po' colpito anche notare il diverso comportamento etico-sessuale attribuito ai personaggi maschili e femminili (da Veronesi prima e dall'Archibugi poi): se il protagonista è un uomo tranquillo, fedele alla moglie (anche quando il rapporto sta mostrando crepe preoccupanti), amante extraconiugale ma votato ad una rigorosa castità, ben diverso appare l'attitudine di tutti i principali personaggi femminili: una madre probabilmente adultera; una moglie che tradisce il marito a destra e a manca con uomini e donne; un'amante apparentemente pura e ideale, da amor cortese, capace però a sua volta di tradirlo perfino con il fratello; una figlia che rimane incinta non si saprà mai di chi, salvo partorire una creaturina di colore inaspettato. Forse lo dico male, ma in questo caso sì, il protagonista sembra sempre lì fermo come un colibrì, impegnato con tutte le sue energie a mantenere la posizione, mentre le donne della sua vita sembrano tutte molto più dinamiche, impegnate e in movimento a cogliere nettari differenti fior da fiore... SICCITA' di Paolo VirzìSe Virzì si è accreditato come il più ortodosso seguace della tradizione della commedia all’italiana, stavolta sceglie di cimentarsi con uno dei suoi filoni più bizzarri, quello socio-apocalittico che annovera titoli come Il giudizio universale (1961) diretto da De Sica su sceneggiatura di Zavattini o L’ingorgo (1979), di Luigi Comencini. Quelle erano grandi produzioni, anzi, coproduzioni, con cast italiani e internazionali pazzeschi e oggi inimmaginabili, in cui si partiva da uno spunto apocalittico surreale e paradossale per raccontare i problemi, le piccolezze, la miseria morale e l’ipocrisia dell’Italia di allora e forse di sempre. Qui il cast è meno altisonante (ma ci sono Mastandrea e Orlando, Belluci e Pandolfi, e tanti altri bravi attori e attrici), in compenso ci sono gli effetti speciali digitali a rendere vera e visibile una Roma spaventosa e paradossale, afflitta da un anno intero di siccità, con il Tevere completamente in secca diventato un arido e sporco fossato che solca la città eterna come una vena aperta e disseccata in cui non scorre più un filo d’acqua. Concepito (e scritto a quattro mani da Virzì, Archibugi, Giordano e Piccolo) durante la pandemia, Siccità però più che per il richiamo al passato stupisce per la sua sconcertante contemporaneità, per la sua capacità quasi profetica di prevedere gli avvenimenti e di estrarne in un distillato lo spirito dei tempi. Al film tocca uscire in un periodo in cui la pandemia globale non è stata definitivamente debellata e suscita ancora preoccupazione, in cui una siccità mai vista ha messo in ginocchio l’agricoltura e la produzione di energia, in cui il cambiamento climatico sta manifestando in maniera plateale quali potranno essere i prossimi spaventosi effetti, in cui il malcontento sociale dilaga con risultati che saranno drasticamente plastici dopo le prossime elezioni, in cui si parla di razionamento dell’energia, di contrazione della crescita, di impoverimento materiale e della qualità della vita. Se la realtà nei mesi di ideazione e di realizzazione del film ha assunto toni se possibile ancora più sinistri a causa della guerra in Europa, la rappresentazione di Virzì è puntuale e, nell'apparente disordine dei diversi racconti, piuttosto precisa (perfino più acuta e penetrante della divertita satira dell’apocalisse di Don’t Look Up). Anche davanti alla catastrofe in atto, a tenere il tono è la commedia italiana (ma nella dimensione in cui il genere cinematografico attinge un’universalità che lo eleva a commedia umana), con le piccole vite di ciascuno che continuano più o meno come sempre: si nasce e si muore, si sorride e si piange, si commettono errori e ci si pente, si desidera e si teme, ci si ama e ci si disama, si tradisce e ci si macera nella sofferenza, ci si fa trascinare dall’ambizione personale e ci si arrende, si fanno progetti per il futuro e si cade in rovina, si vedono i fantasmi del passato e a volte non si vedono le persone che ci stanno di fronte. Se ad un personaggio del film una troupe televisiva concede “30 secondi, anche meno” per parlare delle sue paure, desideri, speranze, Virzì si prende un paio d’ore per seguire diversi personaggi che si aggirano disorientati tra timori, rimorsi, ambizioni, smarrimenti, in una Roma inaridita e invasa dagli scarafaggi. Alle vicende dei personaggi fa da sfondo una città che già i Romani avevano dotato di efficienti acquedotti e dove ora ci si contende una tanica d’acqua, multietnica ma africanizzata dal clima e dalla luce arida (la fotografia è di Luca Bigazzi), tra un centro storico privato della linfa vitale e desertificate periferie, accomunati dai disordini e dal malcontento. Alle urla dei manifestanti, che protestano contro le istituzioni e assediano le ultime oasi di privilegio (come il centro termale di lusso che spreca l’acqua per le piscine dei ricchi) e alle invettive nichiliste di giovani che si vedono privati del presente ancora prima che del futuro, si sovrappone il chiacchiericcio assordante e pervasivo dei mezzi d’informazione; i reporter frettolosi, i conduttori e redattori tv cinici e indifferenti, la virtualità dei social in cui si alternano messaggi di speranza e di odio, le chat sugli smartphone che riempiono i vuoti delle esistenze con simulacri di relazioni. Ad un prosciugamento e ad una sete che hanno una dimensione reale e metaforica, si aggiunge nel racconto l’epidemia di una malattia (probabilmente portata dagli insetti che proliferano a seguito della distruzione della fauna ittica che era il loro antagonista) altrettanto simbolica, che induce astenia e sonnolenza: da una parte la debolezza di fronte ad eventi totalmente al di fuori del nostro controllo, dall’altra il sonno della ragione che chiude gli occhi davanti all’entropia del reale e al dilagare dell’irrazionalità. Alla fine di quella che Virzì descrive come una “preghiera laica” (ma che culmina nel momento forse più sorrentiniano del film in una cerimonia propiziatoria alla presenza del Santo Padre), finalmente cade una pioggia torrenziale. Se sarà solo una pausa per la gola riarsa della città e dei suoi abitanti; se laverà i peccati e i vizi della Città eterna; se sia un segnale di speranza e di rinascita; se salverà una civiltà che sta scivolando nell’abisso, o se scorrerà via lasciando tutto come prima, è ancora tutto da vedere. IL SIGNORE DELLE MOSCHE di Gianni AmelioSenza voler fare del riduzionismo biografico, c'è forse un nesso tra la storia personale di Gianni Amelio, cresciuto in assenza del padre, e la scelta dei suoi soggetti cinematografici. Lungo tutta la sua filmografia, infatti, da Colpire al cuore a Hammamet e ora a Il signore delle formiche, si ripete una stessa situazione archetipica, il confronto tra un'istanza “paterna” (padri, anziani o maturi, uomini di potere, maestri, ecc.) e un'istanza “filiale” (figli, bambini, ragazzi, giovani, discepoli, ecc.), in genere entrambe incarnati in personaggi maschili. Si tratta sempre di rapporti e relazioni problematici, spezzati, negati, o da inventare ex novo, in una reciproca sofferente ricerca di definizione e di identità La storia del caso Braibanti, intellettuale accusato di plagio (e unica persona nella storia giudiziaria italiana ad essere condannata per questo reato) nei confronti di un giovane coinvolto in una relazione omosessuale, deve aver quindi attirato Amelio per diversi motivi. C'è una storia emblematica ambientata nell'Italia retriva e bigotta degli anni '60 (con il sottotesto abbastanza palese che le cose non sono ancora del tutto cambiate da allora, tra vecchi e nuovi moralismi): e Amelio, tassello dopo tassello, sta componendo una propria Storia d'Italia, che parte dagli anni '30 del fascismo e passa attraverso il boom economico, l'emigrazione interna, gli anni di piombo, l'immigrazione, la parabola del craxismo, la deindustrializzazione, fino alla contemporaneità. E c'è soprattutto l'ennesima declinazione del rapporto padre/figlio, nella variante del “cattivo maestro”, seduttivo ma maieutico nel far emergere natura, inclinazioni e identità del proprio discepolo. Braibanti, ossessionato dal controllo (i formicai artificiali che lo appassionano tanto ne sono un'esplicitazione) plasma un proprio figlio/amante, e costui è ben felice di seguire chi gli sta indicando un percorso lungo il quale potrebbe conseguire la propria più piena realizzazione. Ma la famiglia, la società, la giustizia, l'opinione pubblica non sono d'accordo e imbastiscono il processo per plagio visto, che l'omosessualità non è neppure contemplata dai codici usciti dal fascismo. Come mediazione tra l'aspetto pubblico e quelle privato della vicenda, Amelio inserisce poi un terzo personaggio, quello del giornalista de l'Unità incaricato di seguire il caso. Amelio mette forse un po' di se stesso in ciascuno dei suoi personaggi: l'autorevolezza culturale e l'atteggiamento sdegnoso di Braibanti; l'ingenuità del suo giovane discepolo (che scopre la vita culturale e l'ambiente omosessuale romano più o meno negli stessi anni e alla stessa età del regista) e infine il ruolo di testimone coinvolto del giornalista (che solo nel finale accenna velatamente alla propria omosessualità; lo stesso Amelio ha aspettato la soglia dei 70 anni per il proprio coming out). Se il film ha un suo perché, nel rinnovare attraverso un aneddoto storico il dibattito mai concluso sul diritto a vivere liberamente la propria sessualità, e il tentativo di rappresentare tre sfaccettature della vicenda appare generoso, la narrazione è forse troppo frammentata nel seguire i tre protagonisti e le relative frustrazioni. E, nella foga di stigmatizzare anche i comportamenti di una sinistra prudente e reticente, azzarda anche quello che appare come un falso storico, adombrando a carico del direttore dell'epoca de l'Unità comportamenti tartufeschi e censori. Ma l'editoriale del giornale pubblicato in prima pagina in occasione della sentenza di primo grado del processo si può ancora reperire e leggere, ed è estremamente netto ed esplicito nel condannare un processo ingiusto e assurdo, espressione della peggior società retriva e moralista. Parlerò più diffusamente de IL SIGNORE DELLE FORMICHE nel numero n. 238 (in uscita a novembre) di SEGNOCINEMA. SETTEMBRE di Giulia Steigerwaltettembre, come si conviene al mese del titolo che preannuncia l’autunno, è un film sottovoce, una commedia dolceamara dove l’intenzione è che la sensazione finale che deve rimanere in bocca a spettatori e spettatrici sia quella della dolcezza. Il film racconta tre storie, ognuna delle quali ha al centro una coppia (ed eventuali derivazioni). Francesca, malmaritata con un marito che la trascura, quando le viene comunicato un sospetto tumore e quindi una possibile prospettiva di vita limitata, decide di farsi avanti e di rivelare all’amica del cuore Debora che quella che prova per lei, corrisposta, non è solo simpatia ma anche un’attrazione fisica e sentimentale, per vivere con pienezza, senza ipocrisie e rimpianti, i suoi ultimi mesi di vita; Guglielmo, maturo professionista che frequenta la giovane prostituta Ana fin da quando lei era minorenne, scopre che la ragazza si è innamorata di un fornaio, al quale lei non può ovviamente rivelare la propria professione, e cambierebbe volentieri vita; l’adolescente Maria, per prepararsi all’appuntamento con il ragazzo che le piace, si fa dare lezioni di educazione ed etichetta sessuale (o così crede) da Sergio, un coetaneo poco meno esperto di lei. Le tre storie si intrecciano debolmente, perché si dà il caso che Sergio sia figlio di Francesca e Guglielmo il suo dottore (e poi confidente). Date le premesse, e intuite dai toni adottati le intenzioni dell’autrice Giulia Steigerwalt, regista e sceneggiatrice, nata in Texas e già attrice di cinema e tv in Italia, non è difficile indovinare come le tre storie andranno a finire. Ogni personaggio del film – compresi, in negativo, quelli che subiscono le conseguenze altrui, come i mariti di Francesca e Debora – è destinato a cambiare nel corso del film la propria prospettiva sulla vita e sul prossimo, in un processo di maturazione e di apertura agli altri, e nella ricostruzione della propria rete di affetti. Una cosa ho trovato singolare nel film: che pur essendo il tema del sesso centrale in tutte e tre le storie (il sesso “diverso” che sperimentano insieme Francesca e Debora; quello il cui esercizio definisce insieme la professione di Ana e la natura del legame con Guglielmo; quello a cui si deve far istruire Maria), la commedia mantiene un tono pudico (forse troppo), con il chiaro obiettivo di mettere in primo piano i sentimenti mettendo da parte (e letteralmente fuori scena) l’aspetto fisico delle relazioni. L’attenzione ad evitare riferimenti espliciti al sesso diventa quasi buffa: così Francesca e Debora, pur avendo fatto presumibilmente l’amore, vengono mostrate sdraiate sul divano, ma vestite; la prostituta Ana, anche quando è in servizio, si veste come la più morigerata delle universitarie e i suoi rapporti con Guglielmo, mai mostrati nemmeno per allusioni, diventano sempre più casti; e nulla ci viene mostrato dell’apprendistato erotico di Maria. Niente amaro quindi ma neppure niente pepe o altre spezie, per questo feel good movie all’italiana che si è aggiudicato il Nastro d’Argento per il miglior regista esordiente, dove la coppia più simpatica è forse quella formata da Barbara Ronchi e Thony, mentre al Bentivoglio che interpreta Guglielmo basta il mestiere senza la fatica. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|