FERRARI di Michael MannNon sono un appassionato di automobilismo, non so molto di Enzo Ferrari, non sono un fanatico di Michael Mann, il cui cinema ho sempre trovato freddo e un po' affettato, non amo i biopic che mi costringono a confrontare la finzione – di cui non sono quindi in grado di giudicare fedeltà, attendibilità o eventuali scarti creativi - con una realtà che di solito conosco in modo insufficiente.
Ma amo il cinema e quindi Ferrari l'ho visto comunque, perché Mann è uno che il cinema sicuramente lo fa. Vi dirò subito tuttavia che dopo la visione non sono diventato un cultore di Mann (il regista celebre per (non) aver fatto recitare insieme per la prima volta De Niro e Pacino), né un appassionato di corse, e nemmeno mi sono ricreduto sui biopic.Qui poi è tutto più strano e straniante perché a raccontare la storia di un mito nazionale è un regista americano, sulla base di una sceneggiatura scritta da un americano (deceduto 14 anni fa) tratta dal libro di uno scrittore americano, in un film dove i protagonisti sono attori americani (Adam Driver, Shailene Woodley, Patrick Dempsey), spagnoli (Penelope Cruz) e brasiliani (Gabriel Leone). In realtà il film non racconta la storia di Enzo Ferrari, ma meno di un anno della sua vita. E' il 1957. La fabbrica Ferrari è in crisi finanziaria. Produce meno di 100 macchine all'anno, anche se le vende a caro prezzo a ricconi e reali. Enzo è un avventuriero dell'industria automobilistica, un amateur, un dilettante che non pensa al marketing ma alle competizioni sportive, per le quali perfino le donne (nel film non lo si dice) non sono un elemento necessario della vita di un uomo, ma la “ricompensa” del suo lavoro. E' questo probabilmente l'aspetto che ha affascinato di più gli autori, quello di un ingegnere geniale che è al contempo uno sportsman, uno strano dandy combattente e competitivo interessato più alle vittorie che alle vendite, più ai primati che ai soldi. Ma per salvare la Ferrari si profila all'orizzonte la necessità di un'alleanza con qualche tycoon dell'industria, che potrebbe essere il Ford della Ford (un passaggio già visto di recente anche in Le Mans '66 – La grande sfida, che insolitamente racconta la sfida tra gli eroi che stanno dalla parte del Golia dell'industria delle auto, la Ford appunto, contro il piccolo Davide impertinente della Ferrari) o l'Agnelli della Fiat. Ma per stringere un'alleanza Ferrari dovrebbe rientrare in possesso della metà delle sue proprietà, intestate alla moglie Laura. Con la complicazione che Laura, indispettita dalle sue infedeltà, gli ha sparato un colpo di pistola in casa, ancora prima di scoprire che Enzo ha un'altra amante, Lina Landi, e pure un figlio, mantenuti in una bella dimora di campagna. E intanto si avvicina la data della Mille Miglia - una gara pazzesca che si corre su strade ordinarie da Brescia a Roma e viceversa – e bisogna mettere insieme per tempo delle macchine prodigiose e una squadra di vincenti. Nel racconto emergono altri particolari del passato del Commendatore: il rifiuto della Fiat, le corse da pilota in gioventù, gli amici persi sulle piste da gara, gli irripetibili momenti felici con la moglie, la dolorosa perdita del figlio, morto a 24 anni, la conoscenza della nuova fiamma (ops, lapsus: Fiamma si chiama la donna che conoscerà l'anno successivo e che frequenterà fino alla morte) con cui vive rinnovate gioie domestiche. Mann divide la sua attenzione tra le complesse vicende sentimentali di Ferrari (diviso tra un figlio amato e morto e uno vivo e bambino; tra una donna che fa parte della sua vita e un'altra con la quale vorrebbe forse vivere la restante parte), le preoccupazioni per le sue precarie riuscite imprenditoriali, l'innesto in squadra di un nuovo affascinante pilota spagnolo, e la preparazione e poi lo svolgimento delle Mille Miglia. Il maestro del cinema d'azione si concede solo corse a grande velocità sui bolidi rossi – più che altro impegnate in giri di prova - e una delle più spettacolari e agghiaccianti scene di incidente stradale mai viste al cinema (cosa ispirerà ai piccoli Spielberg-Fablemans di oggi?). Un problema aggiuntivo è quello che dicevo all'inizio (analogo immagino a quello che hanno avuto i francesi quando hanno visto il Joaquim Phoenix-Napoleone Bonaparte di Ridley Scott) e amplificato dalla visione del film in lingua originale. Siamo in Emilia ma tutti parlano in inglese (a parte qualche “commendatore” e qualche “signora”) - e la Cruz in un inglese da spagnola; quando si parla di soldi non si parla di lire ma di dollari; quando non si capisce un nome, ad esempio “Piero” si fa lo spelling come fanno solo gli anglosassoni. E come se non bastasse, nel ruolo del protagonista c'è il quarantenne Adam Driver, truccato per interpretare un uomo che nel '57 di anni ne aveva quasi 60. Tutto insomma sembra un po' posticcio. Mann non abusa dei paesaggi italiani, limitandosi a balenanti scorci di città durante le gare, e a strade di montagna e di campagna, e nel comporre il suo ritratto privato finisce per trascurare con disinvoltura alcuni elementi degni di nota dal punto di vista spettacolare, come la spiegazione delle regole della Mille Miglia o lo stesso svolgimento della gara finale, dove sembra che al regista non importi molto (ed è così) di chi vinca e chi perda, o ancora il processo cui fu sottoposto Ferrari dopo il terribile incidente avvenuto durante la gara. Parche didascalie finali e niente foto storiche sui titoli di coda (forse per non rimarcare la scarsa somiglianza dei protagonisti con i personaggi reali); ci si deve accontentare dei bolidi in bianco e nero che rombano selvaggiamente nelle sequenze d'apertura, memorie di un'epoca “rampante” e selvaggia della storia dell'automobilismo.
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THE KILLER di David FincherBasterebbero i titoli di testa a istillare qualche dubbio, una serie di microsequenze con un campionario di metodi di omicidio che non stonerebbero in un telefilm anni ‘70 o come uno degli amati cataloghi per il von Trier de La casa di Jack.
I timori si confermano lungo tutto il primo episodio del film, “Parigi – Il bersaglio”, durante il quale il protagonista, un killer professionista che si (e ci) annoia aspettando il momento propizio per svolgere il proprio compito, ci ammorba con voce fuori-campo, sovrapposta ad una serie di sequenze altrimenti mute, propinandoci una montagna di statistiche di cui potevano anche fare a meno, sciorinando i propri precetti professionali e profondendosi in una sequela non richiesta di riflessioni pseudofilosofiche e di meditazioni zen sull'arte dell'attendere e dell'uccidere. Tutta la prima parte è giocata su un rispecchiamento di riprese oggettive/soggettive, sia visive che auditive. Si sarebbe portati a credere che Fincher stia impostando un dispositivo in grado di portarci dentro gli occhi, le orecchie e addirittura, grazie alla voce off, dentro il cervello e i pensieri del killer. Insomma, la speranza è che Fincher ci stia preparando qualche trucchetto dei suoi, o per lo meno qualche riflessione sulla percezione e sulla mente dell’assassino. Ma qualcosa non torna. Il sedicente camouflage (da “turista tedesco”) è risibile; le precauzioni di questo megaprofessionista, che cancella maniacalmente ogni traccia della propria presenza e quasi della propria esistenza, lasciano ben presto il tempo che trovano, dal momento che lo stesso ritiene poi di fare merenda su una panchina proprio sotto il naso del portiere del palazzo dove dovrebbe commettere l’omicidio; e, arrivati al dunque, l’infallibile commette un’enorme cazzata. Nel secondo episodio “Repubblica Dominicana – Il rifugio” i dubbi non fanno che crescere. L’assassino con paranoie di sicurezza arriva alla sua lussuosa villa ai Caraibi, che però è stata assaltata da qualcuno che voleva ucciderlo. I killer del killer hanno lasciato in bella vista tracce di ogni genere (orme, decine di mozziconi di sigarette, sangue) e poi, dopo aver pestato un po’ la sua ragazza, se ne vanno insalutati in aereo senza nemmeno aspettare che lui arrivi. Tutto il film d’altra parte pare pieno di dispositivi di sicurezza elettronici, a simboleggiare le ossessioni contemporanee di sicurezza, controllo, visibilità, eppure si direbbe che non c’è mai una telecamera o un dignitoso sistema d’allarme quando servirebbe. A questo punto già si può capire dove andranno a parare gli altri quattro episodi, che vedranno il nostro imperturbabile (anti)eroe impegnato in un’operazione di vendetta per l’affronto subito e di prevenzione di ulteriori aggressioni che lo porterà a cercare mandanti ed esecutori dell’attentato a New Orleans, in Florida, a New York e a Chicago, prima del ritorno nella propria Itaca caraibica. Il killer senza nome e dai mille nomi (Fincher sottolinea la sfilza di nomi e documenti falsi da lui esibiti in giro per il mondo) continua a ripetere come una mantra la propria filosofia fumettistica (ops! il film è tratto da un fumetto!), che tuttavia non sembra dettare tutti i suoi comportamenti, tra imprudenze, trasgressioni e forse una sorta di impercettibile coinvolgimento emotivo. Difficile a dirsi, anche perché Mortensen ha imparato con Ridley Scott a mantenere un’impassibile espressione da androide. Intanto il nostro sbaglia i calcoli, uccide inutilmente, si fa sorprendere su terreno avverso da un terribile energumeno, si concede il lusso di un colloquio con une dei suoi obiettivi all’unico apparente scopo di offrire a Tilda Swinton l’occasione di fare un numero dei suoi. E quel che è peggio è che il film sembra procedere a tensione invertita: all’inizio il film mostra il nostro uccidere anche chi passa per strada, così tanto per abbondare; ma arrivato al suo climax con un divertente e brutale scontro corpo a corpo a metà dello svolgimento, si adagia su una china che discende dolcemente verso un epilogo in cui il pistolero, arrivato all’ultimo e più alto livello dei suoi obiettivi, decide con filosofia di rinfoderare la sua arma del momento e di abbandonarsi a qualche ultima riflessione esistenziale su uomini e superuomini. Critici e social si stanno scervellando tentando di distillare perle di senso e saggezza dalle massime di vita dell’assassino e di trovare una giustificazione teoretica per quest’opera che non sembra provenire dall’autore cervellotico di opere originalissime come Seven, Fight Club o anche Zodiac (che rifondava il film di serial killer seguendo una cronaca storica e frustrante), e neppure dal biografo visionario di Mank; ma The Killer sembra poter soddisfare (forse: i venti minuti di stagnazione iniziale sono una dura prova da superare per tutti) esclusivamente un pubblico non cinefilo in cerca un thriller lineare, elegante e in fondo non troppo impegnativo. Difficile dire se è colpa della dimensione fumettistica alla fonte (una graphic novel firmata dai francesi Matz e Luc Jacamon), dalla sceneggiatura poco brillante di Andrew Kevin Walker, o da una regia che sembra aspirare più all’eleganza superficiale che alla sostanza (sia in termini di spessore tematico che di pulp cinematografica). Alla fine rimane il dubbio di un divertissement un po’ vacuo alla Soderbergh, o, a voler essere maligni, di un prodotto pensato già in un’ottica televisiva, realizzato con diligenza e senza molta applicazione, perché tanto gli spettatori arriveranno lo stesso, senza bisogno di pagare il biglietto all’entrata. Senza contare che di killer taciturni, efficienti, implacabili, filosofeggianti o meno, ne abbiamo già visti tanti, dal samurai dalla faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville, a quello sensibile alle farfalle di Suzuki o a quello filosofo di Jarmusch; da quelli coscienziosi di Mann a quelli sentimentali di Besson o a quelli già ritirati a vita privata di Cronenberg, solo per citare alcuni dei più famosi. The Killer non aggiunge nulla di nuovo e non è originale neppure nella scelta del titolo: l’anno scorso i coreani hanno prodotto un film con titolo identico; quest’anno sono usciti i Killers di Scorsese e prima o poi si spera arriverà anche sui nostri schermi lo spassoso Hit Man (sinonimo di killer) di Linklater già presentato a Venezia. Ecco - già che ci siamo - quando ne avrete l’occasione guardatevi questo e buon divertimento. KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin ScorseseLeo, Bob e Marty Scommetto che se vi chiedessi se Di Caprio e De Niro, attori feticcio a fasi alterne del regista, avessero lavorato insieme in un film di Martin Scorsese, prima di Killers of the Flower Moon, dopo averci fatto mente locale, avreste risposto di no. Eppure Di Caprio, prima di Killers of the Flower Moon, ha realizzato cinque film con la regia di Scorsese, dal 2002 al 2013, e De Niro addirittura otto, dal lontanissimo 1973 fino al 2019 di The Irishman; eppure i due sembrano non essersi mai incrociati sul set del regista. E invece sì. Nel 2015 Scorsese girò un cortometraggio, The Audition, che doveva servire in realtà a pubblicizzare una nuova rete di casinò orientali (Manila, Macao, Giappone) – lui che le grandi case da gioco li aveva descritti con ben altri toni in Casinò – in cui il regista in persona compare nel ruolo di se stesso: ovvero un regista con un nuovo progetto che invita, appunto, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio a raggiungerlo in Oriente. Per un attimo i due pensano di recitare finalmente insieme in un film del Maestro, ma scopriranno immediatamente che entrambi si trovano in lizza per lo stesso ruolo, l'uno contro l'altro, con esiti spassosi. Ora che Martin e Robert hanno ormai superato ciascuno gli 80 anni d'età e Leonardo è sulle soglie dei 50, il momento e il piacere di vedere i due attori insieme in un “vero” film del loro mentore (in The Audition forse il ruolo verrà affidato al terzo incomodo Brad Pitt) sono finalmente arrivati e, lo dico subito, è valsa la pena di aspettare. Bob e Leo sono rispettivamente zio e nipote; il primo, William Hale è un possidente allevatore di bestiame in Oklahoma, uno dei cittadini più eminenti di Fairfax, che tiene buoni rapporti sia con la comunità bianca che con quella indiana, entro la cui riserva sorge la cittadina; il secondo, Ernest, è un nipote spiantato, reduce dalla Prima Guerra Mondiale (non proprio un eroe di guerra: lui si occupava delle cucine), che torna a mettersi sotto l'ala protettrice dello zio, che si fa amichevolmente e modestamente chiamare King, il re. Osage Nation e oro nero Ma c'è un prologo. Facciamo un passo indietro: Killers of the Flower Moon inizia in realtà con una sequenza ambientata tra i nativi americani della tribù Osage, che stanno seppellendo per sempre la pipa rituale (si dice che siano stati anche i precursori dei fumatori di marijuana): i tempi stanno cambiando, le tradizioni e la cultura originarie stanno sparendo e quelle dei bianchi stanno definitivamente prendendo il sopravvento. E' vero che le cose cambieranno, ma non esattamente come il chief Osage preconizza: gli Osage erano stati allontanati dapprima dal loro territorio d'origine, il Missouri, verso l'Arkansas, poi, mano a mano che l'avidità dei bianchi metteva gli occhi su nuovi appetibili territori, verso il Kansas, e infine verso l'Oklahoma. Ma qui, ironia del destino, il terreno in cui è insediata la riserva Osage comincia spontaneamente a eruttare petrolio. Siamo negli anni '20 del '900, quando i mezzi di trasporto a motore stanno iniziando a prendere il sopravvento su tutti gli altri, e i giacimenti di petrolio stanno già configurandosi come la meta di una nuova corsa all'oro (nero). Ecco quindi che la vita degli Osage cambia da un giorno all'altro: gli ex-cacciatori di bisonti e razziatori si trasformano in ricchissimi possidenti, acquistano case, macchine e abiti lussuosi (sia pur non rinunciando del tutto agli abiti tradizionali) e si permettono addirittura di assumere domestici e autisti bianchi al loro servizio. E' la loro fortuna e la loro rovina. La strage di Fairfax Ben presto infatti gli avvoltoi bianchi cominciano a volteggiare intorno a loro per approfittare, se possibile usurpandola, della loro inaspettata ricchezza. C'è chi lavora e tratta con loro, chi si fa loro compagno di gozzoviglie, chi gli vende merci a prezzi esorbitanti, perfino chi ne sposa le donne per avere accesso alle loro ricchezze. Ernest è uno dei questi, spinto dallo zio a corteggiare e sposare Mollie, una giovane Osage dal sorriso serafico, enigmatico e malizioso come una Monna Lisa, per cui lavora come chaffeur. Ma c'è chi non si ferma qui. Gli Osage, e le donne prima di tutti, cominciano a morire in circostanze sempre più sospette: chi muore per malattia o per consunzione, chi a causa dell'alcolismo, chi per incidente, chi si suicida, chi viene assassinato. Il numero e la circostanza dei decessi inducono però a sospettare qualcosa di strano, ed Ernest scoprirà che lo zio - sui terreni del quale il petrolio non ha mai fatto la sua comparsa - non si aspetta certo che il nipote attenda la morte per vecchiaia della giovane Mollie per ereditare le sue fortune. Gli Osage sono ormai in allarme e cercano di far luce sulla moria che sta colpendo la loro gente, assumendo investigatori privati (lo sceriffo del posto non sembra darsi molto da fare) e addirittura inviando emissari a Washington per chiedere aiuto al Governo federale. Ma, come dice un personaggio del film, è più facile che un uomo sia condannato per aver picchiato un cane piuttosto che per aver ucciso un indiano. Mentre le morti sospette si succedono e Molly, malata di diabete, malgrado le innovative cure a base di insulina, sta sempre peggio, fa infine la sua comparsa a Fairfax un impacciato agente del neonato Bureau of Investigations diretto da Edgar J. Hoover, e una squadra che comprende anche pellerossa venuti da fuori paese. La verità sgorgherà da Fairfax, come il petrolio è sgorgato dalla sua terra? E se sì, la giustizia farà il suo corso, visto che nell'intrigo è coinvolta mezza della Fairfax bianca, dai possidenti agli uomini della legge, dai medici al becchino del paese? Per dirci com'è andata alla fine, dopo tre ore e mezza di racconto, al posto delle solite didascalie, ci mette la faccia lo stesso Scorsese, nella messa in scena di un programma crime che racconta la storia per una televisione stle anni '50. Per poi lasciare la sequenza finale, com'era stato per il prologo, agli Osage: una loro danza tribale, ripresa dall'alto, a formare una specie di mandala colorato, simbolo di una cultura che ancora resiste malgrado le aggressioni e le angherie subite. Un finale che mi ha ricordato, a torto o a ragione, quello a colori di Schindler's List, quando gli ebrei sopravvissuti depongono una pietra sulla tomba del loro protettore. Una Storia americana Scorsese torna a rivisitare i miti delle origini della nazione americana (anche qui, come nel Birth of a Nation griffithiano, fa la sua comparsa il Ku Klux Klan), ma secondo la sua declinazione prediletta (che lo ha portato a girare alcuni dei suoi capolavori): ovvero una soggettiva all'interno di una comunità gangsteristica. Killers of the Flower Moon (basato sui fatti storici descritti dal saggio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the Fbi di David Grann, edito anche in Italia dal Corbaccio con il titolo Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'Fbi. Una storia di frontiera) si può collocare temporalmente tra i proto-gangster ottocenteschi di Gangs of New York e quelli che attraversano un lungo tratto della Storia americana in Quei bravi ragazzi o The Irishman, fino alla polizia corrotta di The Departed o alla mutazione finanziaria di The Wolf of Wall Street. Quello delineato da Scorsese però, più che una storia del gangsterismo statunitense, si configura come il racconto della Storia americana come fondata – almeno in parte –, connaturata e intrecciata con la storia criminale. I suoi Stati Uniti si configurano paradossalmente - ma non troppo - come una nazione fondata sulla violenza, sul genocidio, sull'usurpazione, sullo sfruttamento dei vizi e delle debolezze umane. La tesi è particolarmente evidente in Killers of the Flower Moon, dove il futuro dell'America, il suo progresso tecnologico ed economico, affondano i propri piedi nel sangue, basati come sono sullo sterminio dei nativi e sulla spoliazione delle loro ricchezze. La posta in gioco è il petrolio, qualcosa che viene dalla terra, anzi da sottoterra (la terra che dovrebbe accogliere la pipa sacra e la fine degli Osage risponde invece facendo sgorgare ricchezza e dando il via ad un nuovo inizio): nativo e sorgivo come gli indiani che da quella terra sono nati e alla quale sono profondamente, religiosamente legati. Nel film si accenna anche alla parallela strage di Tulsa, altro episodio significativo della storia americana, dove, negli stessi anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, per la precisione nel 1921, decine o centinaia di afroamericani vennero uccisi (il numero esatto non è mai stato accertato) e le case di circa 10.000 “negri” vennero date alle fiamme. Il film inizia con l'arrivo del treno - pieno di lavoratori e di avventurieri - simbolo (anche cinematografico, vedi come esempio tra tutti C'era una volta il West, altra elegia sul volgere di un'epoca) dell'avanzamento del progresso e della conquista del West da parte dei bianchi; ma poi è pieno di automobili, il mezzo di trasporto del futuro, che è anche inizialmente lo strumento di lavoro di Ernest, che proprio grazie al suo lavoro di autista conosce e circuisce Mollie. E' l'inizio di una nuova era, in cui la presenza dei nativi è solo un intralcio alla marcia del progresso e della ricchezza. Il bene e il male, il vecchio e il giovane Gli eroi di Scorsese si dibattono spesso (come enunciano i sottotitoli italiani di alcuni suoi film) tra chiesa e inferno, tra bene e male, tra la ripugnanza e l'attrazione per il male, la violenza, il potere sugli uomini, sulle donne, sul denaro. Il loro percorso si sviluppa classicamente tra la perdita dell'innocenza, il fascino del peccato, l'assunzione della colpa, la paura della punizione. E' la traiettoria che percorre anche Ernest (che, come ci ha insegnato Oscar Wilde, può essere letto anche come earnest, ovvero “onesto”), giovane volonteroso che si mette al servizio del potente zio e ne segue le direttive, spingendosi sempre più in là sul terreno della colpa. Come in altri film di Scorsese, il giovane eroe (o antieroe) subisce infatti la fascinazione di personaggi più anziani (capi gang o boss mafiosi come in Gangs of New York o in Departed), distorte figure patriarcali e paterne che svolgono un vero e proprio ruolo di mentori nell'avviamento sulla via del male dei rispettivi discepoli. Sia Ernest che Will Hale sono portatori di una doppia, ambigua e contraddittoria natura, in bilico tra bene e male. The King è amico di tutti, un generoso benefattore, sensibile verso la mentalità degli indiani e membro rispettato della comunità bianca, ma sotto l'apparenza melliflua e bonaria nasconde in realtà una natura malefica e predatoria (le donne indiane sono da lui chiamate spregiativamente “coperte”, blanket, per gli indumenti tradizionali che ancora indossano nella loro nuova condizione di ricche cittadine); lo sterminio e la scomparsa della nazione indiana è per lui non solo un obiettivo tenacemente perseguito, ma una necessità storica, un passaggio epocale ineluttabile. Ernest invece esibisce una natura spregiudicata, presta la propria colpevole e infame complicità ad una serie di atti criminosi ai danni non solo degli indiani (e di donne con le quali è ormai imparentato), ma anche di altri bianchi che sono d'ostacolo alle mire espansionistiche dello zio. Ma in realtà Ernest dietro i comportamenti criminali conserva un fondo di innocenza e di rimorso per le proprie azioni. Quando corteggia Mollie un po' segue diligentemente il mandato e le istruzioni dello zio, un po' se ne innamora veramente. Ma neppure l'amore per la donna e per i figli che nascono via via lo fanno arretrare quando si passa a progettare spietatamente la morte della sorelle della moglie, di sua madre, di altri indiani scomodi, e alla fine della stessa Mollie. Cattolicamente, Ernest avvelena la moglie e si commuove per il suo destino; si rende complice di omicidi e di terribili attentati dinamitardi salvo poi sbarrare gli occhi meravigliato e inorridito dai suoi effetti. Tutta l'ambiguità dei caratteri dei due uomini emerge nella contrapposizione all'interno del lungo finale, quando la malvagità di Hale è smascherata ma ancora dissimulata sotto l'apparenza dell'affetto parentale e del perseguimento del bene comune (della famiglia e dei bianchi, che continuano a sostenerlo); mentre Ernest è sommerso dai rimorsi, messo di fronte alle proprie colpe e allo sguardo dell'amata moglie che ha tentato di assassinare, ma nello stesso tempo impegnato a calcolare il proprio migliore interesse (a sua volta egoistico e famigliare) nella vicenda investigativa e giudiziaria che ormai li ha travolti. The Family Scorsese dispiega, nuovamente, tutte le sue abilità di narratore, seguendo una trama che ormai conosce più che bene, tanto nel porre le premesse della storia e innescare i caratteri, tanto nella descrizione meticolosa dei meccanismi e dei metodi malavitosi (adattati com'è ovvio al particolare contesto storico-geografico), tanto infine nel senso di panico, di sgomento e di rovina che, come altre volte nelle sue narrazioni precedenti, pervade la parte finale del film. Killers of the Flower Moon, nella sua versione attuale, avrebbe potuto benissimo essere una miniserie divisa in quattro o cinque puntate, non solo per la durata, ma per il gusto che si prende nel definire ogni dettaglio dell'affresco storico/malavitoso/famigliare e nell'abbozzare in modo rapido ma sicuro moltissime figure di contorno. Non tutto è necessario nei 206' minuti del film, ma tutto è godibile e lo spettatore è indotto ad abbandonarsi ad un flusso narrativo che si e gli concede anche il lusso del superfluo. A De Niro non sembra vero (anche dopo alcuni sbandamenti in film sbagliati in anni passati) di aver ritrovato il suo maestro e amico e un ruolo che sembra fatto apposta per lui (oltre ai characters già interpretati per Scorsese vengono in mente anche l'Al Capone di De Palma o il luciferino antagonista di Angel Heart), permettendogli di esprimere in magistrale souplesse tutto il suo dissimulato e violento cinismo; Di Caprio (anche se sulla carta troppo anziano per il ruolo del giovane che torna dal servizio militare) ha ormai una maturità artistica sufficiente e adeguata ad esprimere le sfumature e il tormento del suo personaggio. Lily Gladstone (appartenente alla Blackfeet nation) è la controparte femminile, vittima designata ma non rassegnata (è lei che, benché debilitata, si reca a Washington a chiedere aiuto al governo federale), anch'essa combattuta e divisa, fino all'ultimo, tra il sincero amore per il marito e il terribile sospetto che lui stia tramando per sterminare lei e tutta la sua famiglia. Tra i molti personaggi ed interpreti, tutti con le giuste facce e l'adeguato fisico del ruolo, spicca il flemmatico e bonario, ma tenace, agente del Bureau of Investigations interpretato da Jesse Plemons. In una sontuosa produzione da 200 milioni di dollari, Scorsese gioca sul sicuro attorniandosi dei propri collaboratori di una vita. Autore di una colonna sonora in buona parte basata su un continuo, lento, snervante tambureggiare di percussioni e di giri di basso, che tengono continuamente teso il filo della narrazione, Robbie Robertson era il collaboratore ideale: figlio di un'indiana Mohawk, già componente della band che accompagnò Bob Dylan, ricercatore appassionato della tradizione musicale dei nativi (celebre il suo Music for the Native Americans) e alla decima e ultima collaborazione con Martin Scorsese (il musicista è scomparso ad agosto di quest'anno). Altrettanto scontata la presenza di Thelma Schoonmaker al montaggio, fedelissima, immancabile collaboratrice di Scorsese fin dai tempi delle prime prove cinematografiche all'Università di New York (una collaborazione lunga una vita che le ha fruttato tre premi Oscar, oltre a cinque nominations e ad un'infinità di altri premi, tra cui il primo Leone d'oro alla carriera assegnato ad un montatore. Altro collaboratore abituale è il direttore della fotografia Rodrigo Prieto, che ha accompagnato la carriera di Iñarritu, fin dal memorabile – anche dal punto di vista fotografico – Amores perros, che ha già lavorato con Scorsese in diverse occasioni, ma che è anche l'insospettabile responsabile della fotografia lollipop di Barbie. Last but not least, da citare l'eccellente lavoro del veterano scenografo Jack Fisk, che ha contribuito alla realizzazione di alcuni capolavori del cinema statunitense. ASTEROID CITY di Wes AndersonAsteroid City è una località nel deserto del Nevada, sorta vicino ad un cratere provocato da un meteorite: una pompa di benzina con officina meccanica, un drugstore, un gruppo di bungalow, un binario ferroviario, un osservatorio astronomico e poco altro. Qui si ritrova un eterogeneo gruppo di personaggi, ragazzi prodigio inventori, giovani astronomi e cadetti dello spazio, famiglie, attrici in viaggio; e poi militari e scienziati; e poi folle di visitatori e commercianti, perché nel frattempo, a 50 minuti dall’inizio del film, sorprendentemente, un alieno silenzioso e furtivo è sbarcato sulle Terra. Malgrado le accoglienze controverse riservate da tempo ai suoi film, Anderson non sposta di una virgola il suo modo di fare cinema. Una parte della critica e del pubblico è sempre più convinta che il suo sia un cinema vuoto, freddo, manierista, tutto forma e niente sostanza. Un’altra parte lo adora per la sua originalità, la sua vena di astratta follia, lo stile inimitabile, l’eleganza formale e lo stralunato aplomb delle narrazioni. Dalla parte di questi ultimi si trovano evidentemente produttori e buona parte dello star system hollywwodiano, tutti pronti a sostenere un progetto astruso come Asteroid City, vuoi con finanziamenti per 25 milioni di dollari, vuoi con la presenza in veste di interpreti. I suoi film infatti sono ormai evidentemente percepiti dagli attori come un posto dove bisogna esserci, una specie di festa dove sarebbe disdicevole non essere invitati o non presentarsi: un effetto che ha permesso a Anderson di avere nel cast del suo ultimo film dive e divi come Scarlett Johansson, Margot Robbie, Tilda Swinton, Jason Schwartzman (quasi onnipresente nei suoi film), Tom Hanks, Edward Norton, Steve Carell, Willem Dafoe, Adrian Brody, Jeff Goldblum, e così via, a volte per un solo take o sotto travestimenti irriconoscibili. In effetti, è impossibile non rimanere a prima vista colpiti e sedotti dall’immaginario visivo di Asteroid City, ambientato in un americanissimo deserto vintage anni ‘50, western, cartoonesco e color pastello. In realtà dovrebbe trattarsi di un set teatrale, perché in Asteroid City tutto è in cornice (o tra virgolette), e il film sta dentro una trasmissione televisiva (in bianco e nero) che racconta la genesi e la storia di una dramma teatrale omonimo. In realtà Anderson ci tiene a strizzarci subito l’occhio e farci vedere che sta scherzando, inquadrando in un establishing shot propedeutico il set desertico in una panoramica a scatti, a 360°. Non c’è quarta parete, non c’è pubblico, il set è il mondo e il mondo è un palcoscenico: una finzione che sta dentro un’altra finzione che sta dentro un’altra finzione, in un gioco di scatole cinesi senza pareti definitive. Dove Anderson getta dentro di tutto un po’: il cinema, e ci sono inseguimenti polizieschi senza storia nel vuoto del deserto, alieni che scendono dai dischi volanti e che sembrano la versione timida dei marziani di Tim Burton, o ispezioni nei crateri che sembrano venire da 2001 Odissea nello spazio; il cartoon, e c’è un geococcyx californianus (filologicamente, quello che Chuk Jones prese a modello per il suo roadrunner Beep Beep) che passeggia sul set; c’è la pittura, con i volti dei personaggi che sembrano usciti dalle illustrazioni di Norman Rockwell; e c'è il fumetto con una ligne claire color pastelli e caramelle; e poi c’è la tv col suo formato quadrato e in bianco e nero, e c’è il teatro con le sue scenografie di cartapesta, e c’è la fotografia, con le stampe appese in camera (oscura). E c’è perfino la storia, con i funghi dei test atomici che si elevano sul deserto come fuochi fatui accesi là dove Opennheimer e il progetto Manhattan, ma in un altro film, preparano la bomba distruttrice di mondi. E poi c’è il cinema di Wes Anderson, con il suo stile inconfondibile, i suoi vezzi, le sue autocitazioni, i sui attori e i suoi collaboratori abituali, quasi dei coautori, come lo scenografo Adam Stockhausen (Oscar per Grand Budapest Hotel) o l’inseparabile direttore della fotografia Robert D. Yeoman. E forse c’è qualcosa di Wes Anderson stesso, con gli echi biografici che rimandano ad abbandoni infantili, a bambini prodigi, alle prove giovanili nel cinema, nella scrittura, nel teatro. E anche nel film Asteroid City, che contiene tutto questo, tutto sembra inscatolato e incorniciato, dentro bungalow, tende, padiglioni, camerini, quinte da palcoscenico, quinte di edifici, finestre, vetrate. Molti dei dialoghi principali tra due dei protagonisti, il fotografo Augie e l’attrice Midge, si svolgono con i due inquadrati dentro le rispettive finestre dei rispettivi bungalow che guardano l’una verso l’altra (e verso le rispettive vite, fatte di foto appese e di prove d’attrice dentro la vasca da bagno). Anderson conferma la sua predilezione per le inquadrature frontali e simmetriche, o laterali e speculari, ma sfonda anche spesso le inquadrature in primo piano con fughe in finta profondità verso orizzonti ingannevoli e artificiosi, senza contare che tutta la narrazione principale è ben incasellata in atti e scene preannunciati da puntigliosi cartelli didascalici.
Ma cosa c’è dentro tutte quelle scatole? Nel fondo di questa fuga infinita? Difficile dirlo, se anche l’attrice che impersona un’attrice che sta dentro un film che parla di una rappresentazione teatrale che sta dentro una trasmissione televisiva che a sua volta sta dentro un film a volte non recita se stessa, ma un altro personaggio proiettata verso un’altra dimensione finzionale ancora, ancora più remota, ancora più frammentaria e inafferrabile. E allora? E allora resta il gioco prospettico, e ci si accorge che forse non erano scatole, ma una sorta di libro per bambini a fogli trasparenti, dove ad ogni pagina si intravedono le successive, una successione di figure bidimensionali, senza spessore e senza consistenza. Resta una folla di personaggi senza profondità, una serie di gag che non fanno ridere, di storie che non approdano da nessuna parte. Non trovando appigli nella storia e nella narrazione, alla fine lo spettatore tenta di aggrapparsi al puro testo filmico per trovare un senso a tutto questo (anche se tutto questo, viene da pensare parafrasando Vasco Rossi, un senso forse non ce l’ha). E allora viene da pensare a quel meteorite (il film), una piccola palla di pietra che ha scavato un grande cratere nel nulla del deserto (il clamore mediatico suscitato dalla pellicola); o a quell’alieno che sbarca sulla terra, prende il meteorite, se lo porta via, poi lo riporta, senza che nulla cambi per nessuno; o ancora viene da paragonare il film a quel sovrappasso con la rampa interrotta che campeggia ad Asteroid City, una costruzione e un percorso celibi che non portano in nessun luogo. Oppure si è tentati di identificare Wes Anderson con quel ragazzino prodigio al quale viene chiesto perché tenti continuamente nuove sfide assurde. Qual è la ragione? Qual è il senso? gli chiedono. Non lo so; forse è perché ho paura che, altrimenti, nessuno si accorgerebbe della mia esistenza nell'universo, è la risposta. OPPENHEIMER di Cristopher NolanMi capiterà (di nuovo) forse di farmi delle inimicizie parlando di Oppenheimer, di cui, a giudicare dalle reazioni critiche e dalle opinioni social, largamente positive quando non entusiastiche e reverenziali, forse non sono stato in grado di capire e riconoscere la grandezza. Con Tenet si era capito che la ricerca di Nolan sulla struttura del tempo era arrivato ormai ad un punto morto e di non ritorno, sull'orlo della ridicolaggine, dove un espediente puerile veniva messo al servizio di una risibile storia zerozerosettesca. Nolan reagisce quindi con un colpo di reni, e si dedica con il nuovo progetto ad indagare contemporaneamente in altre ambiziosissime direzioni: la coscienza umana, la Storia, la struttura stessa della materia e della realtà. Oppenheimer è dunque un meta-biopic che solleva grandi temi, come la comprensione dell’universo, i limiti della scienza (quelli oggettivi e quelli morali), la responsabilità dello scienziato, la sostenibilità della politica della deterrenza, la politicizzazione della ricerca scientifica e la caccia alle “streghe” comuniste, l’impegno intellettuale e politico e le conseguenze da pagare. La figura guida è quella di Robert J. Oppenheimer, scienziato/intellettuale il cui ritratto è da una parte immerso nel momento storico (dagli anni ‘30 della Guerra civile in Spagna alla Guerra mondiale contro nazisti e giapponesi, e al dopoguerra dove al nemico fascista si sostituisce quello dell’ex-alleato comunista), radicandone la formazione anche nella temperie culturale dell’epoca (psicanalisi, marxismo, avanguardie artistiche); dall’altro nel coacervo dei sentimenti umani in cui si mescolano amore, odio, ambizione, invidia, tradimento, gloria, frustrazione, rimorso. Eppure, la mia impressione è che Oppenheimer sia una montagna, o meglio un elefante, che partorisce un topolino. Dove l’elefante può essere appunto il tema della comprensione dell’universo, la bomba atomica che prefigura la possibilità di un annientamento totale dell’umanità, la questione morale riguardante un intervento “dimostrativo” (il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki per costringere il Giappone alla resa, comunque ormai imminente) al costo di oltre 200.000 vittime civili innocenti stimate. E il topolino può essere la vita privata di Oppenheimer, con gioie e miserie, ma ancor più la diatriba con Strauss, Presidente della commissione degli Stati Uniti d’America, che sulla base di presunti torti subiti complotta segretamente per scatenargli contro una campagna per screditarlo e denigrarlo, basando le sue argomentazioni sui passati contatti di Oppenheimer con organizzazioni comuniste statunitensi. Il problema non mi sembra – anzi - mischiare l’alto e il basso; il sublime della scienza e dei dilemmi morali con le bassezze delle passioni umane; la coscienza tragica di chi indagando la struttura profonda della materia è pervenuto ad elaborare un’arma in grado di distruggere potenzialmente tutta l’umanità e le vicende quotidiane; l’angelo sterminatore forte del proprio intelletto e della propria conoscenza e l’uomo comune alle prese con le beghe tra colleghi, le relazioni extraconiugali, i bambini che piangono (praticamente sempre): è semmai un problema di proporzioni. Nolan non rinuncia del tutto a giocare con il tempo - com’è suo solito: ne parlavo qui di recente, recensendo la sua opera prima, Following -, frammentando la narrazione (il montaggio è molto serrato anche nelle situazioni apparentemente più statiche), amplificandola, replicandola (ci troviamo ad assistere allo stesso episodio da più prospettive, e con differenti quantità di informazioni a nostro favore); è quindi perdonabile se a volte il processo può ingenerare qualche difficoltà di orientamento allo spettatore (non ci sono marche temporali, ma una fastidiosa alternanza di colore e bianco e nero, che ha l’effetto di segmentare il flusso narrativo rimettendo continuamente in gioco la credulità di chi guarda). Più problematica dal punto di vista drammaturgico è l’ampiezza spropositata concessa alla bega Strauss-Oppenheimer, prima con la commissione chiamata a giudicare a posteriori l’operato e la lealtà di Oppenheimer (cui assistiamo prima di sapere che è occultamente manovrata da Strauss e poi dopo che siamo portati a conoscenza della cosa), poi con la commissione senatoriale che dovrebbe portare alla nomina di Strauss a Segretario al Commercio e nel corso della quale il suo complotto viene smascherato. Una vicenda istruttiva, ma che poteva forse essere condensata, a favore di un film molto più breve. La ripicca di Strauss (a cui favore gioca un’interpretazione scavata e in bianco e nero di Robert Downey jr.) finisce per avere un peso equivalente se non superiore a quello dei grandi temi sollevati dal film, con un effetto che a me è parso di ripetitività, di ridondanza e di parziale irrilevanza. Per fare solo un esempio, in un film incentrato sulla creazione e l'impiego della bomba atomica, si parla delle tresche extraconiugali di Oppenheimer emerse durante l'inchiesta, ma non c'è una sola immagine (né dentro il film, né magari nei titoli di coda) che ricordi i reali effetti devastanti della bomba, o uno solo dei 220.000 giapponesi (uomini, donne, vecchi, bambini) vittime innocenti delle più gigantesche e mostruose singole azioni di sterminio di massa mai operate da esseri umani nella storia. Se Cillian Murphy (ottimo) nel ruolo del titolo sembra visivamente una citazione vivente de L’uomo che non c’era dei Coen (ma Oppenheimer c’era eccome, e non era certo il burattino nelle mani del destino cinico e beffardo raccontato dai fratelli terribili e fatalisti), e i due amanti che discutono nudi in poltrona sembrano provenire per direttissima da L’amant double di Ozon, sono in realtà un altro paio di titoli che mi vengono in mente parlando di Oppenheimer. Due paragoni che non escludo qualcuno potrà ritenere offensivi. Il primo è con Barbie, film cui Oppenheimer per tempistica di uscita è stato spesso accostato, dando luogo al fenomeno social Barbenheimer. Il film di Nolan mi è parso un po’ l’opposto di quello della Gerwig: se Barbie parte da un apparente grado zero intellettuale, usando un immaginario pop e kitsch, venale e puerile, per poi “alzarsi” ad imbastire un discorso piuttosto serio sulle tematiche di genere, Oppenheimer mette in campo invece ambizioni smisurate (alla Malick, si direbbe, per l’utilizzo insistito di immagini che tentano di evocare la struttura profonda e invisibile della realtà), cerca l’enfasi a tutti i costi (anche con il contributo dell’invadente pompatissima colonna sonora di Ludwig Göransson), accumula temi interessanti e personaggi storici (da Einstein al presidente Truman, con a disposizione un cast di extra-lusso), per poi concentrarsi in modo sproporzionato su una vicenda in fondo meschina (per quanto, come si diceva prima, significativa). Se quello con Barbie è un paragone per contrasto, me ne è venuto alla mente prepotentemente un altro per analogia, con un film che so pure essere stato molto detestato, il Blonde di Andrew Dominik (lancerò il fenomeno Blondenheimer?). Entrambi i film partono da biografie letterarie preesistenti (American Prometheus, ovvero Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato di Bird e Sherwin; Blonde di Joyce Carol Oates sulla vita di Marylin Monroe), entrambi hanno una lunghezza abnorme, entrambi sono film tendenziosi (con una connotazione non del tutto negativa: ovvero film a tesi, che perseguono una visione molto orientata del personaggio, basata su elementi psicologici e biografici privilegiati), entrambi ricorrono ad una narrazione estremamente frammentata e all’alternanza (a mio parere non sempre giustificabile) tra fotografia a colori e in bianco e nero, ed entrambi ricorrono anche ad immagini di tipo onirico. Azzardando sia nell’uno che nell’altro caso sequenze davvero di dubbio gusto: se molti si sono lamentati del feto parlante di Blonde, non ci sarà proprio nessuno (a parte me) che troverà ridicolo e fuori luogo far apparire Oppenheimer davanti alla commissione prima improvvisamente denudato, e poi scopato seduta stante (letteralmente) dalla sua amante nuda? O se molti avevano trovato inappropriata la scena della fellatio presidenziale di Blonde, a nessuno sarà sembrata grottesca la scena della scopata con contestuale e contemporanea lettura di testi sacri in sanscrito antico? Insomma; nel caso Nolan ci ripensasse, io sono qui e aspetto la versione director’s cut di Oppenheimer: quella lunga un’ora e mezza. INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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