7 MINUTI di Michele Placido Sugli schermi ovviamente domina tutt’altro, ma è comunque un buon momento anche per il cinema di realismo sociale non allineato. In un inizio di stagione che ha visto le nuove opere dei massimi, proverbiali esponenti di questo genere, Loach e i Dardenne, ora si aggiunge il film di Placido. Molto sensibile ai ritratti femminili, il regista-attore stavolta chiude ben 11 donne all’interno di una fabbrica tessile (più che un kammerspiel quindi un fabrikspiel, in una quasi sostanziale unità di tempo, luogo e azione) che sta passando di mano dagli storici proprietari (interpretati dai fratelli Placido), ai nuovi manager francesi. Mentre centinaia di donne, le rispettive famiglie e i mezzi di comunicazioni sono in fibrillazione, temendo una dismissione o una delocalizzazione - come è successo in innumerevoli casi simili -, il consiglio di fabbrica, composto dalle 11 donne, 10 operaie e un’impiegata, trasferita in ufficio dopo un incidente sul lavoro, si trovano a discutere della proposta della nuova proprietà: tutto resta come prima, la fabbrica aperta e produttiva, i posti di lavoro salvi, i salari invariati; tranne un unico particolare: la pausa tra i turni si riduce da 15 a 8 minuti. 7 minuti di riposo in meno, un nonnulla, un sacrificio su cui tutte si trovano d’accordo, una rinuncia minuscola a fronte della salvezza del lavoro, dello stipendio, della vita che continua. Ma la più anziana di loro, in un confronto che assume presto toni accesi e drammatici, istilla nelle altre il tarlo del dubbio. Tutto dipende da come si vedono quei 7 minuti, dall’aritmetica in cui si inseriscono. Niente più che 1 minuto di lavoro in più per ogni ora; ma anche 900 ore di lavoro in più regalate alla nuova proprietà; e anche altri 7 minuti tolti al diritto di riposo che una volta assommava a 45 minuti e che ora si riduce a 8. Ma anche un segno di rinuncia e di cedimento che domani potrebbe preludere ad altre rinunce, ad altre debolezze. Un dilemma sottile, una questione quasi capziosa, che però diventa la scintilla per un dibattito acceso sul tema dei diritti, della dignità dei lavoratori, sulla società odierna in cui la globalizzazione e il liberismo si mangiano i diritti acquisiti e la crisi e la competitività forniscono alibi irrefutabili a chi erode le speranze di benessere, di stabilità e di felicità e sfrutta i bisogni della gente per massimizzare i profitti. L’operazione di Placido è quindi meritoria e stimola la riflessione e la discussione, avvalendosi anche della prova bella e convinta di un cast multigenerazionale, multirazziale e perfino eterogeneo (al gruppo di attrici si aggiunge l’“esordiente” Fiorella Mannoia e un’altra cantante, Maria Nazionale, già passata attraverso Gomorra), a rappresentare schematicamente diverse età e provenienze, e con queste anche diverse mentalità delle operaie coinvolte nella difficile scelta, da quelle disposte ad assumersi dei rischi e quelle più costrette dal bisogno elementare di conservare un lavoro, comunque sia, e uno stipendio. La pecca del film sta forse, paradossalmente, nell’eccesso di drammaturgia. Se il soggetto di 7 minuti deriva da una storia vera accaduta in Francia, passato attraverso la scrittura teatrale di Stefano Massini, arriva sullo schermo con un canovaccio riconoscibilissimo che si rifà ad un classico del cinema, La parola ai giurati, diretto nel 1957 da Sidney Lumet, e che vanta una serie di rifacimenti dichiarati o meno (inclusi remake americani, versioni russe, cinesi, indiane, simpsoniane, monkiane – nel senso del detective Monk geniale protagonista di una serie tv). Alessandro Gassman in Italia ha diretto in teatro l’uno e l’altro. Lo schema è identico: là i 12 giurati, qui le 11 operaie, alle prese con una scelta difficile, là condannare un uomo alla morte, qui quella che sappiamo; all’inizio sono tutti/tutte d’accordo (condannare/accettare), poi uno/a tra tutti insinua un dubbio che si allarga progressivamente attraverso un crescendo drammatico e dialettico fino al capovolgimento delle convinzioni iniziali. E’ uno schema forte, ma già visto e rigido, che detta una serie di obblighi (la suspence, il rovesciamento dialettico, l’alternanza di vuoti e pieni drammatici, la meccanica delle votazioni e dei pronunciamenti), che toglie al film quell’aspetto di verità (e anche di imprevedibilità) che abbiamo invece ritrovato, ad esempio, in certi film francesi sul mondo del lavoro: come, per restare alle uscite più recenti, ne La legge del mercato o in 2 giorni, una notte, pure fondato, al di là dell’apparente naturalezza, su uno schema drammaturgico molto strutturato sia dal punto di vista narrativo che stilistico. I cartelli prima dei titoli di coda ci ricordano l’epica lotta delle operaie francesi cui il tutto si ispira, ma senza raccontarcene l’esito: si esce così dalla sala senza sapere se la scelta delle protagoniste sia un eroico atto di resistenza sulla barricata dei diritti, o piuttosto un irresponsabile suicidio collettivo.
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LA RAGAZZA SENZA NOME di Jean-Pierre e Luc Dardenne La ragazza senza nome appartiene in tutto e per tutto al cinema dei Dardenne, già premiati due volte con la Palma d’Oro a Cannes, dove la loro nuova fatica ha lasciato molti piuttosto tiepidi: attenzione alla società ma grande sensibilità empatica verso le storie individuali, stile realistico e minimalistico, rifiuto della musica extradiegetica come sottolineatura emotiva o drammaturgica, forte afflato etico. Eppure il film non convince come gli altri. La struttura narrativa è simile ad esempio a quella di 2 giorni, una notte (ma ricorda anche quella della ex-nuova onda del cinema iraniano, da Dov’é la casa del mio amico? in poi) e si dipana parattaticamente attraverso una sequela di dialoghi tra la protagonista e, via via, gli altri personaggi del film. Però il risultato, oltre a non possedere quello splendido e cogente equilibrio tra esprit geometrique e esprit de finesse, che cercavo di analizzare sul n. 191 di “Segnocinema” (ma vedi anche http://www.nordmilanotizie.it/scusate-ritardo) non è altrettanto convincente né emozionante. Credo che il problema fondamentale sia nel pretesto narrativo alla base del film. Se ad esempio l’eroina del film precedente combatte per il proprio lavoro, ma ancor più per la propria salute mentale, per la propria famiglia, in definitiva per la propria vita, Jenny si impegna in una defatigante ricerca (in cui potenzialmente, anche se lei sembra non accorgersene, mette volontariamente a repentaglio la vita stessa) per uno scrupolo morale: non aver risposto ad un’anonima scampanellata mentre si trovava, in ritardo di un’ora sulla chiusura, nel proprio ambulatorio medico. La scoperta che la ragazza che aveva suonato - una sola volta - al suo campanello è morta subito dopo, suscita in lei degli invincibili sensi di colpa. Donna sola (benché giovane, bella, istruita, con un futuro professionale promettente) Jenny non ha nel film parenti, amici, amiche, spasimanti. Già apparentemente votata alla solitudine, il trauma della morte della ragazza che non ha aiutato la spinge, oltre che in un’indagine troppo insistita, in una dimensione di ulteriore solipsismo, in cui rinuncia al proprio nuovo e più prestigioso impiego e alla sua stessa casa, riducendosi a vivere come una monaca di clausura laica nel retro dell’ambulatorio. La sua passione (nel senso pieno del termine, compreso quello religioso) morale diventa totalizzante, ma anche eccessiva, sconsiderata, quasi inopportuna e molesta. Oltretutto, la sceneggiatura le assegna un ulteriore missione: quella di riportare sulla strada della medicina un suo stagista ombroso, irriconoscente e permaloso (salvo scoprire che la sua sgarbataggine deriva dai soprusi subiti da un padre violento...), e, cosa più unica che rara nel cinema dei Dardenne, sbanda verso il romanzesco, attribuendo a quasi tutti gli “indagati” un ruolo diretto o indiretto nella morte della ragazza senza nome e risultando alla fine perfino lacunoso nelle motivazioni (perché la ragazza sconosciuta, mentre esercitava non per la prima volta la prostituzione, doveva fuggire disperatamente da un aspirante cliente, prima ancora che questo rivelasse eventuali comportamenti violenti o minacciosi?). Jenny un nome ce l’ha (la morta ne avrà un paio nella parte finale del film), ma poco di più. La sua più che un’indagine finisce per essere un percorso di espiazione attraverso un’identificazione con la ragazza morta e una serie di rinunce progressive che appaiono come dei sacrifici di parti di se stessa. Lotta per riscattare le proprie responsabilità, e per mettere ciascuno degli altri personaggi davanti alle proprie; ma alla fine finisce per sembrare, e anche questa è una novità non tanto per il cinema quanto per la filosofia dei Dardenne, servizievole ma impietosa. LEGGI l'opinione di Oruam Norac su FACE/OFF I, DANIEL BLAKE di Ken LoachVi chiederete se vale la pena di andare a vedere l'ennesimo Ken Loach. Avete visto l'ultimo Jimmy's Hall, e ve ne siete pentiti, un altro film così poco necessario, poco sentito e in certo grado retorico non ve la sentite di sopportarlo. In fondo sapete già cosa aspettarvi. Cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, al massimo un po' di umorismo salace per sdrammatizzare e dimostrare che la gente semplice è capace anche di ridersela anche in mezzo alle disgrazie e malgrado i malvagi sfruttatori (come il contadino di Ho visto un re di Fo-Jannacci). E avete torto. Cioè, in parte avete ragione, però avete anche torto. Perché è tutta quella roba lì, cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, umorismo salace, ma è anche un film necessario, sentito, senza retorica. Perché racconta il nostro tempo, perché racconta quello e quelli che gli altri film non ritengono degno di essere raccontato. Tipo un carpentiere che ha dovuto smettere di lavorare perché malato di cuore, che si trova invischiato in un mostruoso (ma credibilissimo, accidenti quanto credibilissimo) gorgo burocratico in cui una funzionaria (senza competenza medica) gli nega l'indennità di malattia in contraddizione con tutta la documentazione specialistica, altri burocrati gli impediscono di fare ricorso fino a che non sia terminato un iter senza fine (certa), e altri burocrati ancora gli negano l'indennità di disoccupazione se non dimostra di cercare un lavoro - che comunque non potrebbe accettare, per ragioni di salute e perché accettandolo perderebbe la possibilità di ottenere l'indennità per malattia che gli spetta. Un uomo che sa usare una pialla, ma si trova a disagio davanti alla tastiera di un pc, in una società dove essere moderni significa essere digitali, anche se magari ci si dimentica di essere umani; un uomo capace di aiutare gli altri ma che potrebbe perdere la fiducia in se stesso e in chiunque. O tipo una ragazza madre che si toglie il pane di bocca (letteralmente) e ruba per dar da mangiare ai figli, e per la quale l'unico mestiere disponibile sul mercato degli uomini e delle donne mercificati sembra essere la prostituzione. O tipo due bambini cresciuti nell'unica stanza di un ostello per i poveri. Gente poco trendy, vero? E' sì che sono bianchi, anglosassoni, protestanti, insomma sembrerebbero avere tutto in regola, però di sicuro si preferirebbe non averci niente a che fare. Eppure più o meno al loro posto potrebbe esserci chiunque, io, voi, adesso o nel futuro, in una società liquida che lascia indietro, abbandona e soffoca chiunque non riesca, per qualsiasi motivo e anche solo per un momento, a seguire la corrente. Una società che ci vuole tutti clienti, consumatori, numeri in balia di una giostra burocratica che anziché perseguire il bene delle persone sembra concepita per dominarle, neutralizzarle, ridurle al silenzio e all'impotenza quando non siano funzionali al sistema. Fate bene se decidete di non andare a vederlo, perché è difficile rimanere ad occhi asciutti davanti a scene come quella della Banca del cibo (molto intensa l'ammirevole performance di Hayley Squires), e in diverse altre occasioni. E quelle che salgono agli occhi sono lacrime di compassione, di empatia, ma anche di rabbia e di indignazione. Scusate se sono stato un po' retorico, Loach ha fatto di tutto per non esserlo. Ha vinto una sacrosanta palma d'oro a Cannes, ma qualcuno, ancora una volta, l'ha definito un po' anacronistico. Ma se essere anacronistici vuole dire avere ancora a cuore la sorte dei nostri simili, evviva l'anacronismo. E anzi, anacronistici di tutto il mondo, cercate di unirvi. E per prima cosa andate a vedere la storia di uno che cerca di tenere la testa alta nonostante tutto e di continuare a proclamare nel suo piccolo la propria umanità, la propria identità, i propri diritti, I, Daniel Blake. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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