LOVING di Jeff NicholsLe ultime stagioni sono state particolarmente ricche di film dedicati alla questione afroamericana. Pietre miliari in questo breve arco di tempo sono stati 12 anni schiavo (2013) e Selma (2014); ma nelle ultime stagioni si possono annoverare almeno The Birth of a Nation, Free State of Jones, Il diritto di contare, Moonlight, Loving, Barriere (gli ultimi quattro usciti nei cinema italiani nell'arco di poche settimane). Dopo un'edizione priva di nomination afroamericane e pertanto ricca di polemiche, l'Academy di quest'anno ha decisamente recuperato con un 2017 pieno di nomination black, distribuite nelle varie sezioni: film (Moonlight, Barriere, Il diritto di contare, oltre a Lion), attori (Denzel Washington, Mahershala Ali, oltre all'angloindiano Dev Patel), attrici (Ruth Negga, Viola Davis, Naomie Harris, Octavia Spencer), documentari (quattro su cinque: 13th, I Am Not Your Negro, OJ: Made in America, Life, Animated, oltre a Fuocoammare, che parla dell'emigrazione dall'Africa all'Europa), ecc. Tutto bene quindi? Nì. Perché se da una parte i titoli sono tanti, appare però altrettanto evidente che sono tutte opere ambientate nel passato. Nascita di una nazione e Free State of Jones sono ambientati durante l'epoca schiavista: il secondo prende in esame anche gli anni successivi alla Guerra di Secessione e spinge lo sguardo alle generazioni future, per fermarsi però agli anni '50; in questi anni sono collocate le vicende di Barriere; Loving sta a cavallo tra gli anni '50 e gli anni '60; Il diritto di contare racconta della corsa dello spazio degli anni '60; Moonlight racconta della nostra epoca, ma con un trattamento che presso alcuni commentatori, tra i quali Mauro Caron, ha suscitato qualche perplessità a causa di una sorta di una sua apparente reticenza. Forse per riflettere più profondamente sul rapporto tra bianchi e neri conviene parlare di quella sorta di cultural study che è I Am Not Your Negro, che pure segue un testo di James Baldwin (morto nell'87) e si impernia sul periodo della morte di Evers, Malcom X e Luther King. E non va bene? chiederete voi. Ripassare un po' di storia, e capire che l'umanità e gli Usa possono anche progredire nel campo dell'eguaglianza e del riconoscimento dei diritti, soprattutto in un momento come questo, dove a forza di muri, bandi ed egoismi vari il mondo sembra girare all'indietro, non può fare che bene. Giusto; nello stesso tempo però appare altrettanto evidente come sia più comodo, dal punto di vista ideologico, drammaturgico e commerciale, raccontare del passato piuttosto che del presente, con le sue problematiche e le sue contraddizioni ancora vive e destabilizzanti. Chi oggi avrebbe il coraggio di sostenere apertamente la causa dei bagni separati per bianchi e per coloured?; chi vorrebbe la galera per i coniugi di matrimoni misti? chi sarebbe a favore delle frustate e delle catene? Oddio, adesso che ci penso forse sì, qualcuno ci sarebbe, ma persino Tarantino ha scelto l'antischiavismo (dopo il nazismo) come inattaccabile alibi per dare sfogo al suo compiacimento per la violenza in Django. Loving si inserisce in questa schiera di film ben intenzionati e per ben intenzionati, adottando però un tono anticonvenzionale, estremamente raffreddato, sobrio e smorzato. La maggior parte dei commentatori ha in effetti elogiato la mancanza di retorica e di eccessi melodrammatici; di norma sarei d'accordo con loro, ma il rischio di Loving alla fine è quello di un film che non commuove, non indigna, non suscita empatia. Posso anche condividere la lettura che ne fa Mauro Caron su questo stesso sito, rispetto alla costruzione di un film in cui la minaccia è sempre in assenza (avvicinandosi per questo alla versione paranoide di Take Shelter dello stesso Nichols), ma Loving è un film che, per usare una metafora automobilistica, visto che il protagonista è un appassionato di meccanica, parte ingranando una marcia bassa e non accelera mai, non cambia mai. Pur puntando tutto sul lato umano della vicenda della coppia mista che si batte contro lo Stato della Virginia per difendere il proprio diritto ad amarsi (quello processuale nella seconda parte si svolge tutto al di fuori dello schermo), il film non sembra prendersi nemmeno particolare cura dei propri personaggi: se Richard acquista una propria dimensione grazie soprattutto alla rappresentazione delle sue paure, Mildred nella sua dolce ostinazione rimane già più defilata; ma ogni potenzialità dei personaggi comprimari (ad esempio il poliziotto razzista, la sorella affettuosa e gelosa, il fotografo discreto, l'avvocato ambizioso, la famiglia di Mildred e i bambini) viene volontariamente trascurata e le loro storie rimangono come dei semi appoggiati su un terreno dal quale non germoglieranno mai. Richard Loving, dopo che con la moglie ha scelto di lasciare la città a favore della più tranquilla e bucolica campagna natia, muore pochi anni dopo il verdetto che costituzionalizza il suo rapporto con Mildred, investito da un'automobile guidata da un ubriaco. Segno tragicamente ironico che non sempre tornare al passato fa bene... Leggi l'opinione di Mauro Caron su HOLLYBLOOG
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ARRIVAL di Denis VilleneuveVillleneuve ci ha abituato a storie involute, piene di segreti e di agnizioni, basando le proprie narrazioni su sceneggiature sempre interessanti ma che spesso sembrano fallate in qualche loro elemento. Qui parte da un racconto fantascientifico (leggi la mia recensione di Storie della tua vita, l'antologia di Ted Chiang da cui è tratto, in Blog Notes)per imbastire una storia apparentemente semplice (atterrano gli alieni; si cerca di comunicare con loro) ma in realtà complessa (problemi di interpretazione che si sommano a quelli di comunicazione; il tempo va a gambe all'aria e si avviluppa in paradossi). Non si può disconoscere l'abilità sopraffina di Villeneuve, forse uno dei migliori registi della sua generazione, a usare immagini e suoni, musica e luce per creare delle atmosfere profondamente suggestive. Ma, appunto, in questo film, tutto è troppo semplice e nello stesso tempo troppo complicato. Semplice il film nella sostanziale monotonia (nel senso che utilizza un solo tono, basso e cupo); nella ristrettezza del parco personaggi (una+2+qualche altro semianonimo+2seppie giganti aliene: ma possibile che tutta la squadra scientifica statunitense sia costituita da un paio di persone più qualche portaborse?!); nella facilità di decifrazione della scrittura action painting degli alieni che si esprimono a macchie di Rorschach; nella rappresentazione degli alieni, due seppie giganti sparainchiostro che vengono battezzate Tom & Jerry (avrebbero dovuto essere Gianni e Pinotto per rispettare l'originale Abbot e Costello), e delle astronavi, degli ovoidi scuri che sembrano alludere al sempiterno monolite di 2001 Odissea nello spazio. Complicato invece nelle spiegazioni non date, lasciando lo spettatore ad arrangiarsi a ricomporre gli indizi buttati lì, mentre esce dal cinema un po' interdetto. Se il contatto con gli alieni buoni deriva da Incontri ravvicinati del terzo tipo, per andare un po' più nel profondo le metafore sulla nascita e sulla rigenerazione si erano già viste da poco in Gravity; e Arrival in più adotta uno stile punitivo, rigido, grigiastro, spegnendo la fotografia e negandole qualunque sprazzo di sole. Certo, bello il fuoco corto della fotografia nelle scene più intime, suggestiva la colonna sonora; brava la Adams (ma se non fosse tormentata da sprazzi di flashback o flashforward rischierebbe l'effetto maestrina zitella); Renner è un dignitoso cavalier servente ma Withaker fa sempre un po' la figura del bambolone, anche con i gradi di colonnello. Gli altri sono solo sagome. Sulla recitazione delle seppie giganti per il momento consentitemi di sospendere il giudizio, incompetente come sono a valutare gli stili di recitazione non terrestri. Pensi che Oruam Norac sia stato un po' ingeneroso? che le cose sono un tantino più complesse di così? Allora magari ti troveresti più d'accordo con la recensione di Mauro Caron... Essì, vabbè che poesia fa rima con malinconia e bellezza con tristezza, ma non bisogna neanche esagerare. Tanto per cominciare il vero nome di Zucchina è Icare, il nome mitico di chi ci prova a volare, ma cade e muore. E anche l’iconografia mette in sospetto: Zucchina ha intorno agli occhi delle occhiaie blu (il colore internazionale della tristezza) e ha un naso sottile e arancio-carne-viva piuttosto impressionante; gli alberi sono stati potati e i rami sono tronchi e senza foglie. E’ un mondo senza madri; il ricordo della mamma morta che Icare si porta dietro è una lattina di birra perché lei era un’abulica alcolizzata. I suoi compagni all’istituto hanno tutti alle spalle storie terribili (e molto poco da cartone animato): i tocchi umoristici sono infantili (il pistolino che esplode, i gavettoni in testa al poliziotto buono), ma le tragedie sullo sfondo sono molto precise. Lo stesso Icare ha provocato addirittura, se pur involontariamente, la morte delle sua mamma. Tranquilli: tutto finisce bene. Ma non per questo la tristezza diminuisce di un milligrammo. Tanto per dire, guardate la luce che illumina l’appartamento del poliziotto quando Icare e Camille vi fanno il loro ingresso, impacciati e imbarazzati. E pensare che tutto sta andando per il meglio! Senza contare che diventare fratello e sorella, per due innamorati, non è certo la soluzione a tutti i loro problemi. E giusto per uscire dal cinema inseguiti dall’ala lunga della malinconia, sui titoli di coda risuonano addirittura le note di Le vent nous portera. Vi dice niente? La canzone dei Noir Désir, il cui cantante e leader uccise a pugni la moglie Marie Trintignant (figlia di Jean-Louis, diventata muta da bambina dopo la morte della sorellina), e la cui moglie precedente si è impiccata... Mmh. Natale si avvicina: al cinema dovreste trovare sicuramente anche qualcosa di più allegro. Leggi l'opinione di Mauro Caron in HOLLYBLOOG ANIMALI NOTTURNI di Tom FordTom Ford stratifica il suo film (adattamento del romanzo Tony e Susan, di Austin Wright) su due piani contrapposti. Uno fatto di immagini eleganti, levigate, dove l'esistenza del male, del dolore, della violenza è stata rimossa e sublimata in opere d'arte appese alle pareti delle gallerie - dove danzano nude mostruose donne obese, esibendo grottescamente la propria carne flaccida, le proprie cicatrici, la propria deformità, come nello scioccante prologo sotto i titoli di testa, o dove campeggia come un monito la parola “REVENGE”, grondante colore che cola come sangue – o messe sotto teche di vetro che racchiudono animali trucidati. L'altro sporco di polvere, di sangue, di escrementi, di malattia, di sudore, sputi e vomito. Il primo ambientato in luoghi chiusi ed esclusivi (si veda la sala della riunione, di forma circolare, in cui un consiglio di amministrazione discute appunto dell'espulsione di una collaboratrice), abitato da personaggi vestiti di abiti altrettanto esclusivi; l'altro ambientato per le strade, nel deserto, in luoghi aperti ed esposti. Si veda il diverso ruolo esemplare che assumono i punti di passaggio tra interno ed esterno nei due diversi film, l'uno dentro l'altro, che compongono Nocturnal Animals: nel primo le finestre (come le grandi vetrate della casa di Susan) sono barriere apparentemente fragili ma impenetrabili, che separano e proteggono dall'esterno (il luogo dove la morte esiste: un uccellino morto oltre il vetro, sotto lo sguardo della donna), come un acquario che ripara ma che imprigiona; nell'altro porte e finestre sono sempre permeabili, vulnerabili, aperte all'intrusione, all'irruzione del pericolo e del male: come i finestrini della macchina della famiglia di Edward, abbassati a mezz'asta, che non possono fermare l'irrompere della tragedia, o le porte sfondate, o le finestre senza vetri intorno cui volano le mosche. Perfino la defecazione avviene all'esterno delle case, sotto gli occhi degli estranei. Come Edipo, consumata la tragedia, Tony nel finale arranca cieco, in un luogo aperto e come sempre senza nascondigli, ma dove il male è finalmente fuori dalla vista. Dunque un film si svolge in un luogo che confina il male al proprio esterno; il secondo nell'esterno, dove il male regna. Apparentemente. Perché i due piani, l'uno dominato dall'infelicità, l'altro dal dolore, alla fine comunicano: dal passato di Susan, resuscitato dalla vorace lettura del libro che l'ex-marito Edward le invia senza alcuna spiegazione, affiora al di sotto della superficie senza scalfitture e graffi il peccato originale del tradimento, dell'abbandono, della morte. Il film si conclude con un incontro mancato: ora sia Susan che Edward sono nel mondo al di fuori, come animali notturni accecati dal dolore, destinati a non incontrarsi più. Leggi i dubbi di Mauro Caron su HOLLYBLOOG LA RAGAZZA SENZA NOME di Pierre e Jean-Luc DardenneSe non ci fossero i Dardenne bisognerebbe inventarli. Beata Cannes che ha ospitato molti dei loro film e che per ben due volte li ha premiati con la Palma d’Oro. Ancora una volta, con La ragazza senza nome, il loro cinema colpisce nel segno. Gli stilemi del loro cinema ci sono tutti (attenzione alla società ma grande sensibilità empatica verso le storie individuali, stile realistico e minimalistico, ambientazioni nella periferia di Liegi, rifiuto della musica extradiegetica come sottolineatura emotiva o drammaturgica, forte afflato etico), eppure il loro cinema non stanca mai. Al centro, stavolta, di nuovo, una giovane donna. A darle un volto, hanno scelto Adèle Haenel (Les combattents), che con la sua interpretazione nervosa e trepidante, piena di emozioni trattenute che pure sembrano trapelare attraverso la sua carnagione, sostituisce degnamente la fragile e gagliarda Cotillard di Due giorni, una notte. Un medico, che non ha aperto la porta a chi aveva bisogno del suo aiuto, di un riparo, di una difesa. Lei non ha aperto la propria porta nel momento fatidico, e non sa perdonarselo. La seguiamo, con la tecnica del pedinamento tipica dei Dardenne, in un’indagine riparatrice, in cui insieme all’identità della giovane morta Jenny cerca di ricostruire la propria identità, sanare la propria integrità morale dolorosamente incrinata, guarire la propria vocazione, espressa attraverso la scelta della professione medica, di chi ha scelto di aiutare gli altri. Se Jenny intraprende infatti una detection quasi poliziesca, mettendo tutta se stessa nella ricerca dei testimoni e alla fine dei responsabili della morte di un’innocente, dall’altra parte il suo essere medico la rende non solo una buona samaritana, ma anche l’osservatrice, l’analista di una società malata. Come già altri hanno detto, il suo stetoscopio diviene lo strumento con cui cogliere i sintomi di malessere di una società egoista e disonesta. A costo di essere una moralista, Jenny fa di tutto per riprendersi le proprie responsabilità, per mettere gli altri di fronte alle proprie. Come sempre, nei film di Dardenne, è una questione di scelte. E, fedeli ad un cinema ottimista nella volontà e umanistico nello sguardo, loro tifano da sempre perché i loro personaggi facciano la scelta giusta. Per quanto possa costare. LEGGI l'opinione di Mauro Caron su HOLLYBLOOG |
Dr. Caron e Mr. NoracRicordate quel film di John Woo in cui Travolta e Cage si scambiavano le facce e così il buono aveva la faccia del cattivo e il cattivo aveva la faccia del buono? e poi il cattivo si sfregia la faccia da solo in modo che il buono non possa più riavere la propria faccia e poi il buono colla faccia da cattivo uccide il cattivo colla faccia da buono e così via? Archivi
Novembre 2023
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