SALTVIK – HUSAVIK – SKJALFANDI – GODAFOSS - AKUREYRICi alziamo la mattina dopo e il tempo è: bello! Facciamo una buona colazione (compresa nel prezzo della camera), ritiriamo le nostre cose che si sono perfettamente asciugate sul radiatore e ci prepariamo per la partenza. Se ieri il paesaggio era bello anche sotto il cielo incolore, oggi alla luce del sole è stupendo, con le praterie punteggiate di cavalli al pascolo, le vette screziate di neve e un triangolo di azzurro intenso che si insinua nel paesaggio ricordandoci la vicinanza del mare. Raggiungiamo il centro di Husavik, distante pochi chilometri e andiamo all'agenzia della Gentle Giants, l'agenzia, molto nota, con cui abbiamo prenotato l'escursione di whale watching. Parcheggiamo dietro la chiesa, che è l'elemento architettonico che caratterizza in maniera suggestiva e predominante tutto l'aspetto del villaggio. Isolata al centro di un giardino erboso risplende al sole con i suoi muri candidi, le finestre e i cornicioni profilati in rosso e i tetti verdi e aguzzi. Siamo un po' in anticipo e bighelloniamo guardando il bel panorama del porto, con le navi all'ancora, l'acqua azzurra del fiordo e le montagne innevate sullo sfondo. Husavik vive soprattutto dell'attività turistica legata all'avvistamento delle balene (la GG garantisce percentuali di avvistamento vicine al 100%) e quindi parecchia contrarietà ha destato la decisione del governo islandese che qualche anno fa ha autorizzato di nuovo la caccia cruenta dei cetacei. Alla fine siamo pronti per imbarcarci sulla Sylvia, un peschereccio riadattato ad uso turistico che può ospitare una settantina di persone; ci sono anche tour in gommone, che permettono di avvicinarsi di più alle balene ma che garantiscono una minor visibilità, essendo più bassi sull'acqua. Ci viene consegnata una tuta impermeabile e saliamo a bordo: la tuta protegge dal freddo e dagli spruzzi, ma oggi sembra una giornata davvero ideale, limpida, con il sole, senza nebbia, con il mare caldo. Prendiamo il mare: l'escursione dura circa tre ore e si svolge interamente all'interno dell'ampia di Skjalfandi (la Baia dei Tremori, tanto per non dimenticare che siamo in zona sismica). La nostra guida è una ragazza bruna (scoprirò a posteriori dall'opuscolo pubblicitario dell'agenzia che è di origine spagnola e che si chiama Natalia) che ci parla in inglese; facciamo una prima sosta in una zona in cui ci sono grandi speranze di avvistamento, ma la superficie calma dell'acqua non è turbata da nessuna presenza. La guida sembra delusa e immediatamente serpeggia un po' di scetticismo. Lascio Alessandra e salgo sula torretta del cassero centrale. Tutti siamo con gli occhi puntati sul mare, i binocoli al collo, le macchine fotografiche e le telecamere pronte. E non inutilmente. Prima avvistiamo dei delfini, che inarcano il dorso pinnato sopra la superficie. Poi delle piccole balene, che mostrano la schiena pinnata, la coda bifida, gli sbuffi. E poi comincia il vero spettacolo: avvistiamo una o più megattere; ne seguiamo per un bel tratto una che nuota sul fianco, alzando in verticale la grande pala della pinna pettorale e schiaffeggiando ripetutamente l'acqua. Poi ne vediamo una che, non molto distante, per almeno due volte innalza tutte le sue tonnellate di peso quasi completamente fuori dall'acqua per poi ricadervi con un grande tonfo. E' davvero uno spettacolo emozionante, turbato solo dall'ossessione di cercare di immortalare fotograficamente gli avvistamenti, con tutto il relativo armeggiare di macchina fotografica e smartphone, e guardando le cose più spesso attraverso il mirino o il display invece di abbandonarsi alla gioia degli occhi. Natalia ci indica gli avvistamenti usando come riferimento il quadrante di un immaginario orologio, e tutti ci si sposta velocemente da un lato all'altro della nave (o del cassero), cercando spasmodicamente di guardare “ad ore 11” piuttosto che “a ore tre”. Alessandra perde una guarnizione di gomma circolare dell'oculare del binocolo, e diverte molto un signore ritrovandolo a sorpresa fermo, in perfetto equilibrio verticale, su una sponda della nave in movimento. Durante il viaggio di ritorno Natalia si complimenta con noi per la nostra escursione fortunata (“you are very lucky”) e ci mostra su dei cartelli quello che abbiamo visto: i white-beaked dolphins, le minke whales, le humpback whales (megattere lunghe una quindicina di metri e pesanti fino a 30 tonnellate); le illustrazioni mostrano anche l'impressionante dimensione dei cetacei confrontata con il corpo umano. Rispetto ai comportamenti che abbiamo osservato, come il battere la pinna (fin slapping) o il saltare fuori dall'acqua (breaching), non esistono spiegazioni certe e definitive: si suppone lo facciano per comunicare, per liberarsi dai parassiti, o per divertimento. Mancate in Baja California (fuori stagione), individuate in lontananza dalla costa in Sudafrica (dopo l'annullamento dell'escursione per mare molto mosso), intraviste dalla barca in Canada, finalmente possiamo dire di essere soddisfatti del nostro whale watching (anche se rimarrà insuperabile lo spettacolo da acquario inscenato appositamente per noi da un banco di delfini davanti ad una spiaggia deserta del Sudafrica, in cui le uniche presenze eravamo noi, una gazzella e qualche scimmia). Ci spogliamo delle tute, le restituiamo, salutiamo, ringraziamo e sbarchiamo. Facciamo una merenda al sole nel giardino dietro la chiesa, poi riprendiamo la strada. Una volta raggiunta la 1, una cinquantina di chilometri più a sud, ci fermiamo quasi subito per raggiungere Godafoss (la Cascata degli dei: qui si dice siano state gettate le statue degli dei pagani nel momento dell'adesione ufficiale dell'Islanda al Cristianesimo intorno all'anno 1000). Meno imponente di altre, ma comunque suggestiva, Godafoss cade da un salto a ferro di cavallo, divisa in due da uno sperone roccioso, come una miniatura delle cascate del Niagara. Intorno il paesaggio è di roccia lavica e di brughiera, con le pareti della cascata di basalto grigio. Il sole propizia il solo - piccolo ma atteso - arcobaleno di cui beneficiamo nel corso del viaggio. Per arrivare ad Akureyri c'è un tunnel a pedaggio, ma c'è la possibilità di aggirarlo allungando il percorso solo di un quarto d'ora e su una bella strada panoramica, di nuovo in vista di verdi brughiere, l'azzurro dell'acqua dei fiordi e le montagne screziate di neve. L'accesso al nostro alloggio ad Akureyri risulta un po' laborioso a causa di un problema tecnico nel pagamento; a quanto pare una normativa europea impone una doppia procedura di sicurezza per i pagamenti on line, ma alcuni fornitori non sono in grado di accedere alla doppia autorizzazione, così quando i gestori dell'ostello hanno tentato di prelevare la somma dovuta non ci sono riusciti. Dopo uno scambio di messaggi ci mandano comunque, sulla fiducia, il codice per entrare e fare il self-check in, mentre io chiedo istruzioni su come pagare in loco. La struttura è nelle retrovie della città (la principale del nord e la seconda in assoluto dopo Reykjavik) ma a pochi minuti di distanza dal centro. Approfittiamo per fare un pochino di spesa nel vicino Bonus, e, a proposito: attenzione a quando entrate nei reparti refrigerati; fa veramente ma veramente freddo e noi facevamo la corsa a prendere quel che si serviva dopo averlo individuato da lontano. Torniamo in centro in macchina e posteggiamo, dopo aver capito a forza di intuizione (e chiedendo conferma ad una signora di passaggio) che il parcheggio è a pagamento solo in determinati orari. Akureyri è posizionata all'estremità meridionale di un fiordo profondo decine di chilometri, vanta un porto commerciale (anche da qui si possono effettuare escursioni per l'avvistamento delle balene) e 16.000 abitanti. Il centro è rappresentato da una breve strada con locali e negozi, fiancheggiato da case di stile tradizionale tra cui un edificio a più piani bello e fotografatissimo, di un blu smagliante sormontato da guglie di un rosso altrettanto intenso, che ospita una bella pasticceria in cui ci ripromettiamo di tornare più tardi. Dall'incrocio principale del centro si può salire con una scalinata a rampe all'Akureyrarkirkja, disegnata dallo stesso Samuelsson che ha realizzato la cattedrale di Reykjavik, svoltare a destra nel centro commerciale oppure a sinistra, seguendo una strada tranquilla su cui si allineano, belle nella loro semplicità, le case più antiche della città. Andiamo dappertutto, poi torniamo al nostro alloggio, dove abbiamo la piacevole di trovare alla reception, prima deserta, una ragazza sorridente con cui regoliamo le nostre pendenze. Ci prepariamo una cenetta casalinga nella linda cucina comune e la consumiamo davanti alle finestre che danno sulle nuvole aranciate dal sole. Nessuno ci parla mai, né gli islandesi né gli ospiti dei vari ostelli, che, come già dicevo, si limitano a rispondere solo se siamo noi i primi a salutare. Alessandra prova lo stesso ad attaccare discorso con un ragazzo solo dall'aspetto asiatico; lei gli chiede di dov'è, lui risponde del New Jersey, e più o meno la conversazione finisce lì.
Torniamo ancora una volta verso il centro. Una particolarità di Akureyri sono i semafori, che al posto del tondo rosso hanno un cuore, e un cuore rosso campeggia anche nell'incrocio principale del centro, a fare da cornice alle foto. La pasticceria blu che avevamo adocchiato, che doveva chiudere ufficialmente alle 23, alle 22 sta già sbaraccando i tavolini all'aperto e chiudendo i battenti. Ci fermiamo quindi poco più avanti sulla strada principale, sotto un grande e bel murale che ritrae il volto di una ragazzina e che occupa l'intera facciata di un palazzo, in un posto inaspettato e che probabilmente non troverete sulle guide: un chiosco, con due tavoli all'aperto con panchine, dove un signore napoletano prepara e serve cibo da strada all'italiana, come caponate e melanzane o zucchine alla parmigiana. Prendiamo una bibita e due capresi arricchite con Nutella. Un ragazzo asiatico sorridente si presenta al chiosco a restituire i piatti sporchi, ma quando se ne è già andato il proprietario si accorge che lui e la sua compagna dopo un'abbondante consumazione si sono dimenticati di pagare il conto. Si allontana di corsa per cercarlo, lasciando la postazione incustodita, ma invano; in più, quando ci fa il conto, si dimentica di farci pagare la Coca. Gli faccio amichevolmente notare che continuando di questo passo gli affari difficilmente potranno prosperare. Intanto, anche se non è il mitico venerdì sera del runtur, cioè del giro dei locali (Akureyri, dotata di buoni alberghi, di ristoranti e di locali, è l'unica cittadina a parte la capitale dove credo si possa ipotizzare la presenza di una vita notturna), un paio di ragazzi un po' alticci prendono tavolino e sedie di un bar all'aperto e si piazzano seduti in mezzo alla sede stradale. Il ragazzo che sopraggiunge alla guida di un veicolo scende sorridendo e gli va a stringere la mano; il cameriere che esce a farli alzare e riportare all'ordine tavoli e sedie ha l'aria decisamente meno gioviale e amichevole. Tornando cerco di fotografare il cuore dei semafori, sullo sfondo delle nuvole del tramonto; aspetto invano il rosso: si tratta in effetti di semafori a richiesta così devo andare a schiacciare il bottone di richiesta e poi correre a fare la foto perché il verde pedonale dura una manciata di secondi. Poi andiamo a dormire.
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AKUREYRI – OSAR - HVITSERKUR - REYKJAVIKLa mattina dopo il tempo si presenta ancora discreto; dopo i preparativi e la colazione partiamo ma ci fermiamo quasi subito per visitare il giardino botanico (Lystigardur) di Akureyri. L'ingresso è gratuito e gli accessi sono su diversi lati. Non solo ci sono gli alberi (nei pressi di Akureyri hanno perfino piantumato una foresta), ma anche una profusione incredibile e coloratissima di fiori, molti dei quali mai visti prima; anche i semplici papaveri, molto ricercati da calabroni forse in cerca di esperienza lisergiche, hanno enormi corolle di petali scarlatti grandi come un piccolo tegame. Un po' di donne fanno yoga in un prato, in semicerchio; è un luogo davvero bello. Oggi ci aspetta una lunga tirata di quasi 400 chilometri verso Reykjavik (il nostro itinerario non include per motivi di tempo i fiordi nordoccidentali), e compulsando la guida non ho trovato molto che mi convincesse per una tappa intermedia, tanto che mi chiedo se non fosse stato più conveniente fare questa tratta meno interessante all'inizio, impostando il giro in senso contrario. Alla fine se la giocano due possibili deviazioni, entrambe a nord della 1: una di una cinquantina di chilometri verso le piscine di Hofsos (che sembrano essere panoramicissime ed economiche) e una più breve verso Osar, dove staziona una colonia di foche. Decidiamo per la seconda. Lungo la strada ancora fiumi, praterie e campi coltivati, fattorie isolate dai tetti rossi o azzurri, montagne scure dalle creste aguzze. Rimaniamo un po' perplessi scoprendo che la strada che dovremo percorrere verso la penisola di Vatnsnes non è asfaltata. Abbiamo qualche incertezza (l'assicurazione non copre i danni subiti sulle gravel road, le strade di ghiaia), ma poi la strada si rivela una pista di terra battuta piuttosto liscia e scorrevole, percorribile ad una sessantina di chilometri all'ora; solo, ogni tanto, ci si deve fermare agli slarghi per far passare le rare macchine che arrivano nell'altro senso. Arrivati all'ostello di Osar, punto di riferimento indicato dalla guida, non si vede l'ombra di una foca. Proseguiamo poco oltre, dove vediamo delle macchine parcheggiate. Da qui un breve sentiero conduce a Hvitserkur, una località isolatissima ma molto fotografata. Qui, ai piedi della ripida scogliera, su una lingua di sabbia nera scoperta dalla bassa marea sorge uno scoglio basaltico alto una quindicina di metri, con guglie in cima e aperture in basso (con un po' di fantasia potrebbe assomigliare ad un bufalo gibboso che si abbevera nell'acqua di mare), con la roccia scura sbiancata dalle striature del guano degli uccelli marini. Valutiamo la scarpata che scende ai suoi piedi un po' troppo ripida (un tipo la fa con disinvoltura con le mani in tasca, mentre gli altri si arrampicano faticosamente sulle rocce) e ci accontentiamo di guardarla dall'alto della scogliera. Torniamo davanti all'ostello e chiediamo indicazioni per la colonia delle foche ad un tizio, che ci risponde seccamente che è lì sotto e che bisogna camminare, come se noi dessimo l'impressione di volerci scaraventare giù dalla scogliera in auto o gli avessimo di portarci giù in braccio. Scendiamo quindi (non c'è nessun altro) lungo un sentiero tra la brughiera, superando dei cancelletti che dividono chissà cosa da non si sa cosa. Arrivati in basso avvistiamo la colonia di foche al di là dello stretto braccio d'acqua che si insinua in questo punto della costa: sono tutte sdraiate e immobili sulla scura spiaggia di fronte. Noi a proposito di foche abbiamo vissuto avventure spettacolari (abbiamo visitato una colonia sulla costa della Namibia: solo noi e decine di migliaia di esemplari che coprivano la spiaggia, punteggiavano il mare e riempivano l'aria di odore nauseabondo, mentre gli sciacalli dalla gualdrappa si aggiravano in caccia; e abbiamo nuotato in mezzo a foche e leoni marini di fronte a un isolotto disabitato della Baja California), mentre queste sono a malapena distinguibili da immoti massi grigiastri. Scatto comunque qualche foto con il teleobiettivo, che vengono meno male del previsto. Risaliamo la china, percorriamo una variante sempre in terra battuta che ci porta un po' più avanti sulla 1 e puntiamo verso la capitale. Facciamo una sosta tecnica ad un autogrill della Nr 1, dove mangiamo uno spuntino con salmone affumicato e un hot dog. Man mano che ci avviciniamo a Reykjavik il tempo si fa via via più rejkiavykiano, cioè grigio e coperto. Abbiamo visto la capitale in quattro giornate diverse (la sera dell'arrivo, il mattino dopo, questa sera e il giorno della partenza) senza mai vedere un raggio di sole o un angolo di cielo azzurro. Arriviamo nel tardo pomeriggio. La nuova sistemazione è in una sorta di guest house diffusa, l'Aurora, che oltre alla sede principale ha diverse camere nelle case vicine. Siamo nella zona alta di Reykjavik, a poche decine di metri dalla Hallgrimkirkja, ma anche qui parcheggiamo vicinissimo all'alloggio, gratis e senza problemi. Dopo una delle nostre cenette, attraversata la strada, visitiamo un giardino dove sono disseminate le sculture di Einar Jonssonar, cui è dedicato il museo lì a fianco. Nel piazzale davanti alla chiesa (la principale della città e la più grande d'Islanda), si erge la statua di Leifur Eiriksson, il navigatore vichingo (in realtà di origine norvegese) accreditato come lo scopritore del continente americano, sbarcato intorno all'anno 1000 tra le Terre di Baffin e il Labrador. Scendiamo verso il centro, tra case basse, fino a raggiungere la Laugavegur, con le sue case colorate, i suoi negozi e i suoi locali. Tutto sommato non mi dispiace ritrovare un po' di gente e un minimo di movimento dopo la settimana di tour in mezzo alla natura e attraverso piccoli villaggi. Alcuni locali hanno l'aria decisamente invitante; noi optiamo per il Mals og Menningar, dove è annunciata live music. Il locale è estremamente suggestivo: si tratta in realtà di una libreria su tre livelli (uno sotterraneo, uno al piano terra e uno al di sopra, con una lunga balconata aperta sul locale sottostante), dove, oltre a vendere tuttora i libri che affollano gli scaffali lungo ogni parete, dal pavimento al soffitto, dall'anno scorso si ospita una fitta attività di musica dal vivo. La formazione prevista per stasera in realtà è saltata, e sul palco c'è una ragazza sola, inerme e intrepida, con capelli biondi tirati indietro da un cerchietto, gilet a rombi, gonnellona a fiori e scarponi. Fa tutto da sola: manovra l'impianto audio con le sue basi registrate, canta e alle sue spalle ha sistemato delle grandi lettere che sono presumo il suo nome d'arte – Guguzar – e che alla fine smonta e si porta via in un sacchetto. Canta con una voce flebile ma decisa, su basi dai bassi profonde, in un'atmosfera sonora intrigante e suggestiva. Decidiamo di restare; al bar del piano di sopra prendiamo una cioccolata calda e una crema whiskey e assistiamo al concerto dall'alto. Come temevo, alle 10 tutto è finito e Guguzar si riprende le sue cose e abbraccia la proprietaria del locale per congedarsi. Curioso tra gli scaffali della libreria e tra le opere artistiche appese e guardo i quadri di Astridur Olafsdottir, un'artista islandese che ha studiato all'Accademia delle Belle arti di Bologna e che espone qui su pareti rosso carminio la serie “Panneggio”, con il titolo in italiano, con donne sospese acrobaticamente nell'aria su sfondi scuri, appese a lembi di tela che calano dall'alto.
Passeggiando in direzione del Vecchio porto vediamo ancora alcuni murales interessanti e incrociamo un paio di musei piuttosto bizzarri: il Museo del Punk, ovviamente in un sotterraneo, e il Museo del Pene, che si vanta di essere – non stento a crederlo – l'unico del genere al mondo. Risalendo verso il nostro quartiere visitiamo anche la galleria fotografica di Iurie Belegurschi: vedute della natura islandese (esposte per giunta con un'illuminazione suggestiva) che io posso solo sognare di poter fare. E - va bene - ultima notte nella luce d'Islanda. |
AutoreIl diario di viaggio di Mauro e Alessandra: un runtur di otto giorni intorno all'isola, nel luglio 2021. Troppo pochi? Forse, ma abbastanza per farsi un'idea del fascino e dei motivi di interesse del Paese. Categorie
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