VIK – DYRHOLAEY – Parco naturale di Skaftafell: SVARTIFOSS – JOKULSARLON - HOFNLa mattina ci svegliamo con l'annuncio di un'inaspettata giornata di sole e cielo limpido. Dopo la colazione “in house”, un'occhiata intorno al panorama luminoso e qualche ultima foto a Vik (una chiesetta bianca isolata con il suo tetto rosso acceso spicca sul versante verde della montagna; alcuni cavalli pascolano nell'erba fiorita) ripercorriamo in senso inverso la vallata di ieri sera, ma poi torniamo indietro un pezzo sulla 1, aggirando uno dei promontori che delimitano la baia di Vik per ridiscendere verso il mare attraverso i prati punteggiati da qualche fattoria. Ci fermiamo a Dyrholaey (una strada sterrata prosegue oltre per salire verso il faro) per contemplare la scogliera di basalto che si erge sopra le spiagge nere: dallo spettacolare punto panoramico battuto dal vento si vede a ovest un grande arco naturale scavato nella roccia, sotto il mare con le onde bianche di spuma che si infrangono sulla battigia nera, a lato la scogliera, coperta in alto dalla brughiera e sui cui ripidi versanti di roccia verticali nidificano i pulcinella di mare e all'estremo est i puntuti faraglioni di Vik (come molte delle molte rocce di forma strana presenti in Islanda, si tratta in realtà di troll pietrificati dalla luce del sole). Anni fa, sull'isola disabitata di Staffa, nelle Ebridi, avevamo camminato tra le pulcinella di mare (una sorta di incrocio tra un'anatra come dimensione e un pinguino nella livrea, con le zampe e il grosso becco di colore arancio acceso, goffo negli atterraggi ma agilissimo in mare; a loro, con la denominazione inglese puffin, era intitolato l'ostello in cui abbiamo dormito ieri sera) che si avvicinavano a pochi centimetri da noi. Stavolta dobbiamo accontentarci di vederle da lontano e di cercare di fotografarle con il teleobiettivo. Riportandoci sulla strada, vediamo per la prima volta fare capolino dietro le creste di alture grigioverdi le tondeggianti calotte dei ghiacciai. Ci riportiamo sulla 1 e viaggiamo in un paesaggio molto bello (la giornata serena e radiosa aiuta): sulla nostra sinistra scorrono prati verdissimi solcati da ruscelli e torrenti impetuosi, al di là dei quali si elevano brevi pareti di roccia scura, talvolta interrotte da cascate e sovrastate ancora al di là dalla linea bianca del ghiacciaio. La strada si avvicina alle lingue di ghiaccio che scendono verso valle e i laghetti riflettono le cime bianche delle montagne. Ci accontentiamo di fotografare dalla strada la Seljalandsfoss, che quasi sicuramente avrebbe meritato la breve deviazione: dietro l'alta cascata che precipita da 60 metri d'altezza c'è un sentiero percorribile che permette di vedere la cascata anche “dall'interno”. Tiriamo invece dritto verso il parco naturale di Skaftafell, il cui ingresso è a brevissima distanza dalla Statale. Lasciata la macchina in un parcheggio a pagamento (l'equivalente di qualche euro) raggiungiamo il centro visitatori, costeggiamo un camping popolato di campeggiatori felici per la giornata di sole, e iniziamo la salita verso la Svartifoss. Per raggiungere le Cascate nere, con qualche sosta fotografica, calcolate dal parcheggio circa tre quarti d'ora lungo un sentiero battuto quasi tutto molto agevole, tra versanti montuosi coperti d'erba e di fiori. La cascata è visibile dall'alto già dall'ultimo tratto del sentiero, che poi scende con un breve tratto più ripido verso la sua base. Non è particolarmente alta né potente, ma la sua particolarità è che cade tra un colonnato verticale di basalto nero che in alto forma una balza sporgente: una cascata, oserei dire, di un'eleganza art noveau. Raggiungiamo i piedi della cascata, tastiamo l'acqua fredda delle pozze, scattiamo le foto e poi facciamo tutto il percorso in senso inverso, mentre un elicottero, forse di salvataggio, esplora le creste intorno. Visitate la cascata finché siete in tempo: leggo a posteriori che l'acqua penetra tra le colonne esagonali di basalto, e quando si espande ghiacciando scalza le colonne e le fa precipitare in pezzi ai piedi della cascata. Se andate tra qualche secolo potreste non vederla più. Dal centro di visitatori altri sentieri raggiungono il fronte delle lingue di ghiaccio dello Skaftellsjokull, ma noi dopo aver fatto scorta di acqua fredda e pura che scende dalle montagne ci rimettiamo in macchina verso un altro imperdibile spettacolo della natura islandese: la laguna glaciale di Jokulsarlon. Abbiamo capito che quando c'è di mezzo la parola jokul c'entrano i ghiacciai: in questo caso si tratta di una laguna glaciale in riva al mare. Abbiamo capito anche che in Islanda le segnalazioni stradali sono dedicate agli insediamenti umani; le attrattive naturalistiche, quelle che tutti i turisti cercano, sono invece segnalate da singoli cartelli solo nell'immediata prossimità. Così, mentre i nostri smartphone e relativi navigatori hanno un momento di defaillance, ci fermiamo in quello che pensiamo il posto giusto. Ci affacciamo su uno specchio d'acqua sotto le montagne, sul quale si vedono dei blocchi di ghiaccio in lontananza. C'è un sentiero che aggira il lago, ma siamo dubbiosi, finché avvistiamo delle macchine parcheggiate più in là, sull'altro versante, quindi ci spostiamo e arriviamo al punto in cui si può apprezzare in tutta la sua bellezza Jokulsarlon. Qui una lingua del Vatnajokul (o di una delle sue diramazioni) scende a valle fin quasi alla costa, e forma una laguna che – ancor più nella stagione “calda”, suppongo – si riempie di piccoli iceberg che si staccano dal fronte del ghiacciaio e galleggiano nell'acqua. Anche questo è per noi uno spettacolo mai visto. Blocchi di ghiaccio bianchi, con incredibili sfumature azzurre e scolpiti nelle forme più strane, sono disseminati in tutta l'ampia laguna; i gabbiano volano intorno o riposano sui lastroni e famiglie intere di anatre e anatroccoli paffuti navigano placidamente tra i blocchi gelidi. Un sentiero in saliscendi permette di costeggiare la laguna per un tratto, offrendone un'ampia visuale; un po' più in là partono gite in gommone (con tute fornite dagli organizzatori) che portano i turisti a navigare tra i ghiacci. Noi ci accontentiamo della terraferma; torniamo indietro fino al ponte automobilistico, che permette alla statale 1 di sorpassare la laguna nel tratto in cui sfocia in un fiume, che a sua volta in poche centinaia di metri raggiunge il mare. Tra lo svolazzare dei gabbiani ogni tanto un blocco di ghiaccio viene preso dalla corrente e trascinato verso il mare. Arriviamo alla spiaggia, dove la sabbia vulcanica nera è completamente disseminata di blocchi di ghiaccio biancoazzurri, prima trascinati dal fiume e poi respinti sulla spiaggia dalle onde. La temperatura è delle più miti, e ci aggiriamo in maniche corte tra i grandi massi di ghiaccio che lentamente si sciolgono al sole. Prima di riprendere il viaggio, realizziamo di aver sbagliato a prenotare l'escursione per il whale-whatching: l'abbiamo prenotata (al mattino) per il giorno dell'arrivo (in serata) a Husavik anziché per la mattina successiva. Un problema da risolvere, appesantito dal fatto che i nostri smartphone oggi fanno decisamente le bizze e si rifiutano sia di telefonare che di connettersi alla rete. Dopo aver viaggiato ancora lungo una costa molto bella e panoramica, tra il mare, il verde, le montagne e i ghiacciai, ci troviamo a dover individuare la posizione dell'Hotel Jokul, da noi prenotato, senza l'aiuto del navigatore. Ricordo vagamente che doveva essere un po' distante dall'abitato di Hofn. Quando siamo in prossimità, incrociamo l'Hotel Vatnajokul: non è lui (in effetti è chiuso per ristrutturazione) ma è l'occasione per chiedere informazioni. Un giovane gentile ci dice di proseguire verso il paese; in effetti poche centinaia di metri più in là vediamo l'insegna dell'albergo, che si trova a poca distanza dalla strada. Chiediamo alla signora alla reception dell'albergo qual è la distanza tra Egilsstadir, dove dormiremo la notte del 18 e Husavik, dove abbiamo erroneamente prenotato l'escursione per la mattina del 19. Sono più di 200 chilometri, ma se non riuscissimo a spostare l'escursione potremmo comunque fare una levataccia e raggiungere Husavik in tempo. Approfittando della connessione wireless in albergo, però, il cambio on line della data dell'escursione per il giorno successivo si rivela facile e immediato: il problema è risolto in men che non si dica. Il Jokul è un albergo moderno, pulitissimo. La camera è abbastanza grande, il bagno è sempre in comune ma tutto è in perfette condizioni come sempre. Dopo esserci sistemati e cambiati prendiamo la macchina per raggiungere Hofn, a una mezza dozzina di chilometri dall'albergo. La parola hofn significa porto quindi è facile capire qual è l'attività principale del paese affacciato sull'Oceano. Hofn è famoso anche per le sue aragoste (o scampi che siano), quindi, dopo aver scattato qualche foto ci rechiamo in un locale alla fine del porto, dove servono panini all'aragosta ad un prezzo abbordabile. Prendiamo un panino e un fish and chips, con prezzi tra i 15 e i 20 euro ciascuno. Sono piatti buoni e ben presentati, con salse d'accompagnamento e le patatine servite nei cestelli da frittura. Il fish and chips ha una frittura tipo tempura, leggera e gustosa. L'aspetto da drugstore del locale nella piccola località portuale, con le vetrate rivolte verso il mare, e un gabbiano che svolazza alle spalle di una persone che sta entrando dalla porta a vetri mi richiama alla memoria la Bodega Bay che ha fatto da sfondo alla sequenza del primo attacco ne Gli uccelli di Hitchcock. E' una suggestione ben motivata: dopo cena decidiamo di fare una passeggiata fino al punto panoramico sul mare di fronte al paese. Seguiamo una stradina in mezzo ai prati e gli uccelli marini ci svolazzano intorno in maniera insistente. Mi viene in mente allora di aver letto sulla guida di un posto dove le sterne artiche (dalla forma e la taglia a metà tra una rondine e un gabbiano) nidificano nei prati e difendono il loro territorio in modo aggressivo. Bene, il posto, Osland, è questo. La guida diceva addirittura di usare l'auto per raggiungere il punto panoramico, dove invece un tizio decide di sfidare le sterne entrando nei prati: loro stridendo minacciosamente simulano delle picchiate contro di lui e una gli si para davanti per lanciargli addosso, in volo, i propri escrementi. Sulla strada del ritorno (non abbandoniamo mai la striscia asfaltata) gli uccelli sembrano ancora più aggressivi e a volte abbassiamo istintivamente la testa quando li vediamo puntare verso di noi. E' un'avventura un po' inquietante ma anche decisamente divertente, e che si conclude senza danno, né per noi né per le sterne.
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HOFN – SEYDISFIORDUR – EGILSSTADIRIeri mi chiedevo che effetto fanno le nostre telefonate a casa, quando raccontiamo entusiasti di aver passeggiato su un cratere vulcanico occupato da un lago, o lungo una laguna glaciale dove navigano gli iceberg, o a fianco di poderose cascate o di geyser prorompenti. Ma oggi è una giornata meno spettacolare. Facciamo una bella colazione nella sala vetrata dell'hotel che si affaccia su prati e montagne, ma scopriamo che il lato del mare è coperto da una fitta nebbia. La guida si guadagna altri punti di affidabilità, perché faceva cenno anche a questa possibilità. Facciamo quindi rifornimento e ripartiamo. Ci lasciamo la nebbia alle spalle e si apre una bella giornata di sole. Da qui la 1 procede ancora verso nord-est per poi piegare verso nord; la distanza tra Hofn ed Egilsstadir in realtà viene amplificata dal fatto che la strada deve evitare sia le montagne dell'interno che costeggiare i profondi fiordi che si insinuano in questa parte dell'isola. I panorami in compenso, anche oggi, sono molti belli. Non facciamo tappe, se non una breve sosta a Stodvarfjordur, dove l'attrazione principale è costituita dalla casa e dal relativo giardino in cui un'appassionata collezionista ha accumulato una quantità inverosimile di rocce e minerali. L'ingresso è abbastanza caro e il nostro interesse per la geologia relativamente basso (suggerisco però ad Alessandra di organizzare qualche uscita didattica in Islanda con la scuola...), per cui dopo qualche foto sul fiordo, con fiori arancioni in primo piano e montagne innevate sullo sfondo, proseguiamo. Per il momento non ci fermiamo neppure a Egilsstadir, ma proseguiamo per raggiungere direttamente Seydisfiordur, che ho letto essere un bel paesino, oltre ad essere il terminal dei traghetti che congiungono l'Islanda con la Danimarca. Per essere il percorso per cui passano quindi presumibilmente la maggior parte delle merci (e devono essere molte, visto che l'Islanda ha bisogno di molte importazioni), la strada è piuttosto impegnativa. Bisogna superare un passo, salendo con una serie di curve su una strada priva di parapetti, per poi ridiscendere verso il paese annidato sul fondo di una profonda baia. Il paesaggio è anche qui molto suggestivo e pittoresco; arrivati al passo ci si trova attorniati da basse cime zebrate di neve, mentre la valle che scende verso Seydisfiordur è circondata da molte cascate che precipitano dalle alture circostanti verdi-brune; il fiume che vi scorre ne crea a sua volte di altre, individuabili dall'alto, salto per salto, dalle nubi di vapore che ciascuna solleva. Seydisfiordur è in effetti una piccola cittadina molto carina, affacciata sul fiordo calmo come un lago e circondata dalle montagne. Con il sole dà il meglio di sé: la gente è seduta ai tavolini all'aperto e i colori delle case risplendono vividi. La strada principale, che porta ad una chiesina bianca e azzurra, è tutta dipinta con i colori dell'arcobaleno e fiancheggiata da case tradizionali belle nella loro semplicità, verniciate a colore vivaci o dipinte con murales. Più in là, verso la fine del paese, l'ennesima cascata cade dietro le ultime case. Passeggiamo, facciamo foto, ci fermiamo per una merenda in riva al “lago”. Seydisfiordur ha anche la fama di essere una cittadina favorita dagli artisti, ma la nostra esperienza diretta con l'ambiente creativo locale non è delle più positive. Siamo attirati da una casa colorata, con il giardino aperto e decorato da molti elementi variopinti e vivaci; sulla porta d'ingresso vedo disegnata La Linea di Cavandoli e prendo la macchina fotografica per fotografarla, quando vengo apostrofato da un vichingo biondo, abbronzato e a torso nudo, che mi rifila una ramanzina perché sto facendo delle fotografie sulla sua proprietà (come tutti, suppongo) senza salutare e senza chiedere permesso. Gli spiego che stavo facendo una foto perché mi aveva sorpreso trovare un personaggio italiano, ma non credo che lui sia interessato all'argomento, per cui mi congedo rapidamente e passiamo oltre un po' contrariati. Rifacciamo la strada e riscendiamo su Egillstadir: la nostra sistemazione è all'Hostel Tehusid, una costruzione bassa e lunga, con i muri bianchi e un vivace tetto rosso, davanti alla quale molti sono seduti a bere e prendere il sole. Di fianco c'è un campeggio; noi abbiamo a disposizione ad uso esclusivo una camerata con sette letti, che si affaccia su un salotto comune dove ci sono libri, giochi per bambini e da società, e un televisore davanti al quale spettatori molto presi stanno assistendo appassionatamente ad una partita di calcio che, a giudicare dal campo in cui si gioca, potrebbe essere ospitata in un nostro oratorio. All'ingresso poi c'è un ampio bar dall'atmosfera piacevole e dove probabilmente si fa anche musica dal vivo. Sono un po' preoccupato per i rumori, vista la vicinanza del tutto alla nostra camera, che anche dall'altro lato dà verso il patio dei bevitori/abbronzatori, ma i timori si riveleranno completamente infondati e il riposo, luce permettendo, sarà altrettanto tranquillo che in tutti gli altri posti. E' abbastanza presto e Egillstadir non sembra avere molto da offrire. Seguendo un sentiero saliamo in breve su una collina che si trova proprio alle spalle dell'ostello: c'è la sagoma in metallo di una renna a grandezza naturale e il panorama sulla cittadina, sulle alture circostanti e sul lago appena oltre l'abitato, che si dice sia abitato da un mostro acquatico. Alessandra è molto presa dalla curiosità per le roulotte che si vedono in giro (ce ne sono di normali, di minuscole e ovoidali; di piccole che però aumentano di dimensione con delle espansioni laterali; di carrellate e piatte che diventano delle casette sfoderando delle tende che vi si appoggiano sopra), così facciamo un giro nel campeggio studiando con discrezione le varie tipologie. Ci arrangiamo una cenetta nella cucina dell'ostello, chiacchieriamo con dei ragazzi italiani (i primi che incontriamo), grazie ai quali facciamo mente locale e realizziamo che avremmo potuto trascorrere un po' del nostro tempo libero ai bagni termali di Vok, poco distante dalla città, che si vantano per le loro piscine galleggianti. Prima di andare a dormire giochiamo ad un gioco da tavola mai visto: leggere tutte le istruzioni in inglese è troppo difficile e lungo, così parte delle regole ce le inventiamo. Intanto, nel bar adiacente, qualcuno usa il pianoforte del locale; c'è un ragazzo che suona bene, uno che suona benino, e qualcuno che accompagna una divertente ragazza che canta, allegra, stonata e spericolata. La vita serale islandese (e nel caso anche alla nostra) non è comunque fatta per le ore piccole e quando andiamo a dormire nella nostra camerata tutto è tranquillo. |
AutoreIl diario di viaggio di Mauro e Alessandra: un runtur di otto giorni intorno all'isola, nel luglio 2021. Troppo pochi? Forse, ma abbastanza per farsi un'idea del fascino e dei motivi di interesse del Paese. Categorie
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