11 luglio – Sesto San Giovanni, Malpensa, Washington Airport, Los Angeles Il progetto è arrivare a Los Angeles, dove non abbiamo intenzione di fermarci molto, entrare in Messico da San Diego, attraversare in lunghezza la penisola della Bassa California, quindi riguadagnare il continente e discendere con varie tappe fino a Città del Messico, da cui ritorneremo in Italia. Se tutto va bene sommando questo viaggio a quello dell’anno scorso alla fine avremo attraversato via terra il centro America da Los Angeles al Guatemala in latitudine, dalla costa pacifica al Mar del Caraibi dello Yucatan in longitudine. Ci accompagnano all’aereoporto Raffaele e papà. L’aereo parte da Malpensa alle 12.15. A bordo Alessandra chiacchiera col vicino; Mauro invece, quando passa lo steward col pranzo e chiede “Chicken or veal?”, chissà come e perché (mal d’altitudine, emozione di inizio viaggio, scarsa conoscenza effettiva delle lingue straniere?), risponde incongruo ma impavido: “Two Cokes”. Tra l’altro realizzo solo in aereo, con sgomento, che sto per affrontare un altro mese (dopo quello dell’anno scorso, tra Città del Messico, Chiapas, Yucatan e Guatemala) di cibo messicano, pasticciato, piccante, pieno di fagioli, che io non amo. Mi viene la nausea al solo pensiero. Per dire, la mattina vi alzate per andare a fare colazione e capita di vedere persone sedute al tavolo che alle 8 di mattina sbafano bistecche con intingoli e montagne di fagioli mentre sul pavimento sgambettano gli scarafaggi (oddio, forse faccio male a dirlo, e poi a viaggio non ancora iniziato, ma è successo veramente). Ma oramai. Guardo due film: “La stanza di Marvin”, doppiato, e “Absolute Power”, non doppiato, di cui capisco quel che capisco. Siamo a Washington alle 15.30 (che per noi sarebbero le 21), ma partiamo alle 19.15, anziché alle 17.15 come previsto. Atterriamo a Los Angeles alle 21.30. Per noi sono le 6 e mezza del mattino. Usciamo dall’aeroporto, è buio, disdegniamo l’ovvia e facile soluzione di un banale taxi che ci porti in albergo e prendiamo prima lo shuttle gratuito che ci porta al Lot C, poi, dopo aver compulsato orari e tragitti, un bus Big Blue che per 50 cent ci porta fino in Pico Boulevard, e poi un altro (per altri 50 cent) che discende Pico fino all’hotel che abbiamo prenotato da casa. Un’autista nera e corpulenta, impietosita, ci dà indicazioni e forse fa perfino una minuscola deviazione per lasciarci al posto giusto. Los Angeles ci è apparsa finora sotto forma di vialoni vuoti e piuttosto squallidi. Entriamo in albergo, tiriamo fuori le nostre prenotazioni e ci disponiamo ad aspettare fiduciosi che ci venga assegnata la stanza per il meritato riposo. Così non è: la stanza che abbiamo prenotato non c’è più. Overbooking, o, vista l’ora, pensavano che non ci presentassimo più e hanno dato la camera ad altri. E’ così che scopro come per incanto di ricordarmi qualcosa d’inglese (altro che chicken or veal?-two cokes!), sufficiente per intavolare una discussione in cui sostanzialmente ribadisco che abbiamo regolarmente prenotato la stanza, sottolineo che l’abbiamo pure pagata (138 dollari, per la precisione), e insisto sul dire che non ci muoveremo di lì finché non trovano una soluzione “It’s your problem”, sostengo, ma il problema in realtà è nostro, visto che il pensiero di tornare con i nostri bagagli sui boulevard deserti e spopolati mi inorridisce. L’impiegato non sembra particolarmente colpito dalla mia determinazione, ma alla fine fa qualche telefonata e ci trova una camera in un altro Travel Lodge in Santa Monica Blvd. Comincia un’altra discussione perché a quel punto la rivendicazione si orienta sul fatto che sono loro che ci devono portare lì. Siamo in ballo da quasi 24 ore e siamo piuttosto defatigati. Alla fine il socio indiano (“Take it easy”, prende le chiavi della macchina e ci accompagna. Breve tragitto nell’elettrizzante città degli angeli, mortalmente deserta, poi andiamo a dormire, ad un’ora imprecisata della notte, o del mattino, non sapremmo dire di quale giorno.
12 luglio – LOS ANGELES Facciamo colazione in albergo e acquistiamo un’escursione Vip: visita di Los Angeles + Universal Studios per 72 dollari a testa. Durante la mattinata visitiamo Marina del Rey con il Fisherman Village, Venice, con la sua spiaggia, i suoi murales e i suoi tipi umani (per dire, una ragazza va a spasso con un maiale al guinzaglio), Bel Air e Beverly Hills, dove sfiliamo in bus tra le dimore dei ricchi e famosi, in genere occultate dietro impenetrabili muri di recinzione, sistemi di allarme, cani e guardiani. Lo speaker sull’autobus nomina varie celebrità: alcune le conosciamo, alcune no (probabilmente personaggi della televisione o dello sport); ci impressiona comunque moltissimo che alcune delle strade più ricche e famose del mondo portino i nomi di paesetti del nostro lago di Como (ci viene il dubbio che dovremmo guardarlo con altri occhi meno abitudinari). Ci facciamo un hot dog al Farmer market, poi siamo a Hollywood: camminiamo sulla Walk of Fame (un marciapiede con delle impronte, la fantasia supera di gran lunga la realtà), diamo un’occhiata al Chinese Theatre, guardiamo il panorama dalla collina. E’ quindi la volta degli Universal Studios. Saremmo un po’ degli snob di sinistra che dovrebbero schifare questi divertimentifici nazionalpopolari, ma confessiamo che in realtà ci divertiamo parecchio. Tanto per cominciare, per strada si incontrano tipi come Topolino e Minnie, o Stallio e Ollio, che già è una bella soddisfazione. Poi si può scegliere tra diversi attrazioni: noi ci regoliamo anche in base alla consistenza delle code: che a volte sono molte lunghe e richiedono lente attese sotto il sole, a volte alleviate da vapore irrorato da appositi erogatori. Prendiamo un trenino che fa un giro animato degli studios: lungo il percorso si incontrano diversi set (ad es. la Cap Cove funestata dalla presenza mortifera della signora Fletcher, alias signora in giallo) - con musiche che aiutano a riconoscere le attribuzioni -, con strade, facciate di case di varie epoche, ecc. Lungo il percorso si incrociano anche diversi personaggi, alcuni davvero poco raccomandabili, come King Kong o lo Squalo che balza all’improvviso verso il trenino. E’ particolarmente impressionante la sosta nella fermata della metropolitana; ad un certo punto il terremoto squassa la terra, il soffitto si squarcia verso la strada da dove automobili rischiano di precipitare di sotto, gli impianti elettrici impazziscono, le luci barbagliano e si spengono, i cavi spezzati mandano scintille, e alla fine il treno all’arrivo nella stazione deraglia e si schianta contro le colonne di cemento. Il tutto a grandezza naturale, e a pochi metri da noi. Ragazzi! Mentre il treno si riavvia per uscire dalla stazione i meccanismi riportano tutto alla normalità della situazione che avevamo trovato arrivando. Ragazzi. A Jurassic Park attraversiamo la jungla su un gommone collettivo, mentre dinosauri animati in grandezza naturale fanno capolino tra il fogliame. Alla fine sfuggiamo all’assalto di un tyrannosaurus rex precipitando verticalmente lungo una cascata di 25 metri (84 feet), sollevando spruzzi altrettanto alti. All'uscita, bagnati, si può acquistare la maglietta con la scritta “I survive Jurassic Park” o la fotografia scattata durante la caduta. Molti precipitano alzando le braccia e con un’espressione di goduria sul volto. Guardiamo a distanza un po’ di gente che precipita, poi entriamo in “Backdraft”: il film di riferimento in Italia si intitolava “Fuoco assassino”. Si entra in un grande capannone industriale e ci si sistema lungo i lati su passerelle di metallo. Poi scoppia l’incendio, in diversi punti della fabbrica si alzano fiamme alte anche parecchie metri, scattano i dispositivi antincendio e l’acqua spruzza dall’alto, mentre il calore del fuoco mette a rischio le passerelle su cui ci troviamo che danno segni di cedimento. Ad incendio spento si esce, un po’ avvampati e un po’ umidi, mentre tutto torna meccanicamente a posto in attesa del prossimo turno di visitatori. Mi sono dilungato un po’ troppo, nevvero? Ci riportano in hotel. C’è il problema cena, intorno all’albergo non si vede granché, alla fine andiamo in un ristorante libanese lì nei pressi, mangiamo bene e poi andiamo a dormire.
13 luglio – Los Angeles – SAN DIEGO Il programma è lasciare Los Angeles per San Diego, ma la cosa si rivela meno facile del previsto. Proviamo a telefonare alla Greyhound, ma senza costrutto, anche perché i numeri telefonici sono cambiati. Intanto telefono a casa (4 dollari), poi tiriamo su le nostre cose e ci muoviamo. Prendiamo un autobus e andiamo alla stazione Greyhound di Hollywood. Strade e parcheggi (sarà così anche a San Diego) sono piene di homeless, la stazione è sgarruppata, le impiegate sono antipatiche, e di autobus ne partono pochi. Prendiamo un altro autobus per Downtown, poi un terzo bus per la stazione Greyhound, in una zona depressa e tra i senza tetto. Però almeno si parte. Facciamo il biglietto per 12 dollari e ci imbarchiamo. Arrivati a San Diego raggiungiamo a piedi il Thriff Lodge (dove paghiamo la camera doppia 93 dollari), che risulta essere non lontano ma neppure centrale. Dopo un riposino usciamo verso il centro. Visitiamo il Gaslamp Quartier, il vecchio nucleo di SD (il nome fa riferimento alle lampade a gas del tempo), prima caduto in depressione, ora ripulito, rimesso in sesto e recuperato. Tra le molte case vittoriane restaurate si affacciano negozi e ristoranti e la zona è piacevolmente animata. Bello anche il Seaport Village, anche perché vi si sta svolgendo il Pacific Island Festival. Rimaniamo un po' a guardare i balli e ad ascoltare i canti di Samoa ed altre isole lontane (da qui un po’ meno), poi torniamo verso il centro, passiamo per il Planet Hollywood, l’Horton Plaza (nel centro commerciale ci sono grandi dinosauri scolpiti nella sabbia). Di ritorno a Gaslamp e per una trentina di dollari ceniamo da Buffalo Joe: ribs all you can eat e musica con Withey Conwell. I mezzi urbani (trolley e bus) sono ottimi; torniamo in albergo.
14 luglio – SAN DIEGO Colazione da Jack in the Box con cake e orange juice. In trolley a Old Town: saliamo sulla Presidio Hill, dove più che il panorama si vedono le case dei ricchi. Poi al Balboa Park: architetture spagnoleggianti in stile barocco-coloniale rifatte, giardino botanico e Palm Canyon, dove avvistiamo un colibrì. Facciamo uno spuntino, mangiamo un gelato ricoperto con cioccolato e granella, poi ci spostiamo in autobus verso Mission Beach. E’ una spiaggia non grande, abbastanza affollata, dove ci facciamo un piccolo bagno nel grande Oceano Pacifico. Raggiungiamo i moli per il tramonto, ma il cielo non si dà da fare più di tanto. Le catene della ristorazione si fanno guerra a forza di promozioni; mangiamo da Burger King spendendo circa 8 dollari.
15 luglio – San Diego - ENSENADA In trolley raggiungiamo il confine a San Isidro. Varchiamo la frontiera (nel senso di marcia più facile): l’ufficiale messicano è un albino dall’aria molto simpatica. Siamo nella famigerata Tijuana. Andiamo in banca per cominciare a cambiare qualche soldo e anche qui la guardia armata è molto simpatica, e, sentito che siamo italiani, ci attacca un bottone parlandoci di Roberto Baggio e, cosa che ci stupisce abbastanza, di Gianni Versace. Siamo appena arrivati in Mexico e non abbiamo ancora l’orecchio; non capiamo tutto quello che dice e scopriremo solo a posteriori che la notizia è che Versace è morto oggi stesso a Miami Beach. Ci allontaniamo subito dal confine con un bus diretto a Ensenada, sulla costa (biglietto a 44 $ cadauno). Attraversiamo paesaggi senza interesse, la cosa più notevole che sul bus che attraversa il deserto fanno “Priscilla”, che parla di un bus che attraversa il deserto… A Ensenada chiediamo informazioni ad un ragazzo: anche lui è simpatico e ha studiato in Italia. Al Motel Caribe affittiamo un stanza per 120 $. Dei cartelli invitano i turisti americani a non portare pistole in camera, a non buttare bottiglie dalle finestre, ecc. Facciamo un giro per cercare una banca ed informazioni sui mezzi per spostarci. La città è piuttosto sporca, in un drugstore vediamo un tizio con un serpente morto. Ceniamo da Mary, per 62 $: l’ambiente è dimesso ma il cibo non è male.
16 luglio – ENSENADA – BUFADORA – PLAYA EL FARO - ENSENADA Compriamo una carta telefonica da 35 $, telefoniamo ad Angelo e gli lasciamo un messaggio in segreteria telefonica. Andiamo alla Bufadora: non con i tour organizzati (no sia mai), ma per conto nostro. Prendiamo i minibus locali; a Maneadero, in una stazione d’autobus talmente dimessa che non la fotografo per pudore, vaghiamo nel cortile tra i vari marciapiedi, mentre l’altoparlante dice, a nostro esclusivo uso e consumo: “Salida de numero ocho por la Bufadora… ocho. Non diez ocho, ocho!”. Gentili. Ci fanno sorridere. Alla Bufadora le onda si insinuano tra gli scogli e producono un potente getto d’acqua e vapore, tipo geyser, molto apprezzato da noi turisti. Carino, ma il tempo è nuvoloso e brutto, il posto intorno anche. Alle tiendas prendiamo churros e Coca Cola. Con altri minibus raggiungiamo la Playa El Faro. Il cielo è nuvoloso e tira un vento freddo, ma poi esce il sole. C’è la spiaggia, la laguna, molti uccelli di molte specie diverse, molti granchi e, all’entrata della spiaggia, una scimmia e un leone. Facciamo il bagno. Ad Ensenada, cena al Molokay: tacos, filetto di pesce con asparagi e vino bianco. Conto sui 100 $, e con un po’ di taco facciamo felice anche un cane di passaggio che ci palesa la sua riconoscenza.
17 luglio – Ensenada – Guerrero Negro Partenza in bus per Guerrero Negro. Scenderemo lungo l'affusolata penisola desertica della Baja California lungo la Carretera Federal n. 1, che la percorre tutta da nord a sud, e da sud rientreremo poi in continente. L’anno scorso abbiamo scoperto che i trasporti su strada in Mexico sono abbastanza buoni. Innumerevoli compagnie private percorrono il territorio con bus in generale confortevoli e ben tenuti, spesso Mercedes, e a bordo spesso ci sono televisori dove vengono trasmessi film videoregistrati. Per raggiungere le località minori ci sono bus locali, che vanno un po’ dovunque; ovviamente la qualità dei mezzi è più modesta; nei centri urbani o per i collegamenti con stazioni di autobus o ferroviarie o aeroporti in genere i mezzi più usati sono colectivos, furgoncini con percorsi più o meno fissi ed orari abbastanza variabili, che in genere partono solo quando sono pieni (e talvolta lo sono troppo). Intanto dai finestrini del bus si vede un paesaggio brutto e sporco, poi da El Rosalito comincia il deserto lungo mille chilometri, che arriva fino ai Cabos. Colline pietrose, cactus di tutti i generi, forme e dimensioni (alcuni alti svariati metri), la strada bordata da cordoni di spazzatura, evidentemente lasciati o gettati dagli automobilisti di passaggio. Poi carcasse di automobili, qualche croce, qualche colorato e surreale cartellone della Tecate (la birra locale) sullo sfondo del nulla, qualche rapace che volteggia nel cielo. Facciamo una sosta di mezz’ora, ma il bus se ne va e lo aspettiamo per un’ora. Il paesaggio ha un suo fascino brutale, ma dopo dieci ore di viaggio diventa decisamente monotono. Quando arriviamo a Guerrero Negro cala il buio. Siamo su uno stradone senza punti di riferimento. Prendiamo per 120 $ una camera al Motel San Ignacio, ma prima facciamo una cena memorabile davanti a d un baracchino sui bordi dello stradone desolato: preparati con amore e professionalità, i più succulenti hot dog che la nostra memoria ricordi.
18 luglio – Guerrero Negro – SANTA ROSALIA Camminata per cercare una banca. Guerrero Negro ha un nome suggestivo, ma non è migliorata alla luce del giorno: attraversata da stradoni senza senso sotto il sole del deserto. Non è stagione di passaggio delle balene, che ogni anno tornano da queste parti per le loro storie migratorie e riproduttive, e perciò i voli per Isla Cedros sono sospesi e non c’è niente da fare né da vedere. Cominciamo già a sospettare che la traversata della Baja California non sia stata un’idea brillante. Aspettiamo in motel, poi ci imbarchiamo sul bus per Santa Rosalia. Attraversiamo il Desierto de Vizcaino; il paesaggio è più o meno come quello di ieri, con in più forse delle alture vulcaniche. A parte le balene – che non ci sono -, da queste parti ci sarebbero da vedere dei siti con incisioni rupestri, vecchi missioni spagnole, e ambienti naturali particolari; ma spostandosi con il bus da un centro all’altro senza poter disporre di un mezzo proprio è difficile fare e vedere qualsiasi cosa. L’arrivo a Santa Rosalia è sufficientemente western: luce del tramonto, capannoni delle miniere, case di legno, strade non asfaltate, polvere dovunque. E intendo dovunque: le strade sono polverose, le auto e i furgoni alzano nugoli di polvere che oscurano la vista e si depositano poi dappertutto strato su strato. Prendiamo una camera all’Olvera, 120 $. Usciamo ma il caldo è orribile. Santa Rosalia è infilata in un piccolo canyon tra alture rocciose e il mare è brutto. Vediamo una chiesetta in ferro costruita da Eiffel, lo stesso della torre parigina, assistiamo ad una partitella di basket, poi ci rifugiamo nella pizzeria Fabula. Una pizzeria, sì: un posto pulito, illuminato bene (per citare il vecchio Hemingway), dipinto a colori vivaci. Con fuori e intorno Santa Rosalia, sembra un bel sogno. Queso fundido e fettuccini all’Alfredo con Parmesano (prodotto dalla Kraft negli Stati Uniti). Un bel momento; ma poi in albergo una notte orribile con ventilatore a manetta e, nonostante questo, caldo insopportabile.
19 luglio- Santa Rosalia - LORETO La mattina il sole sorge rosso e già corrotto e malato proprio davanti alla nostra finestra, a farsi beffe di noi. Fuggiamo da Santa Rosalia con l’autobus del mattino, sprofondando sempre di più verso la parte meridionale della penisola. Alla stazione degli autobus chiacchiero un po’ in inglese con un signore di Mulegè, forse americano. Di nuovo cactus e deserto, ma anche suggestivi scorci su irraggiungibili spiagge da sogno. In autobus mandano una commedia di Michael Lehmann con Uma Thurman, il cui titolo messicano suona “La verdad acerca de perros y gatos”. Alla stazione degli autobus di Loreto prendiamo un taxi per il centro e una camera all’Hotel Junipero. 190 $, una bella stanza con aria condizionata. Andiamo in spiaggia e facciamo il bagno. Poi ci guardiamo un po’ in giro: l’escursione all’isola Coronado costa parecchio (85 dollari). Ceniamo, da soli, a “La terrazza”. Dopo cena spettacolo di musica e danze popolari (dell’escuela preparatoria Cardenas) per i festeggiamenti del tricentenario della missione di Loreto. Bello e divertente, poi dopo l’ultimo passo dell’ultimo ballo uno dei ballerini collassa. Gli fanno aria, poi lo portano via. Speriamo bene. Intanto abbiamo chiacchierato un po’ con due italiani che stanno facendo più o meno il giro inverso al nostro: Chihuahua, la Barranca, la Baja California; ora sono in partenza per Ensenada; ma anche loro sono delusi dalla Baja: pochi turisti, prezzi alti, ecc. E non sanno quelli che li aspetta.
20 luglio – LORETO – ISLA CORONADO - LORETO Sulla spiaggia contrattiamo un’escursione all’Isla Coronado per 40 dolares, che è meno della metà di quanto la vendono nelle agenzie. Ci imbarchiamo su un motoscafo che veloce, che cavalca le onde saltando e prendendo botte contro l’acqua. Facciamo il giro dell’isola: si vedono pesci, uccelli marini e poi (hoink hoink), foche e leoni marini, sulle rocce e in acqua. Abbiamo il piacere di fare il bagno in una spiaggia deserta dalla sabbia chiara, poi “ride” di ritorno. Dopo un riposino andiamo in spiaggia e mangiamo tra l’altro un ottimo flan con liquore e uvetta. A cena andiamo in un ristorante vicino all’albergo, dove mangiamo almea – conchiglie – e granchi. Poi seconda serata di spettacolo per il tricentenario. Bello, come ieri sera, nel senso che anche stasera uno dei ballerini crolla. Deve essere una tradizione legata all’antica missione di Loreto.
21 luglio – LORETO – LA PAZ Ultima mattinata a Loreto. Andiamo in una spiaggia a sud della città. Facciamo il bagno nel mare del Golfo di California; davanti a noi i pesci saltano fuori dall’acqua. Una doccia , un salto in banca, e poi siamo pronti per la partenza. Mangiamo uova al tocino e omelette e chiacchieriamo con un viaggiatore solitario, poi ci imbarchiamo alla volta di La Paz. Fa caldo e a bordo non c’è aria condizionata, e neppure film. In compenso il paesaggio fuori dai finestrini è bello, montagne rocciose e deserte, ma anche begli scorci di mare e spiagge. A La Paz prendiamo un taxi verso il centro; dopo aver visionato diversi tuguri improponibili approdiamo alla Pension California. C’è un cortile dipinto di rosso, bianco e celeste; ai muri sono appesi quadri, gusci di tartaruga e piccoli coccodrilli. Poi c’è un pappagallo (vivo), una televisione, una lavatrice, una cucina. Alessandra chiede informazioni sull’habitacion, la tipa dice che c’è anche la stufa per cucinare. Alessandra chiede “Se puede mirar?” e la tipa risponde stupita “La stufa?!”. Ridiamo; la camera è disadorna, bianca e celeste, con ventilatore al soffitto, e costa 95 $. La prendiamo. Usciamo per fare un giro per La Paz. Il tramonto è molto bello; siamo sulla costa della penisola rivolta ad est, che però in questo punto si arricciola all’indietro, cosicché LP è in grado di offrire una serie di spettacolosi tramonti. Ma fa troppo caldo, per cui saltiamo la cena a favore di un gelato da Bing. Prendiamo un po’ di informazioni, in un’agenzia turistica sulle escursioni, e all’ufficio del turismo sulle spiagge. Nei dintorni di La Paz ci sono una serie di spiagge tra mare e deserto, e ci daremo da fare per visitarne un po’.
22 luglio – LA PAZ – PLAYA DE PICHILINGUE – LA PAZ Prendiamo un bus per Pichilingue (per 10 $), dove c’è il porto per il ferry, e a piedi raggiungiamo la spiaggia omonima. E’ bella: sabbia chiara, acqua trasparente, bar ristorante sulla spiaggia con ombra e rinfreschi. Inauguro una serie di bellissimi bagni con la maschera. Vediamo un sacco di pesci, ai quali, per la nostra ignoranza, attribuiamo nomi di fantasia. Si chiamano, ad esempio, a seconda della forma e del colore: pesci senza nome, pesci tigre, pesci siringa, pesci istrice, pesci metrò; e inoltre conchiglie e granchi. Facciamo uno spuntino al bar della spiaggia con insalata di tonno. Come succede spesso da queste parti c’è una laguna interna, dove avvistiamo dei trampolieri. Salgo su una collinetta per fare una foto: il paesaggio è molto particolare e selvaggio, con il deserto che incombe e che si spinge con tanto di cactus quasi fino al mare. Altri bagni, poi ritorno col bus. Alla pensione facciamo conoscenza con una tipa strana. E’ italiana, ed è in giro con tre bambini neri, di età varie. Conversando con lei scopriamo che: 1) abita dietro il duomo di Cremona; 2) insegna; è una precaria: abilitata in inglese, laureata in francese, insegna spagnolo; 3) varie altre cose su cui si diffonde nelle seguenti giornate (vi ho rovinato la sorpresa anticipando che la rincontreremo?). Non scopriremo mai se esista un padre dei tre bambini (ammesso che lei sia la madre) e se sì dove si trovi (ora, ma anche quando lei portava i bimbi sull’elefante in Thailandia…). A quanto capiamo le sue vacanze, o viaggi, o avventure o disavventure, durano mesi e spaziano nei continenti. Siamo decisamente incuriositi. Cena a base di hamburger sul lungomare. Ma le notti sono caldissime, si dorme a fatica.
23 luglio – LA PAZ – PLAYA EL TESORO – LA PAZ Per prima cosa andiamo alla Sematur per prenotare il traghetto che attraversa il Golfo, ma ci rispondono che, a causa anche delle vacanze scolastiche, non c’è posto per una settimana intera! Ci precipitiamo quindi in un’agenzia di viaggio e cerchiamo un aereo che ci riporti sul continente. Per circa 500 $ prenotiamo un volo per il 26, e Alessandra sventa un tentativo di sabotaggio dell’impiegata che per errore sta va per farci volare a Mazatlan anziché Los Mochis. Abbiamo rinunciato a raggiungere Los Cabos (ovvero Cabo San Lucas e San Josè del Cabo), un po’ dando credito ai giudizi snob della guida Clup (e quasi sicuramente è un gigantesco errore che ci fa perdere forse la parte migliore della zona), un po’ perché il tempo è quello che è, e un po’ perché alla Baja California ci sembra di aver già dato una parte sufficiente di noi stessi. Sistemato il piano di esodo dalla Baja, possiamo rilassarci e prendercela comoda. Alessandra si beve il primo di una serie di licuados, una sorta di ricco frappè. Una signora glielo versa dal bicchierone dove l’ha appena preparato, ma non ci sta tutto nel bicchiere. Alessandra dice che va bene così, ma la tipa le impone autoritariamente “Tomalo”. Ale beve per svuotare un po’ il bicchiere, ma non è sufficiente. La signora non è soddisfatta finché Alessandra non ha bevuto per la seconda volta, e poi per la terza volta, in modo da poter svuotare tutto il contenitore del licuado nel suo bicchiere. I suoi autoritari “tomalo” diventeranno proverbiali. Una variante dei licuados sono le acuas, probabilmente meno sostanziose. Prendiamo un bus per Playa El Tesoro, che si rivela più piccola di Pichilingue, ma molto carina, con acqua bassissima e pesciolini che vengono a mordicchiarti amichevolmente i polpacci. Al ritorno passiamo dall’hotel da dove ci hanno detto parte un trasporto gratuito per Playa Tecolote e prendiamo accordi. Ceniamo su un ristorante sul mare: buono, ma il servizio è lento. Mangiamo sopa de tortillas e pescado relleno de mariscos. In hotel ritroviamo la cremonese che sta mangiando corn flakes al cioccolato insieme alla bambina più grande. Scopriamo quindi che: 1) è stata a Cabo San Lucas che le è piaciuta e ha deciso di trasferirsi lì per un mese, mandando a monte un complicatissimo piano di viaggio (Barranca del Cobre + Oaxaca per la fiesta + Caribe per il mare) che ci aveva esposto solo la sera prima! 2) trovata casa per 600 dollari al mese, ha abbandonato lì i bambini più piccoli ad una signora appena conosciuta. Le esperienze di viaggio precedenti (Mexico, Cuba, Puerto Rico, Venezuela) includono anche un viaggio in Thailandia dove a) il piccolo Quincey (nove mesi all’epoca) ha imparato a camminare sulla spiaggia di Koh Samui (il suo equilibrio motorio ne ha risentito un pochino); b) a Chiang Mai (ci siamo stati e sappiamo di cosa parla: le nostre esperienze più pertinenti sono le torrenziali piogge monsoniche e un giretto da pensionati su un elefante turistico) ha portato i tre figli, piccoli e/o piccolissimi su un elefante che saliva su una montagna: alla fine, pur riluttante, ha dovuto affidare Quincey al conduttore, poiché da sola non riusciva più a tenere tre bambini insieme. Siamo sotto shock, in compenso avremo un argomento di conversazione per settimane e un aneddoto da raccontare per anni. Le notti sono sempre eccessive: Alessandra decide di dormire sul pavimento, giusto sotto il ventilatore che spazza l’aria calda.
24 luglio – LA PAZ – PLAYA TECOLOTE – ISLA ESPIRITU SANTU (LOS ISLOTES, PLAYA ENSENADA GRANDE) - LA PAZ Incontriamo la cremonese: è stata alla Sematur a prenotare il ritorno per settembre e sta partendo per San Lucas. Ci salutiamo e ci chiederemo per sempre dove sia finita, lei e i suoi sciagurati (?) bambini. Quindi ci presentiamo all’hotel e un minibus ci porta effettivamente a Playa Tecolote, una spiaggia organizzata. Nella vetrina di un bar sulla spiaggia vediamo la pubblicità di un’escursione che a suo dire porterebbe in un posto dove si può fare il bagno insieme ai lobos marinos. Abbiamo i nostri dubbi, malgrado le fotografie messe lì a scopo dimostrativo, ma dopo esserci sistemati sotto una palapa non resistiamo alla curiosità e andiamo a parlare con gli organizzatori, che ci assicurano che è proprio così. Costa 200 $, ma non si parte se non si raggiunge un numero minimo. Siamo solo noi; ma decidiamo che un’occasione così non ci ricapiterà facilmente e così cominciamo a battere la spiaggia cercando di convincere indolenti messicani sprofondati nel proprio riposo ad unirsi a noi. Incredibilmente, la cosa funziona, convinciamo un padre di famiglia inizialmente riluttante e riusciamo a mettere insieme un gruppetto, con adulti e bambini. Torniamo quindi trionfanti dai barcaioli e partiamo su una lancia a motore provvista anche di una tenda per l’ombra. Costeggiamo la parte orientale dell'Isla Espiritu Santu, che si rivela piuttosto noiosa. Ma poi arriviamo a Los Islotes, scogli rocciosi all’estremità dell’isola. E’ un posto assolutamente deserto, desolato e selvaggio, senza costruzioni o esseri umani in vista. E qui succedono due cose memorabili, una brutta e una bella; rispettivamente: a) la macchina fotografica (che a Loreto aveva preso una botta) decide di smettere di funzionare in uno dei momenti più eclatanti delle nostre vacanze di tutti i tempi e di tutti i paesi; b) facciamo la nuotata più incredibile della nostra vita. Il posto è pieno di foche e leoni marini, ma io sono talmente scioccato e depresso dalla rottura della macchina fotografica che non vorrei nemmeno scendere dalla barca. Per fortuna Alessandra mantiene il sangue freddo, mi chiede se sono scemo e mi ricorda quanto è poco probabile avere di nuovo un'occasione simile. Alla fine, sia pur riluttante, mi infilo maschera subacquea e giubbotto salvagente (ottimo: così posso guardarmi in giro con più spensieratezza senza temere di affogare), scendo dalla barca e raggiungo Alessandra che si era già avventurata da sola nell'acqua affollata di pachidermi. Guai a me se non l’avessi fatto. Il mare è pieno di pesci belli e colorati, i fondali sono suggestivi, ma soprattutto ci sono loro. Foche! Elefanti marini! Sono intorno a noi, davanti a noi, sotto di noi, in mare, sulle rocce. Sugli scogli le foche si spaparanzano a prendere il sole, a due bracciate da noi altre foche volteggiano, fanno le loro evoluzioni natatorie, si baciano; un enorme leone marino ci gira intorno, probabilmente per tenere d’occhio il suo harem: ci passa sotto, di fianco, riemerge sbuffando sonoramente ad un metro di distanza, ci punta con degli impressionanti vis-a-museau. Più volte una foca o un leone marino mi tocca i piedi passandomi di lato. Non so se avete presente quanto sono grossi questi animali; non ci è mai più capitato di trovarci in mezzo a degli animali selvatici di tale stazza e dimensioni, in una situazione totalmente naturale e selvaggia (sì, forse in Sudafrica, in mezzo ad una mandria di bufali – per fortuna talmente perplessi da dimenticarsi di essere pericolosissimi -, ma lì eravamo dietro la barriera di vetro e lamiera dell'abitacolo di un automobile). E’ un’esperienza esaltante e indimenticabile. Per quanto non fotografata... Dopo un po’ risaliamo a bordo della barca e costeggiamo lentamente gli scogli coperti di foche, adagiati sugli scogli come su delle mensole, e assistiamo a diverse scene di vita animale, come una scenetta tra una foca e un granchio rosso. Riprovo sfiduciato la macchina fotografica, che con un sussulto d’orgoglio riesce ancora a sparare qualche ormai mediocre foto verso gli scogli. Quindi la lancia ci sbarca a Ensenada Grande, una bellissima spiaggia bianca con acqua di eccezionale limpidezza. Alessandra fa amicizia con una bambina a colpi di “holà”, avvistiamo uno scoiattolino, poi ritorniamo velocemente , costeggiando la costa ovest, ben più bella dell’altro lato. A Playa Tecolote ci riposiamo (dalle emozioni), e poi torniamo a La Paz con un minibus sovraffollato. Ceniamo in un ristorante sul lungomare, poi gelato (choco chips e uveta con pasas).
25 luglio – LA PAZ – PLAYA PICHILINGUE – LA PAZ Di nuovo a Playa Pichilingue, dove proviamo l’altro bar, una palapa in legno col tetto di paglia. Se vi piacciono i frutti di mare tenete presente che su queste spiagge, una volta che avete ordinato, un signore parte, entra in acqua e ve li preleva direttamente, dal mare al vostro piatto. Facciamo gli ultimi bagni, poi per il resto del tragitto il mare contiamo di non vederlo più. Devo dire che la Baja California a questo punto cominciava a piacerci, e anche parecchio. Preleviamo, poi la sera ceniamo con crema de elote e gamberi al burro in un ristorante sul mare. In pensione prepariamo gli zaini e puntiamo la sveglia. Abbiamo preso accordi e avuto conferma che domani mattina verrà a prenderci il taxi numero ocho che ci porterà all’aeroporto per 70 $.
26 Luglio – La Paz – LOS MOCHIS Ci svegliamo che è ancora notte. E’ il compleanno di Alessandra, che a dispetto della ricorrenza in bagno viene assalita ad una gamba da una cucaracha gigante e alata e scappa saltellando e gridando “Uh diu, uh diu!”. Probabilmente ci siamo svegliati troppo presto e a nostra volta abbiamo disturbato la privacy degli esseri che condividono con noi gli ambienti della pensione negli orari notturni. Il taxi alle 6 arriva davvero, facciamo un rapido check in aeroporto, sorvoliamo in 25 battibalenanti minuti il Golfo di California e atterriamo dall’altra parte. Prendiamo un colectivo sovrafollato verso il centro di Los Mochis: l’autista ci scarica all’Hotel Catavina riscuotendo un’adeguata propina. Facciamo un giro a Los Mochis, intanto che si libera e preparano la camera. Intanto prenotiamo il treno per l’indomani e Alessandra - di nuovo! - provvidenzialmente corregge l’impiegata che evidentemente fa parte di una congiura ordita per depistarci. Los Mochis è brutta, calda e piena di una vivace confusione, affollata di negozi e di mercati. Nei supermercati ad ogni cassa c’è un ragazzino minorenne: è l’empacador, addetto ad infilare gli acquisti nella borsa della spesa. Compriamo una macchinetta fotografica giusto per supplire alla defaillance dell’apparecchio ufficiale che si rifiuta di autoaggiustarsi. Tornati all’albergo scambiamo qualche parola con degli svizzeri di Neuchatel con argomento treno e facciamo una merenda a base di pane e Philadelphia. In hotel c’è l’aria condizionata, ma non gli asciugamani e la tv non funziona. Alla reception prenotiamo un taxi per domani mattina alle 5.15, altra levataccia. Quindi nel pomeriggio ci concediamo un riposino, poi in un vicino ristorante facciamo una cena con crema de elote, milanesa (sì, una cotoletta impanata, più o meno come la conosciamo noi!) flan e banana split. Los Mochis ha una sua vivacità anche notturna, con locali squallidi ma dove evidentemente si beve birra e si fa festa. Noi però andiamo a dormire presto vista l’ora di partenza di domani mattina; la notte è comunque agitata.
27 luglio – Los Mochis – DIVISADERO (Barranca del Cobre) - CREEL Sogni, rumori, poi alle 4 suona il telefono. E’ la reception, che per motivi a noi imperscrutabili ci informa che sono le 4. Ne prendiamo atto. Alle 4.50 suona di nuovo il telefono. E’ la reception che ci avvisa che è arrivato il taxi che avevamo prenotato per le 5.15. Siamo un tantino contrariati, ma ci prepariamo e partiamo. Fuori è ancora notte. La stazione di Los Mochis è fuori città, a casa di Dio, in un posto squallido e pieno di zanzare nella mattinata non ancora iniziata. Arriva il segnale dell’imbarco. Il treno, della Ferrocaril Chepe, è più brutto di quello che ci aspettavamo e ieri abbiamo letto sulle prime pagine dei giornali che a causa della pioggia e dell’umidità c’è stato un incidente sulla linea dopo Creel (dove stiamo andando noi) con due morti e diversi feriti. Comunque si parte. Finora siamo andati sempre da nord (Los Angeles) verso sud (fino a La Paz), ma da La Paz a Los Mochis, e poi a Creel e a Chihuahua, invertiamo la direzione, risalendo in aereo, treno e bus in direzione nord-est. Si fa chiaro. Per un pezzo il paesaggio non ha nulla da dire, poi compaiono boschetti con in mezzo cactus che fanno l’aria disinvolta. Poi tutto si anima: prima colline, poi montagne con boschi, fiumi, laghi, ampie vallate, formazioni rocciose, ponti, gallerie. Alessandra ordina un platillo con sandwich e sandia (anguria). Ora viaggiamo in quota, in mezzo alle pinete della Sierra Madre; solo l’altro ieri eravamo tra l’oceano e il deserto. Il percorso è molto suggestivo; ogni tanto vado sui mezzanini, che non hanno vetri e da cui si possono scattare foto indisturbati. Chiacchieriamo a lungo in inglese, di Italia, Europa, Veracruz, vulcani, incidenti ferroviari, ecc., con Aleyda, una veracruzana sposata ad uno statunitense di origine italiana. Poi chiacchieriamo anche con un torinese che viaggia con un’ispanica e che è un veterano del turismo in Mexico; non ha trovato mezzi per raggiungere la Baja e ora ripiega su Creel, da dove ha intenzione di raggiungere il fondo del canyon. Raggiungiamo la fermata di Divisadero, dove ci fermiamo un quarto d’ora. E’ il punto panoramica più famoso e spettacolare sopra la Barranca del Cobre, a 2500 metri di altezza. La Barranca è un insieme di canyon, solcati da numerosi fiumi, con alcune grandi spaccature (profonde fino a 1500 metri) e un labirinto di canyon minori. Tra i panorami rivaleggia in ampiezza (è molto più grande) e in profondità (è più profondo) con il Grand Canyon (che vedremo tra una decina d’anni), ma i colori delle rocce dell’Arizona sono di gran lunga più suggestivi. La vista è spettacolare, ma il cielo si è annuvolato. Scatto qualche foto, poi si riparte. Dopo un paio d’ore di nuovo tra ponti e gallerie arriviamo a Creel. Direttamente alla stazione veniamo rapiti da un ragazzino in bicicletta che ci porta da Margarita, dove non c’è posto, e quindi da Berti, dove per 120$ prendiamo una camera da 4, grande e bella, con mobili in legno. Facciamo un giro per Creel, cercando informazioni sulle escursioni possibili, e prendiamo dei mezzi accordi con un vecchio cow-boy dotato di pulmino. Nel pomeriggio piove, e pare che qui lo faccia tutti i giorni. A cena di nuovo crema de elote, comida corrida, pollo, torta con gelatina scarlatta. Incontriamo Aleyda e suo marito Charlie, scopriamo che abitano a Judad Juarez, e facciamo una piacevole chiacchierata. Ci mangiamo un gelato, poi a dormire.
28 luglio – CREEL – CUSARARE – Lago di Arareco - CREEL Ci rechiamo in piazza, alla ricerca di una gita. Aspettiamo un po’ e ci guardiamo intorno, poi alla fine prendiamo un’escursione in minivan verso Cusarare (50$), insieme ad una famigliola messicana. A Cusarare, in un bell’ambiente alpestre, c’è una bella cascata, sulla quale papà e bimbetta della nostra gita si arrampicano come ragni fanatici. Siamo nella terra dei tarahumara (indios di montagna visitati ai suoi tempi da quel pazzo di Artaud) e Alessandra compra una bambola fatta da loro. E’ scolpita molto rozzamente nel legno e ricoperta di abiti tipici. La regaleremo alla nipotina Anna, che ben lungi dall’apprezzare il bel gesto politicamente corretto e responsabilmente equosolidale (avrebbe preferito una Barbie?!) non la degnerà di uno sguardo (riguardandola oggettivamente, lontani dalla Sierra Madre, è francamente orrenda) e la abbandonerà a casa nostra con tacito disprezzo. Proseguiamo per la missione, poi raggiungiamo il lago Arareco. Da lontano, due ci salutano da una barca a remi; li guardiamo perplessi finché li riconosciamo: sono Aleyda e Charlie! Il Mexico è veramente piccolo. Visitiamo quindi delle caverne; mentre il papà parla con la ragazzina Gavina il piccolo Ramon mi si appende alla macchina fotografica. Torniamo a Creel, facciamo un riposino e lasciamo passare la pioggia pomeridiana. Poi facciamo una passeggiatina e andiamo a cenare. La bisteka la ranchera risulta inaspettatamente tutta tagliata a pezzettini e in brodo (sic); più prevedibile l’hamburgesa con su papas.
29 luglio – CREEL – LA BUFA - CREEL Di nuovo in piazza alla ricerca di un’altra gita, tra la “cooperativa” degli autisti. Quattro ragazze vanno alla Bufa (costa 140$) e decidiamo di aggregarci a loro. Però prima devono passare a prendere i bagagli, cambiare albergo, poi l’autista deve passare a prendere i soldi per la benzina, poi deve farla; insomma, la partenza si rivela piuttosto laboriosa e lungagginosa. Alla fine partiamo, poi ad un certo punto abbandoniamo la strada principale per affrontare decine di chilometri di strade sterrate. Ma ci sono avvisaglie che qualcosa non va, e l’autista fa la faccia preoccupata. Giustamente, infatti poco dopo il van si guasta e siamo costretti a fermarci. L’autista parte per andare a cercare aiuto nelle fattorie e qualcuno viene ad aiutarlo. Noi e le ragazze ci guardiamo in giro, in un piacevole paesaggio bucolico-montano. Ci sono cavalli, asini, muli, mucche, vitelli; contrariamente a quello che si potrebbe aspettare, l’ambiente è piuttosto animato: ci sono muli che scalciano con veemenza, e alcuni approcci tra asini assumono presto un carattere sessualmente spinto. Le ragazze, che sono delle vivaci portoricane, vanno in bagno, che sarebbe una baracchetta di legno in mezzo al prato, scansando le mucche, mentre noi facciamo la conoscenza dei bimbi Umberto e Lidia. Un signore, lavorando per terra, fabbrica letteralmente, sotto i nostri occhi, il pezzo che si è rotto e possiamo ripartire. Arriviamo alla Bufa, e la strada sprofonda paurosa giù per il canyon. Scendiamo per le foto, ma comunica a piovere. Sulla strada del ritorno fa comparsa la canzone tormentone della vacanza, “Me gusta a ti”, che le ragazze cantano con brio ballando sui sedili e puntandosi reciprocamente contro i ditini, con l’autoradio a tratti a tutto volume. I paesaggi sono molto belli e durante la giornata avvistiamo un paio di scoiattoli. Visitiamo il museo dell’artigianato e quello delle tradizioni tarahumara e acquistiamo un arco e un cestino. A cena, dalla cucina ogni tanto barbagliano bagliori inquietanti.
30 luglio – Creel - CHIHUAHUA Partiamo da Creel alla volta di Chihuahua con una Flecha Amarilla. Rincontriamo le portoricane, che ci dicono di un incidente sulla linea ferroviaria. Dubitiamo se si tratti di quello di cui avevamo già letto qualche giorno fa, o di uno nuovo; non ritroviamo riscontri. Parliamo anche con degli svizzeri, che si rivelano non particolarmente simpatici. Il bus è sporco. Arriviamo a Chihuahua, da dove pensiamo di ripartire la sera stessa. Ci portiamo verso il centro e mangiamo hamburger e quesadilla da Joe, che ci spiega la strada per arrivare alla casa di Pancho Villa. Purtroppo chiediamo altre indicazioni per la strada, ottenendo puntualmente più volte indicazioni opposte alle precedenti. Avanti e indietro, cammina e cammina, alla fine arriviamo. Visitiamo la casa: alla testata del letto il cinturone con la pistola; nel cortile assolato l’auto in cui fu ucciso, crivellata di colpi come un colabrodo; appeso da qualche parte l’elenco delle sue donne, decine e decine. Compriamo qualche cartolina con foto di guerilleros, ricordi di una rivoluzione popolare, romantica e cruenta. Facciamo un giro in centro, vediamo la cattedrale, mangiamo una raspada de limon. Alessandra parla con tre tipe che, al sentire che è italiana, sgranano gli occhi, continuano ad esclamare “que lata!” e “que bonito!” e strattonano un bimbo riottoso e distratto dicendogli “mira la señorita!” Mantenendo il nostro proposito, torniamo alla stazione dei bus, mangiamo dei panini, recuperiamo gli zaini dal deposito e alle 23 ripartiamo con un comodissimo bus Futura. E una volta addormentati si dorme.
31 luglio – ZACATECAS Arriviamo a Zacatecas, prima della collana delle più belle città coloniali del nord. Prima di tutto cerchiamo un albergo. In un uno non ci fermiamo perché è troppo caro, ma sono talmente gentili da custodirci gli zaini mentre noi andiamo a cercarne un altro! Ci fermiamo all’Hotel de la Condesa: 110$, c’è tutto, anche se gli asciugamani sono un po’ in ritardo, e, dal secondo giorno, funzionerà pure l’ascensore. Riposino, visto che la notte l’abbiamo passata in bus. Nel pomeriggio visitiamo Zacatecas, che è bellissima e vanta alcune superbe chiese barocche (qui il barocco è plateresco, armonioso anche nei suoi eccessi più deliranti), come la cattedrale, San Agustin, San Domingo, ecc. La pietra delle costruzioni coloniali spesso ha un colore rosa carnoso. All’ufficio del turismo mi sembra di capire che davanti al Teatro Juarez si tiene un concerto con 110 elementi; troppi, e in effetti c’è solo uno spettacolo di clown. Andiamo a vedere la ex-chiesa di San Francisco, scoperchiata. La cena a prezzo fisso da Mr Laberinto è ottima e prevede crema ai fiori di zucca, spaghetti, petto di pollo in salsa, bistecca alla portoghese e cocktail di frutta. Nelle piazzette e nei vicoli, la sera, risuonano musiche e canzoni: forse sono la callejoneadas, a metà tra serenate e concertini gratuiti.
1 agosto – ZACATECAS – GUADALUPE - ZACATECAS Al mattino prendiamo un bus che ci porta a Guadalupe, una cittadina adiacente a Zacatecas. Visitiamo la missione, una noiosa pinacoteca, un museo dei trasporti. Saliamo quindi da Zatecas con la teleferica. Purtroppo c’è un’ora di coda, per fortuna in coda c’è una ragazza da guardare, bella come un’Emmanuelle Beart messicana. Traversata, chiesa, ampio panorama, acquistiamo una collanina. Per cena torniamo da Mr Laberinto, dove ci siamo trovati molto bene, che però non ha più il menù: decidiamo allora di cambiare e andiamo al Mitcoan, dove io mangio malissimo, una bistek al tequila tanto piccante da dare i brividi. Abbiamo ordinato anche della sangria; il cameriere prima si dimentica, poi porta un beverone imbevibile. Gli chiediamo cos’è, lui insiste nel dire che è sangria, noi gli chiediamo con che cosa è fatta, lui prima non dice gli ingredienti, poi dice che è sangrita. La sangrita sul menù non c’è. Al momento di pagare ce la mette in conto, ma poi ce la toglie pur di non dirci com’era fatta. Per fortuna c’è anche un bel gruppo musicale, gli Olinka, con una brava cantante, un musicista simpatico e un buon repertorio. Bella serata. Compriamo una rosa di Zacatecas, fatta della pietra rosa che c’è qui.
2 agosto – ZACATECAS – SAN LUIS POTOSI' Arrivare direttamente a Guanajuato, come avevamo pensato inizialmente, si rivela difficile. Decidiamo quindi di effettuare una tappa intermedia a San Luis Potosì. Lungo il percorso il paesaggio collinare è punteggiato da innumerevoli fichi d’india (tunas), e la strada costeggiata da innumerevoli bancarelle di fichi d’india. Sul bus danno “Volcano”, di Mick Jackson, con Tommy Lee Jones protagonista: quegli incorreggibili degli americani con tutti i guai che già si ritrovano si inventano pure un vulcano a Los Angeles pur di farci divertire un po’. Arriviamo, prendiamo un bus per il centro, ma una signora ci porta fuori strada. Entriamo in un albergo dall’aspetto dimesso ma la signorina nella squallida reception ci guarda e ci induce a desistere, spiegandoci che si tratta di un albergo “de paso”. Alessandra non capisce che si tratta di un albergo ad ore, e per un po’ insiste a dire alla signorina che noi “siamo de pasos”, si rivolge anche a me che cerco di portarla via, insistendo “ma noi SIAMO de pasos!”. Una volta trascinata via, spiego l'equivoco, peraltro spassoso, ad Alessandra e alla fine approdiamo all’Hotel Principal (80$), comunque brutto. L’ufficio del turismo è chiuso, come pure tutti i musei. Mangiamo hot-dog (perros calientes), visitiamo il centro e assistiamo ad uno spettacolo di danza di un gruppo infantil promosso da Sindacato unico de trabajadores al servicio del gubierno del Estado. Con tutto il rispetto per i bimbi e per i rispettivi genitori, per il sindacato unico e per le nobili tradizioni del Potosì, noi ci divertiamo tanto e dobbiamo frenarci per non scoppiare in risate che potrebbero essere offensive. I bambini ballano, sbagliano, nella danza con i fazzoletti si sbattono involontariamente i fazzoletti gli uni in faccia agli altri. Ovviamente sono compresissimi nella parte, e sono divertenti e teneri. Benché non ne abbia preso nota nei miei appunti, suppongo che sia qui che abbiamo assistito anche ad un balletto folkloristico con adulti, la cui particolarità era nella serie di svenimenti a ripetizione dei danzatori che cadono in diversi, uno dietro l'altro, come birilli, stroncati dal caldo, che vengono puntualmente portati fuori a braccia mentre gli altri continuano imperterriti, si fa per dire, la danza. Siamo nel pieno nell’altopiano, a quasi 2000 metri di altezza, ma il caldo è potente. E credo sia sempre qui che assistiamo ad una strana cerimonia in chiesa, dove c’è una specie di matrimonio in piena regola con fiori, amici e parenti, e con una ragazza giovane vestita da sposa, ma senza lo sposo. Incuriositi chiediamo ad una donna di cosa si tratta e lei ci dice che si tratta dei “quinze”. Capiremo poi che è festa e una sorta di rito di passaggio all’età adulta per le ragazze(allo scoccare appunto dei quindici anni), qui molto sentita. Alla Posada de Virny, sulla piazza principale, mangiamo filete de pescado al mojo de ajo e chuleta alla parilla. Paghiamo con la carta di credito, e un’autorevole cameriera si rivela abilissima nel farsi dare la mancia. San Luis è simpatica anche di sera, con parecchia musica in giro, nelle strade, nei bar (ci piacerebbe fermarci ma non troviamo posto) e in chiesa, dove si sta tenendo un concerto un po’ assurdo, con pianoforte a coda bianco alla Liberace, sovrabbondanza di basi registrate, consunti evergreen e pubblico consenziente e plaudente. In bagno una cucaracha, alla quale sconsigliamo di darci fastidio.
3 agosto – San Luis Potosì - GUANAJUATO Prendiamo un bus che da San Luis Potosì va a Guanajuato. All'inizio e alla fine del viaggio siamo praticamente i soli passeggeri dell'autobus, nei posti davanti con la vista migliore, il tavolino portabibite e la rosa acquistata a Zacatecas. Il tratto centrale è invece lentissimo, pieno di saliscendi di passeggeri e fermate esasperanti a ogni piè sospinto. Facciamo una sosta con merenda a base di fichi a Dolores Hidalgo, dove parliamo con Alberto, che lavora nel turismo a Merida; dice che l'italiano è facile; pur tuttavia lui non l'ha imparato perché è “un burro”. L'autista ha una brutta tosse, comunque ci porta a Guanajuato, lungo una strada che nel tratto finale si arrampica sulla sierra, stretta, tortuosa e panoramica. All'arrivo prendiamo un bus per Mercato Hidalgo e poi alloggio alla Posada Juarez, che Alessandra definisce “un bijiou” (forse riferendosi anche, con un pizzico di ironia, al fatto che avremo il pavimento del bagno allagato per sempre). Nel pomeriggio facciamo un giro per Guanajuato, una delle più belle città coloniali, famosa per i tunnel che la attraversano nelle viscere della montagna e per le sue mummie. Al Jardin Union tutto insieme la banda ufficiale della città suona nel gazebo, i mariachi fanno una gara davanti ai tavolini dei bar e un mimo si esibisce davanti al teatro Juarez. Visitiamo il teatro storico; l'atmosfera della città è fantastica. Ceniamo in un ristorante sulla piazza: buon pollo ai funghi e una jarra de lemonada. Per finire una tequila reposada, ma ho qualche difficoltà a capire come la si beve. Ad un certo punto si spengono le luci. Black out; prima c'è un buio più o meno assoluto, poi arrivano i camerieri con le candele. Ce ne andiamo col buio, in un'atmosfera involontariamente romantica.
4 agosto GUANAJUATO Facciamo una gita in minibus ($ 30). Io sono quasi seduto sul cruscotto, Alessandra in mezzo e poi in fondo, nella folla. La prima tappa è al famoso Museo delle mummie: il terreno di Guanajuato ha delle caratteristiche minerali che ha fatto sì che i corpi lì sepolti abbiano subito una sorta di imbalsamazione naturale. I messicani, nel loro rapporto confidenziale con la morte e con il loro peculiare gusto del macabro, hanno dissepolto i cadaveri e li hanno esposti in teche di vetro in questo museo. E' peggio di quanto mi aspettassi: ci sono cadaveri di tutte le età, adulti e bambini, con ancora i vestiti o i loro brindelli addosso, i capelli che penzolano dai crani mummificati. Il rilascio della mascella dopo la morte fa sì inoltre che la maggior parte abbia la bocca spalancata in un muto eterno grido di orrore e di disperazione. Alessandra vuole uscire al più presto possibile; i visitatori messicani invece si soffermano compiti davanti alle teche a contemplare le salme, forse con un vago senso di riconoscimento e di familiarità; ci sono donne incinte, famiglie con bambini; fuori all'ingresso del museo si vendono caramelle-mummia e caramelle-scheletro. Poi di nuovo in pulmino, su una strada panoramica. Ci scaricano in una tienda per venderci non so cosa; noi veniamo redarguiti perché invece scappiamo e andiamo a vedere di corsa la bellissima chiesa de La Valenciana. L'accompagnatore e l'autista, Julio, peraltro, sono antipaticissimi. Si continua nella visita della Guanajuato ctonia: nella subterranea (parte traforo, parte catacombe), poi nella vecchia miniera (dove Alessandra acquista un quarzo) e infine al Pipila, un punto panoramico. Dopo un riposino facciamo un giretto in centro. Guanajuato è una città dal fascino intenso e bizzarro. Ceniamo alla Gallina aristotelica (come resistere ad un'insegna così?), con un menù di quattro portate a $ 28. Per dessert gelatina e capirotada (una sorta di pudding di pane e frutta secca). Poi risaliamo col buio al Pipila. Ci imbattiamo giustamente in una callejoneada (sono bande musicali, in origini composte da studenti, che percorrono i callejon, cioè i vicoli di Guanajuato, cantando, suonando e raccontando storie; una tradizione storica cittadina che non potevamo esimerci dall'incontrare casualmente sulla nostra strada), i cui componenti ci danno indicazioni per la salita. Uno dei vicoli si chiama callejon del beso, e la tradizione prescrive in modo un po' pedante gli anni di fortuna/sfortuna che aspettano quelli che si baciano/non si baciano qui. Tradizione comunque positivamente rispettata: il sentiero che sale alla Pipila è costellato di coppie di innamorati abbracciati.
5 agosto, GUANAJUATO - QUERETARO La mattina altro giro in centro. Visitiamo il monumento e il museo iconografico di Don Quijote e la casa-museo di Diego Rivera. L'anno scorso avevamo visitato la splendida casa di Frida Khalo a Coyoacan, a Città del Messico, e quindi il nostro dovere verso la male assortita coppia di artisti più romanzeschi e visionari della storia del Messico può ben dirsi adempiuto. Partiamo per Queretaro alle 14. Lungo la strada si allineano bancarelle di fragole (Irapuato si proclama ciudad de las fresas), ma il paesaggio è complessivamente poco interessante. All'arrivo prendiamo un taxi a tariffa convenzionata ($ 12) per il centro. Chiediamo una stanza al Plaza, ma non c'è posto; la signora però ci mette al telefono, chiama altri alberghi e ci trova posto all'Hidalgo: è un bell'albergo, centrale, in un bell'edificio con patio interno, in cui abbiamo una camera grande e con balcone ($ 95 con tv). Rimane tempo per un giretto in centro, poi a cena da Los Compadres. In piazza, forse a voler ben guardare sarebbe meglio evitare, mangiamo alle bancarelle gelatina e budino con rompope (una sorta di vov con tuorli d'uovo, vaniglia, cannella, mandorle, latte, zucchero e alcol).
6 agosto, QUERETARO Facciamo colazione in hotel, poi ci dedichiamo alla visita della città, con il bel centro storico e le chiese coloniali. Ci concediamo una siesta pomeridiana, poi riprendiamo la visita: Santa Rosa di Viterbo, los arcos (l'acquedotto), e Santa Cruz con una visita guidata. Torniamo in centro e ceniamo alla Fonda El rifugio: mangiamo filetto al pepe (come consigliato dalla guida Clup) e jamon serrano. Tutto buono. Poi, ormai siamo lanciati, flan in piazza.
7 agosto - Queretaro – SAN MIGUEL ALLENDE - QUERETARO Prendiamo il bus per San Miguel Allende. La città è carina, ma ci sono molti lavori in corso e troviamo i ristoranti molto cari. Mangiamo un sandwich in una cafeteria. Visitiamo le chiese, tra cui la Parroquia, di un post-gotico interpretato alla messicana, una mostra al Museo Allende, ecc. Minaccia temporale, le prime gocce cadono come frustate. Fuggiamo senza vedere senza vedere come si evolverà la situazione. Tornati a Queretaro, ci ripresentiamo al Refugio, con alcune spiacevoli sorprese: il menù non è disponibile, i prezzi sono aumentati, il servizio rallentato, il conto oscuro. Mangiamo spaghetti Alfredo e filetto Roquefort. Il cameriere è un tipo: gira con la camicia sbrindellata fuori dai pantaloni, finisce la Coca avanzata dai clienti nei bicchieri, e rabbocca le ciotole del pop corn con quello che si è sparpagliato sul tavolo. Nel patio barocco dell'Università partecipiamo all'inaugurazione della mostra di Pablo O'Higgins e bevo vino bianco freddo. Visitiamo un bellissimo teatrino in un cortile e mangiamo un gelato al pay de lemon. In piazza, per $ 3, compriamo la visione di un pezzo di cielo. Al telescopio guardiamo Giove e le sue lune, poi andiamo a dormire.
8 agosto - QUERETARO – CIUDAD DE MEXICO Ci facciamo portare in taxi alla central camionera. Faccio una telefonata a casa, ed è la fregatura della vacanza: la telefonata mi costa $ 72! Prendiamo un bus della Primera Plus. A bordo danno un film messicano assurdo, con un eroe mariachi e un titolo impagabile (“Jalisco non pierde nunca”). Arriviamo a Mexico immersa in una caligine allucinante. Depositiamo i bagagli alla stazione ($23 per 24h) e prendiamo la metro per il centro ($ 1,5). Ci sistemiamo all'Hotel Montecarlo: secondo la Clup ci ha dormito anche Lawrence. Siamo a Ciudad Mexico, a distanza di circa tredici mesi dalla nostra prima visita. Facciamo un giro per il centro, cominciando dallo Zocalo, poi in Plaza San Domingo (dove ci sono gli stampatori e sotto i portici i dattilografi al servizio del pubblico) e in Plaza Garibaldi, spettacolare punto di riunione dei mariachi, dove per tutta l'estensione della piazza si raggruppano decine e decine di bande di mariachi in costume da mariachi. Tentiamo di raggiungere Plaza Tres Culturas in metro, ma poi ci rinunciamo: troppo caldo, troppa stanchezza, troppi cambi, troppa folla. Ci riposiamo invece un po' all'Alameda, dove aggiorno il diario, guardiamo gli arcobaleni sull'acqua della fontana e ci rinfreschiamo la gola con un gelato alla piña colada. C'è un temporale in arrivo. Prendiamo un aperitivo sulla terrazza al settimo piano dell'Hotel Majestic, margarita e naranjada, mentre sulla città comincia a scendere la pioggia. Vicino a noi, una coppia in crisi come nei romanzi di Bowles o di Lowry: lei fa cadere tutto, barcolla, le bibite schizzano sullo specchio. A cena, per uno strano sentimentalismo, forse perché ci piace il nome, torniamo al Cafè Popular, dalla mitica aria dimessa, e alcuni cerchi si chiudono: abbiamo cenato qui il 14 luglio dell'anno scorso, all'inizio della nostra prima campagna messicana, e nel locale, nel modo più improbabile, incontriamo una delle ragazze portoricane “me gusta a ti!”, a distanza di migliaia di chilometri da Creel, dove ci siamo conosciuti, e in mezzo a una megalopoli di 20 milioni di persone. Ci stupiamo e ci rallegriamo reciprocamente dell'improbabile incontro; lei vive qui a Mexico City, dove studia arte. Mangiamo messicano e popular: un consommè di pollo con uovo, sopa azteca, ecc., e per finire, una doverosa porzione di platanos fritos con crema.
Qui, con una porzione di platanos fritos con crema e un improbabile incontro, si interrompono gli appunti di viaggio, presi 21 anni fa, alla vigilia del viaggio di ritorno in Italia. Nel trascriverli e ristrutturarli, ho provato una nostalgia divertita e quasi dolorosa.