Dove voliamo verso gli Usa, rispondo a sproposito, penso con orrore al cibo messicano, e dove l'albergo è pieno e la città degli angeli è vuota.11 luglio, giorno 1: Sesto San Giovanni, Malpensa, Washington Airport, Los Angeles Il progetto è arrivare a Los Angeles, dove non abbiamo intenzione di fermarci molto, entrare in Messico da San Diego, attraversare in lunghezza la penisola della Bassa California, quindi riguadagnare il continente e discendere con varie tappe fino a Città del Messico, da cui ritorneremo in Italia. Se tutto va bene sommando questo viaggio a quello dell’anno scorso alla fine avremo attraversato via terra il centro America da Los Angeles al Guatemala in latitudine, dalla costa pacifica al Mar del Caraibi dello Yucatan in longitudine. Ci accompagnano all’aereoporto Raffaele e papà. L’aereo parte da Malpensa alle 12.15. A bordo Alessandra chiacchiera col vicino; Mauro invece, quando passa lo steward col pranzo e chiede “Chicken or veal?”, chissà come e perché (mal d’altitudine, emozione di inizio viaggio, scarsa conoscenza effettiva delle lingue straniere?), risponde incongruo ma impavido: “Two Cokes”. Tra l’altro realizzo solo in aereo, con sgomento, che sto per affrontare un altro mese (dopo quello dell’anno scorso, tra Città del Messico, Chiapas, Yucatan e Guatemala) di cibo messicano, pasticciato, piccante, pieno di fagioli, che io non amo. Mi viene la nausea al solo pensiero. Per dire, la mattina vi alzate per andare a fare colazione e capita di vedere persone sedute al tavolo che alle 8 di mattina sbafano bistecche con intingoli e montagne di fagioli mentre sul pavimento sgambettano gli scarafaggi (oddio, forse faccio male a dirlo, e poi a viaggio non ancora iniziato, ma è successo veramente). Ma oramai. Guardo due film: “La stanza di Marvin”, doppiato, e “Absolute Power”, non doppiato, di cui capisco quel che capisco. Siamo a Washington alle 15.30 (che per noi sarebbero le 21), ma partiamo alle 19.15, anziché alle 17.15 come previsto. Atterriamo a Los Angeles alle 21.30. Per noi sono le 6 e mezza del mattino. Usciamo dall’aeroporto, è buio, disdegniamo l’ovvia e facile soluzione di un banale taxi che ci porti in albergo e prendiamo prima lo shuttle gratuito che ci porta al Lot C, poi, dopo aver compulsato orari e tragitti, un bus Big Blue che per 50 cent ci porta fino in Pico Boulevard, e poi un altro (per altri 50 cent) che discende Pico fino all’hotel che abbiamo prenotato da casa. Un’autista nera e corpulenta, impietosita, ci dà indicazioni e forse fa perfino una minuscola deviazione per lasciarci al posto giusto. Los Angeles ci è apparsa finora sotto forma di vialoni vuoti e piuttosto squallidi. Entriamo in albergo, tiriamo fuori le nostre prenotazioni e ci disponiamo ad aspettare fiduciosi che ci venga assegnata la stanza per il meritato riposo. Così non è: la stanza che abbiamo prenotato non c’è più. Overbooking, o, vista l’ora, pensavano che non ci presentassimo più e hanno dato la camera ad altri. E’ così che scopro come per incanto di ricordarmi qualcosa d’inglese (altro che chicken or veal?-two cokes!), sufficiente per intavolare una discussione in cui sostanzialmente ribadisco che abbiamo regolarmente prenotato la stanza, sottolineo che l’abbiamo pure pagata (138 dollari, per la precisione), e insisto sul dire che non ci muoveremo di lì finché non trovano una soluzione “It’s your problem”, sostengo, ma il problema in realtà è nostro, visto che il pensiero di tornare con i nostri bagagli sui boulevard deserti e spopolati mi inorridisce. L’impiegato non sembra particolarmente colpito dalla mia determinazione, ma alla fine fa qualche telefonata e ci trova una camera in un altro Travel Lodge in Santa Monica Blvd. Comincia un’altra discussione perché a quel punto la rivendicazione si orienta sul fatto che sono loro che ci devono portare lì. Siamo in ballo da quasi 24 ore e siamo piuttosto defatigati. Alla fine il socio indiano (“Take it easy”), prende le chiavi della macchina e ci accompagna. Breve tragitto nell’elettrizzante città degli angeli, mortalmente deserta, poi andiamo a dormire, ad un’ora imprecisata della notte, o del mattino, non sapremmo dire di quale giorno.
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Dove troviamo un po' di Venezia a Los Angeles e un po' di lago di Como a Beverly Hills; dove incontriamo Minnie e Topolino veri e Stanlio e Ollio vivi; dove veniamo aggrediti da squali e gorilla giganti; dove scendiamo in metropolitana ma c'è un terremoto ed entriamo in fabbrica ma c'è un incendio; ma alla fine sopravviviamo a tutto, anche a Jurassic Park.12 luglio, giorno 2 LOS ANGELES Facciamo colazione in albergo e acquistiamo un’escursione Vip: visita di Los Angeles + Universal Studios per 72 dollari a testa. Durante la mattinata visitiamo Marina del Rey con il Fisherman Village, Venice, con la sua spiaggia, i suoi murales e i suoi tipi umani (per dire, una ragazza va a spasso con un maiale al guinzaglio), Bel Air e Beverly Hills, dove sfiliamo in bus tra le dimore dei ricchi e famosi, in genere occultate dietro impenetrabili muri di recinzione, sistemi di allarme, cani presumibilmente feroci e guardiani presumibilmente altrettanto cattivi. Lo speaker sull’autobus nomina varie celebrità: alcune le conosciamo, alcune no (probabilmente personaggi della televisione o dello sport); ci impressiona comunque moltissimo che alcune delle strade più ricche e famose del mondo portino i nomi di paesetti del nostro lago di Como (ci viene il dubbio che dovremmo guardarlo con altri occhi meno abitudinari). Ci facciamo un hot dog al Farmer market, poi siamo a Hollywood: camminiamo sulla Walk of Fame (un marciapiede con delle impronte, la fantasia supera di gran lunga la realtà), diamo un’occhiata al Chinese Theatre, guardiamo il panorama dalla collina. E’ quindi la volta degli Universal Studios. Saremmo un po’ degli snob di sinistra che dovrebbero schifare questi divertimentifici nazionalpopolari, ma confessiamo che in realtà ci divertiamo parecchio. Tanto per cominciare, per strada si incontrano tipi come Topolino e Minnie, o Stallio e Ollio, che già è una bella soddisfazione. Poi si può scegliere tra diversi attrazioni: noi ci regoliamo anche in base alla consistenza delle code: che a volte sono molte lunghe e richiedono lente attese sotto il sole, a volte alleviate da vapore irrorato da appositi erogatori. Prendiamo un trenino che fa un giro animato degli studios: lungo il percorso si incontrano diversi set (ad es. la Cap Cove funestata dalla presenza mortifera della signora Fletcher, alias signora in giallo) - con musiche che aiutano a riconoscere le attribuzioni -, con strade, facciate di case di varie epoche, ecc. Lungo il percorso si incrociano anche diversi personaggi, alcuni davvero poco raccomandabili, come King Kong o lo Squalo che balza all’improvviso verso il trenino. E’ particolarmente impressionante la sosta nella fermata della metropolitana; ad un certo punto il terremoto squassa la terra, il soffitto si squarcia verso la strada da dove automobili rischiano di precipitare di sotto, gli impianti elettrici impazziscono, le luci barbagliano e si spengono, i cavi spezzati mandano scintille, e alla fine il treno all’arrivo nella stazione deraglia e si schianta contro le colonne di cemento. Il tutto a grandezza naturale, e a pochi metri da noi. Ragazzi! Mentre il treno si riavvia per uscire dalla stazione i meccanismi riportano tutto alla normalità della situazione che avevamo trovato arrivando. Ragazzi. A Jurassic Park attraversiamo la jungla su un gommone collettivo, mentre dinosauri animati in grandezza naturale fanno capolino tra il fogliame. Alla fine sfuggiamo all’assalto di un tyrannosaurus rex precipitando verticalmente lungo una cascata di 25 metri (84 feet), sollevando spruzzi altrettanto alti. All'uscita, bagnati, si può acquistare la maglietta con la scritta “I survived Jurassic Park” o la fotografia scattata durante la caduta. Molti precipitano alzando le braccia e con un’espressione di goduria sul volto. Guardiamo a distanza un po’ di gente che precipita, poi entriamo in “Backdraft”: il film di riferimento in Italia si intitolava “Fuoco assassino”. Si entra in un grande capannone industriale e ci si sistema lungo i lati su passerelle di metallo. Poi scoppia l’incendio, in diversi punti della fabbrica si alzano fiamme alte anche parecchie metri, scattano i dispositivi antincendio e l’acqua spruzza dall’alto, mentre il calore del fuoco mette a rischio le passerelle su cui ci troviamo che danno segni di cedimento. Ad incendio spento si esce, un po’ avvampati e un po’ umidi, mentre tutto torna meccanicamente a posto in attesa del prossimo turno di visitatori. Mi sono dilungato un po’ troppo, nevvero? Ci riportano in hotel. C’è il problema cena, intorno all’albergo non si vede granché, alla fine andiamo in un ristorante libanese lì nei pressi, mangiamo bene e poi andiamo a dormire. Dove vaghiamo tra bus station e homeless, dove visitiamo il quartiere dalle lampade a gas e assistiamo al Festival delle isole del Pacifico, dove facciamo il bagno nel grande oceano e avvistiamo un piccolo colibrì.13 luglio, giorno 3 Los Angeles – SAN DIEGO Il programma è lasciare Los Angeles per San Diego, ma la cosa si rivela meno facile del previsto. Proviamo a telefonare alla Greyhound, ma senza costrutto, anche perché i numeri telefonici sono cambiati. Intanto telefono a casa (4 dollari), poi tiriamo su le nostre cose e ci muoviamo. Prendiamo un autobus e andiamo alla stazione Greyhound di Hollywood. Strade e parcheggi (sarà così anche a San Diego) sono piene di homeless, la stazione è sgarruppata, le impiegate sono antipatiche, e di autobus ne partono pochi. Prendiamo un altro autobus per Downtown, poi un terzo bus per la stazione Greyhound, in una zona depressa e tra i senza tetto. Però almeno si parte. Facciamo il biglietto per 12 dollari e ci imbarchiamo. Arrivati a San Diego raggiungiamo a piedi il Thriff Lodge (dove paghiamo la camera doppia 93 dollari), che risulta essere non lontano ma neppure centrale. Dopo un riposino usciamo verso il centro. Visitiamo il Gaslamp Quartier, il vecchio nucleo di SD (il nome fa riferimento alle lampade a gas del tempo), prima caduto in depressione, ora ripulito, rimesso in sesto e recuperato. Tra le molte case vittoriane restaurate si affacciano negozi e ristoranti e la zona è piacevolmente animata. Bello anche il Seaport Village, anche perché vi si sta svolgendo il Pacific Island Festival. Rimaniamo un po' a guardare i balli e ad ascoltare i canti di Samoa ed altre isole lontane (da qui un po’ meno), poi torniamo verso il centro, passiamo per il Planet Hollywood, l’Horton Plaza (nel centro commerciale ci sono grandi dinosauri scolpiti nella sabbia). Di ritorno a Gaslamp e per una trentina di dollari ceniamo da Buffalo Joe: ribs all you can eat (cioè costine a volontà) e musica blues con Withey Conwell. I mezzi urbani (trolley e bus) sono ottimi; torniamo in albergo. 14 luglio, giorno 4 SAN DIEGO Colazione da Jack in the Box (i fast food qui hanno un'aria piuttosto dimessa e sembrano frequentati da persone che contano i dollari che hanno in tasca prima di andare a mangiare) con cake e orange juice. In trolley a Old Town: saliamo sulla Presidio Hill, dove più che il panorama si vedono le case dei ricchi. Poi al Balboa Park: architetture spagnoleggianti in stile barocco-coloniale rifatte, giardino botanico e Palm Canyon, dove avvistiamo un colibrì. Facciamo uno spuntino, mangiamo un gelato ricoperto con cioccolato e granella, poi ci spostiamo in autobus verso Mission Beach. E’ una spiaggia non grande, abbastanza affollata, dove ci facciamo un piccolo bagno nel grande Oceano Pacifico. Raggiungiamo i moli per il tramonto, ma il cielo non si dà da fare più di tanto. Le catene della ristorazione si fanno guerra a forza di promozioni; mangiamo da Burger King spendendo circa 8 dollari. Dove un albino ci fa passare il confine e un uomo armato chiacchiera con noi di Baggio e di Versace; dove guardiamo un film su un bus che attraversa il deserto su un bus che attraversa il deserto; dove non possiamo portare pistole in albergo e neppure gettare bottiglie dalle finestre; dove l'altoparlante parla solo per noi, dove vediamo un geyser messicano; e dove ci sono serpenti morti, uccelli marini, granchi, leoni, scimmie, cani randagi. Benvenuti in Messico.15 luglio, giorno 5 San Diego - ENSENADA In trolley raggiungiamo il confine a San Isidro. Varchiamo la frontiera (nel senso di marcia più facile): l’ufficiale messicano è un albino dall’aria molto simpatica. Ci rendiamo conto che i messicani che cercano di attraversare nell'altro senso probabilmente non incontreranno altrettanta bonomia e buonumore. Siamo nella famigerata Tijuana. Andiamo in banca per cominciare a cambiare qualche soldo e anche qui la guardia armata è molto simpatica, e, sentito che siamo italiani, ci attacca un bottone parlandoci di Roberto Baggio e, cosa che ci stupisce abbastanza, di Gianni Versace. Siamo appena arrivati in Mexico e non abbiamo ancora l’orecchio; non capiamo tutto quello che dice e scopriremo solo a posteriori che la notizia è che Versace è morto oggi stesso a Miami Beach. Ci allontaniamo subito dal confine con un bus diretto a Ensenada, sulla costa (biglietto a 44 $ cadauno). Attraversiamo paesaggi senza interesse, la cosa più notevole che sul bus che attraversa il deserto fanno “Priscilla”, che parla di un bus che attraversa il deserto… A Ensenada chiediamo informazioni ad un ragazzo: anche lui è simpatico e ha studiato in Italia. Al Motel Caribe affittiamo un stanza per 120 $. Dei cartelli invitano i turisti americani a non portare pistole in camera, a non buttare bottiglie dalle finestre, ecc. Facciamo un giro per cercare una banca ed informazioni sui mezzi per spostarci. La città è piuttosto sporca, in un drugstore vediamo un tizio con un serpente morto. Ceniamo da Mary, per 62 $: l’ambiente è dimesso ma il cibo non è male. 16 luglio, giorno 6 ENSENADA – BUFADORA – PLAYA EL FARO - ENSENADA Compriamo una carta telefonica da 35 $, telefoniamo ad Angelo e gli lasciamo un messaggio in segreteria telefonica. Andiamo alla Bufadora: non con i tour organizzati (no sia mai), ma per conto nostro. Prendiamo i minibus locali; a Maneadero, in una stazione d’autobus talmente dimessa che non la fotografo per pudore, vaghiamo nel cortile tra i vari marciapiedi, mentre l’altoparlante dice, a nostro esclusivo uso e consumo: “Salida de numero ocho por la Bufadora… ocho. Non diez ocho, ocho!”. Troppo carini. Ci fanno sorridere. Alla Bufadora le onda si insinuano tra gli scogli e producono un potente getto d’acqua e vapore, tipo geyser, molto apprezzato da noi turisti. Carino, ma il tempo è nuvoloso e brutto, il posto intorno anche. Alle tiendas prendiamo churros e Coca Cola. Con altri minibus raggiungiamo la Playa El Faro. Il cielo è nuvoloso e tira un vento freddo, ma poi esce il sole. C’è la spiaggia, la laguna, molti uccelli di molte specie diverse, molti granchi e, all’entrata della spiaggia, una scimmia e un leone. Facciamo il bagno. Ad Ensenada, cena al Molokay: tacos, filetto di pesce con asparagi e vino bianco. Conto sui 100 $, e con un po’ di taco facciamo felice anche un cane di passaggio che ci palesa la sua riconoscenza. Dove di fianco a noi vediamo sfilare i cactus e la spazzatura del deserto; dove mangiamo i migliori hot dog della nostra vita; dove non vediamo balene, né vecchie missioni, né incisioni rupestri, ma dove incrociamo inaspettatamente Gustav Eiffel e la sua passione per il ferro; dove tutto è polvere, ma noi mangiamo Fettuccini all'Alfredo della Kraft in un posto pulito, illuminato bene.17 luglio, giorno 7 Ensenada – GUERRERO NEGRO Partenza in bus per Guerrero Negro. Scenderemo lungo l'affusolata penisola desertica della Baja California lungo la Carretera Federal n. 1, che la percorre tutta da nord a sud, e da sud rientreremo poi in continente. L’anno scorso abbiamo scoperto che i trasporti su strada in Mexico sono abbastanza buoni. Innumerevoli compagnie private percorrono il territorio con bus in generale confortevoli e ben tenuti, spesso Mercedes, e a bordo spesso ci sono televisori dove vengono trasmessi film videoregistrati. Per raggiungere le località minori ci sono bus locali, che vanno un po’ dovunque; ovviamente la qualità dei mezzi è più modesta; nei centri urbani o per i collegamenti con stazioni di autobus o ferroviarie o aeroporti in genere i mezzi più usati sono colectivos, furgoncini con percorsi più o meno fissi ed orari abbastanza variabili, che in genere partono solo quando sono pieni (e talvolta lo sono troppo). Intanto dai finestrini del bus si vede un paesaggio brutto e sporco, poi da El Rosalito comincia il deserto vero e duro, lungo mille chilometri, che arriva fino ai Cabos. Colline pietrose, cactus di tutti i generi, forme e dimensioni (alcuni alti svariati metri), la strada bordata da cordoni di spazzatura, evidentemente lasciati o gettati dagli automobilisti di passaggio. Poi carcasse di automobili, qualche croce, qualche colorato e surreale cartellone della Tecate (la birra locale) sullo sfondo del nulla, qualche rapace che volteggia nel cielo. Facciamo una sosta di mezz’ora, ma il bus se ne va e lo aspettiamo per un’ora. Il paesaggio ha un suo fascino brutale, ma dopo dieci ore di viaggio diventa decisamente monotono. Quando arriviamo a Guerrero Negro cala il buio. Siamo su uno stradone senza punti di riferimento. Prendiamo per 120 $ una camera al Motel San Ignacio, ma prima facciamo una cena memorabile davanti a d un baracchino sui bordi dello stradone desolato: preparati con amore e professionalità, i più succulenti hot dog (o meglio perros calientes) che la nostra memoria ricordi. 18 luglio, giorno 8 Guerrero Negro – SANTA ROSALIA Camminata per cercare una banca. Guerrero Negro ha un nome suggestivo, ma non è migliorata alla luce del giorno: attraversata da stradoni senza senso sotto il sole del deserto. Non è stagione di passaggio delle balene, che ogni anno tornano da queste parti per le loro storie migratorie e riproduttive, e perciò i voli per Isla Cedros sono sospesi e non c’è niente da fare né da vedere. Cominciamo già a sospettare che la traversata della Baja California non sia stata un’idea brillante. Aspettiamo in motel, poi ci imbarchiamo sul bus per Santa Rosalia. Attraversiamo il Desierto de Vizcaino; il paesaggio è più o meno come quello di ieri, con in più forse delle alture vulcaniche. A parte le balene – che non ci sono -, da queste parti ci sarebbero da vedere dei siti con incisioni rupestri, vecchi missioni spagnole, e ambienti naturali particolari; ma spostandosi con il bus da un centro all’altro senza poter disporre di un mezzo proprio è difficile fare e vedere qualsiasi cosa. L’arrivo a Santa Rosalia è sufficientemente western: luce del tramonto, capannoni delle miniere, case di legno, strade non asfaltate, polvere dovunque. E intendo dovunque: le strade sono polverose, le auto e i furgoni alzano nugoli di polvere che oscurano la vista e si depositano poi dappertutto strato su strato. Prendiamo una camera all’Olvera, 120 $. Usciamo ma il caldo è terribile. Santa Rosalia è infilata in un piccolo canyon tra alture rocciose, una sorta di rovente fornace, e il mare è brutto. Vediamo una chiesetta in ferro costruita da Eiffel, lo stesso della torre parigina, assistiamo ad una partitella di basket, poi ci rifugiamo nella pizzeria Fabula. Una pizzeria, sì: un posto pulito, illuminato bene (per citare il vecchio Hemingway), dipinto a colori vivaci. Con fuori e intorno Santa Rosalia, sembra un bel sogno. Queso fundido e fettuccini all’Alfredo con Parmesano (prodotto dalla Kraft negli Stati Uniti). Un bel momento; ma poi in albergo una notte orribile con ventilatore a manetta e, nonostante questo, caldo insopportabile. Dove il sole è malato e dove fuggiamo di primo mattino; dove navighiamo tra foche e leoni marini; e dove la missione compie trecento anni e i ballerini collassano.19 luglio, giorno 9 Santa Rosalia - LORETO La mattina il sole sorge rosso e già corrotto e malato proprio davanti alla nostra finestra, a farsi beffe della nostra confusione e della nostra insonne stanchezza. Fuggiamo da Santa Rosalia con l’autobus del mattino, sprofondando sempre di più verso la parte meridionale della penisola. Alla stazione degli autobus chiacchiero un po’ in inglese con un signore di Mulegè, forse americano. Di nuovo cactus e deserto, ma anche suggestivi scorci su irraggiungibili spiagge da sogno. In autobus mandano una commedia di Michael Lehmann con Uma Thurman, il cui titolo messicano suona “La verdad acerca de perros y gatos”. Alla stazione degli autobus di Loreto prendiamo un taxi per il centro e una camera all’Hotel Junipero. 190 $, una bella stanza con aria condizionata. Andiamo in spiaggia e facciamo il bagno. Poi ci guardiamo un po’ in giro: l’escursione all’isola Coronado costa parecchio (85 dollari). Ceniamo, da soli, a “La terrazza”. E dopo cena, spettacolo di musica e danze popolari (dell’escuela preparatoria Cardenas) per i festeggiamenti del tricentenario della missione di Loreto. Bello e divertente, poi dopo l’ultimo passo dell’ultimo ballo uno dei ballerini collassa. Gli fanno aria, poi lo portano via. Speriamo bene. Intanto abbiamo chiacchierato un po’ con due italiani che stanno facendo più o meno il giro inverso al nostro: Chihuahua, la Barranca, la Baja California; ora sono in partenza per Ensenada; ma anche loro sono delusi dalla Baja: pochi turisti, prezzi alti, ecc. E non sanno quelli che li aspetta. 20 luglio, giorno 10 LORETO – ISLA CORONADO - LORETO Sulla spiaggia contrattiamo un’escursione all’Isla Coronado per 40 dolares, che è meno della metà di quanto la vendono nelle agenzie. Ci imbarchiamo su un motoscafo veloce, che cavalca le onde saltando e prendendo botte contro l’acqua. Facciamo il giro dell’isola: si vedono pesci, uccelli marini e poi (hoink hoink), foche e leoni marini, sulle rocce e in acqua. Abbiamo il piacere di fare il bagno in una bella spiaggia deserta dalla sabbia chiara, poi “ride” di ritorno. Dopo un riposino andiamo in spiaggia e mangiamo tra l’altro un ottimo flan con liquore e uvetta. A cena andiamo in un ristorante vicino all’albergo, dove mangiamo almea – conchiglie – e granchi. Poi seconda serata di spettacolo per il tricentenario. Bello, come ieri sera, nel senso che anche stasera uno dei ballerini crolla. Deve essere una tradizione legata all’antica missione di Loreto. Dove i pesci saltano fuori dall'acqua, raggiungiamo la paz, approdiamo alla Pension California, non miriamo la stufa però il tramonto è favoloso.21 luglio, giorno 11 LORETO – LA PAZ Ultima mattinata a Loreto. Andiamo in una spiaggia a sud della città. Facciamo il bagno nel mare del Golfo di California; davanti a noi i pesci saltano fuori dall’acqua. Una doccia, un salto in banca, e poi siamo pronti per la partenza. Mangiamo uova al tocino e omelette e chiacchieriamo con un viaggiatore solitario, poi ci imbarchiamo alla volta di La Paz. Fa caldo e a bordo non c’è aria condizionata, e neppure film. In compenso il paesaggio fuori dai finestrini è bello, montagne rocciose e deserte, ma anche begli scorci di mare e spiagge. A La Paz prendiamo un taxi verso il centro; dopo aver visionato diversi tuguri improponibili approdiamo alla Pension California. C’è un cortile dipinto di rosso, bianco e celeste; ai muri sono appesi quadri, gusci di tartaruga e piccoli coccodrilli. Poi c’è un pappagallo (vivo), una televisione, una lavatrice, una cucina. Alessandra chiede informazioni sull’habitacion, la tipa dice che c’è anche la stufa per cucinare. Alessandra chiede “Se puede mirar?” e la tipa risponde stupita “La stufa?!”. Ridiamo; la camera è disadorna, bianca e celeste, con ventilatore al soffitto, e costa 95 $. La prendiamo. Usciamo per fare un giro per La Paz. Il tramonto è molto bello; siamo sulla costa della penisola rivolta ad est, che però in questo punto si arricciola all’indietro, cosicché LP è in grado di offrire una serie di spettacolosi tramonti. Ma fa troppo caldo, per cui saltiamo la cena a favore di un gelato da Bing. Prendiamo un po’ di informazioni, in un’agenzia turistica sulle escursioni, e all’ufficio del turismo sulle spiagge. Nei dintorni di La Paz ci sono una serie di spiagge tra mare e deserto, e ci daremo da fare per visitarne un po’. Dove diamo i nomi ai pesci e dove loro ci mordicchiano i polpacci; dove i cactus vanno al mare, dove Alessandra deve svuotare i bicchieri, dove le navi sono piene ma gli aerei no; dove incontriamo una strana mamma capace di portare due o tre bambini su un elefante e di abbandonarli ad una sconosciuta; e dove le notti sono davvero molto calde.22 luglio, giorno 12 LA PAZ – PLAYA DE PICHILINGUE – LA PAZ Prendiamo un bus per Pichilingue (per 10 $), dove c’è il porto per il ferry, e a piedi raggiungiamo la spiaggia omonima. E’ bella: sabbia chiara, acqua trasparente, bar ristorante sulla spiaggia con ombra e rinfreschi. Inauguro una serie di bellissimi bagni con la maschera. Vediamo un sacco di pesci, ai quali, per la nostra ignoranza, attribuiamo nomi di fantasia. Si chiamano, ad esempio, a seconda della forma e del colore: pesci tigre, pesci siringa, pesci istrice, pesci metrò, pesci senza nome, e così via; e inoltre conchiglie e granchi. Facciamo uno spuntino al bar della spiaggia con insalata di tonno. Come succede spesso da queste parti c’è una laguna interna, dove avvistiamo dei trampolieri. Salgo su una collinetta per fare una foto: il paesaggio è molto particolare e selvaggio, con il deserto che incombe e che si spinge con tanto di cactus quasi fino al mare. Altri bagni, poi ritorno col bus. Alla pensione facciamo conoscenza con una tipa strana. E’ italiana, ed è in giro con tre bambini neri, di età varie. Conversando con lei scopriamo che: 1) abita dietro il duomo di Cremona; 2) insegna; è una precaria: abilitata in inglese, laureata in francese, insegna spagnolo; 3) varie altre cose su cui si diffonde nelle seguenti giornate (vi ho rovinato la sorpresa anticipando che la rincontreremo?). Non scopriremo mai se esista un padre dei tre bambini (ammesso che lei sia la madre) e se sì dove si trovi (ora, ma anche quando lei portava i bimbi sull’elefante in Thailandia…). A quanto capiamo le sue vacanze, o viaggi, o avventure o disavventure, durano mesi e spaziano nei continenti. Siamo decisamente incuriositi. Cena a base di hamburger sul lungomare. Ma le notti sono caldissime, si dorme a fatica. 23 luglio, giorno 13 LA PAZ – PLAYA EL TESORO – LA PAZ Per prima cosa andiamo alla Sematur per prenotare il traghetto che attraversa il Golfo, ma ci rispondono che, a causa anche delle vacanze scolastiche, non c’è posto per una settimana intera! Ci precipitiamo quindi in un’agenzia di viaggio e cerchiamo un aereo che ci riporti sul continente. Per circa 500 $ prenotiamo un volo per il 26, e Alessandra sventa un tentativo di sabotaggio dell’impiegata che per errore sta va per farci volare a Mazatlan anziché Los Mochis. Abbiamo rinunciato a raggiungere Los Cabos (ovvero Cabo San Lucas e San Josè del Cabo), un po’ dando credito ai giudizi snob della guida Clup (e quasi sicuramente è un gigantesco errore che ci fa perdere forse la parte migliore della zona), un po’ perché il tempo è quello che è, e un po’ perché alla Baja California ci sembra di aver già dato una parte sufficiente di noi stessi. Sistemato il piano di esodo dalla Baja, possiamo rilassarci e prendercela comoda. Alessandra si beve il primo di una serie di licuados, una sorta di ricco frappè. Una signora glielo versa dal bicchierone dove l’ha appena preparato, ma non ci sta tutto nel bicchiere. Alessandra dice che va bene così, ma la tipa le impone autoritariamente “Tomalo”. Ale beve per svuotare un po’ il bicchiere, ma non è sufficiente. La signora non è soddisfatta finché Alessandra non ha bevuto per la seconda volta, e poi per la terza volta, in modo da poter svuotare tutto il contenitore del licuado nel suo bicchiere. I suoi autoritari “tomalo” diventeranno proverbiali. Una variante dei licuados sono le acuas, probabilmente meno sostanziose. Prendiamo un bus per Playa El Tesoro, che si rivela più piccola di Pichilingue, ma molto carina, con acqua bassissima e pesciolini che vengono a mordicchiarti amichevolmente i polpacci. Al ritorno passiamo dall’hotel da dove ci hanno detto parte un trasporto gratuito per Playa Tecolote e prendiamo accordi. Ceniamo su un ristorante sul mare: buono, ma il servizio è lento. Mangiamo sopa de tortillas e pescado relleno de mariscos. In hotel ritroviamo la cremonese che sta mangiando corn flakes al cioccolato insieme alla bambina più grande. Scopriamo quindi che: 1) è stata a Cabo San Lucas che le è piaciuta e ha deciso di trasferirsi lì per un mese, mandando a monte un complicatissimo piano di viaggio (Barranca del Cobre + Oaxaca per la fiesta + Caribe per il mare) che ci aveva esposto solo la sera prima! 2) trovata casa per 600 dollari al mese, ha abbandonato lì i bambini più piccoli ad una signora appena conosciuta. Le esperienze di viaggio precedenti (Mexico, Cuba, Puerto Rico, Venezuela) includono anche un viaggio in Thailandia dove a) il piccolo Quincey (nove mesi all’epoca) ha imparato a camminare sulla spiaggia di Koh Samui (il suo equilibrio motorio ne ha risentito un pochino); b) a Chiang Mai (ci siamo stati e sappiamo di cosa parla: le nostre esperienze più pertinenti sono le torrenziali piogge monsoniche e un giretto da pensionati su un elefante turistico) ha portato i tre figli, piccoli e/o piccolissimi su un elefante che saliva su una montagna: alla fine, pur riluttante, ha dovuto affidare Quincey al conduttore, poiché da sola non riusciva più a tenere tre bambini insieme. Siamo sotto shock, in compenso avremo un argomento di conversazione per settimane e un aneddoto da raccontare per anni. Le notti sono sempre eccessive: Alessandra decide di dormire sul pavimento, giusto sotto il ventilatore che spazza l’aria calda. Dove salutiamo la cremonese e dove facciamo i pr per l'escursione; dove la macchina fotografica smette di funzionare nel momento più eclatante delle nostre vacanze di tutti i tempi e dove facciamo il bagno più incredibile della nostra vita.24 luglio, giorno 14 LA PAZ – PLAYA TECOLOTE – ISLA ESPIRITU SANTU (LOS ISLOTES, PLAYA ENSENADA GRANDE) - LA PAZ Incontriamo la cremonese: è stata alla Sematur a prenotare il ritorno per settembre e sta partendo per San Lucas. Ci salutiamo e ci chiederemo per sempre dove sia finita, lei e i suoi sciagurati (o fortunati?) bambini. Quindi ci presentiamo all’hotel e un minibus ci porta effettivamente a Playa Tecolote, una spiaggia organizzata. Nella vetrina di un bar sulla spiaggia vediamo la pubblicità di un’escursione che a suo dire porterebbe in un posto dove si può fare il bagno insieme ai lobos marinos. Abbiamo i nostri dubbi, malgrado le fotografie messe lì a scopo dimostrativo, ma dopo esserci sistemati sotto una palapa non resistiamo alla curiosità e andiamo a parlare con gli organizzatori, che ci assicurano che è proprio così. Costa 200 $, ma non si parte se non si raggiunge un numero minimo. Siamo solo noi; ma decidiamo che un’occasione così non ci ricapiterà facilmente e così cominciamo a battere la spiaggia cercando di convincere indolenti messicani sprofondati nel proprio riposo ad unirsi a noi. Incredibilmente, la cosa funziona, convinciamo un padre di famiglia inizialmente riluttante e riusciamo a mettere insieme un gruppetto, con adulti e bambini. Torniamo quindi trionfanti dai barcaioli e partiamo su una lancia a motore provvista anche di una tenda per l’ombra. Costeggiamo la parte orientale dell'Isla Espiritu Santu, che si rivela piuttosto noiosa. Ma poi arriviamo a Los Islotes, scogli rocciosi all’estremità dell’isola. E’ un posto assolutamente deserto, desolato e selvaggio, senza costruzioni o esseri umani in vista. E qui succedono due cose memorabili, una brutta e una bella; rispettivamente: a) la macchina fotografica (una Voigtlander che mi ha affidato mio papà e che in vita da quattro anni più di me), che già a Loreto aveva preso una botta, decide di smettere di funzionare in uno dei momenti più eclatanti delle nostre vacanze di tutti i tempi e di tutti i paesi; b) facciamo la nuotata più incredibile della nostra vita. Il posto è pieno di foche e leoni marini, ma io sono talmente scioccato e depresso dalla rottura della macchina fotografica che non vorrei nemmeno scendere dalla barca. Per fortuna Alessandra mantiene il sangue freddo, mi chiede se sono scemo e mi ricorda quanto è poco probabile avere di nuovo un'occasione simile. Alla fine, sia pur riluttante, mi infilo maschera subacquea e giubbotto salvagente (ottimo: così posso guardarmi in giro con più spensieratezza senza temere di affogare), scendo dalla barca e raggiungo Alessandra che si era già avventurata da sola nell'acqua affollata di pachidermi. Guai a me se non l’avessi fatto. Il mare è pieno di pesci belli e colorati, i fondali sono suggestivi, ma soprattutto ci sono loro. Foche! Elefanti marini! Sono intorno a noi, davanti a noi, sotto di noi, in mare, sulle rocce. Sugli scogli le foche si spaparanzano a prendere il sole, a due bracciate da noi altre foche volteggiano, fanno le loro evoluzioni natatorie, si baciano; un enorme leone marino ci gira intorno, probabilmente per tenere d’occhio il suo harem: ci passa sotto, di fianco, riemerge sbuffando sonoramente ad un metro di distanza, ci punta con degli impressionanti vis-a-museau. Più volte una foca o un leone marino mi tocca i piedi passandomi di lato. Non so se avete presente quanto sono grossi questi animali; non ci è mai più capitato di trovarci in mezzo a degli animali selvatici di tale stazza e dimensioni, in una situazione totalmente naturale e selvaggia (sì, forse in Sudafrica, in mezzo ad una mandria di bufali – per fortuna talmente perplessi da dimenticarsi di essere pericolosissimi -, ma lì eravamo dietro la barriera di vetro e lamiera dell'abitacolo di un automobile). E’ un’esperienza esaltante e indimenticabile. Per quanto non fotografata... Dopo un po’ risaliamo a bordo della barca e costeggiamo lentamente gli scogli coperti di foche, adagiati sugli scogli come su delle mensole, e assistiamo a diverse scene di vita animale, come un gustoso sketch tra una foca e un granchio rosso. Riprovo sfiduciato la macchina fotografica, che con un sussulto d’orgoglio riesce ancora a sparare qualche ormai mediocre foto verso gli scogli. Quindi la lancia ci sbarca a Ensenada Grande, una bellissima spiaggia bianca con acqua di eccezionale limpidezza. Alessandra fa amicizia con una bambina a colpi di “holà”, avvistiamo uno scoiattolino, poi ritorniamo velocemente , costeggiando la costa ovest, ben più bella dell’altro lato. A Playa Tecolote ci riposiamo (dalle emozioni), e poi torniamo a La Paz con un minibus sovraffollato. Ceniamo in un ristorante sul lungomare, poi gelato (choco chips e uveta con pasas). Dove mangiamo cose prese dal mare, lasciamo il mare e la Baja California; dove Alessandra compie gli anni, viene assalita da una cucaracha gigante e sventa un secondo tentativo di sabotaggio; dove c'è l'empacador e gli svizzeri parlano di treni; dove compriamo una macchinetta e andiamo a dormire presto.25 luglio, giorno 15 LA PAZ – PLAYA PICHILINGUE – LA PAZ Di nuovo a Playa Pichilingue, dove proviamo l’altro bar, una palapa in legno col tetto di paglia. Se vi piacciono i frutti di mare tenete presente che su queste spiagge, una volta che avete ordinato, un signore parte, entra in acqua e ve li preleva direttamente, dal mare al vostro piatto. Facciamo gli ultimi bagni, poi per il resto del tragitto il mare contiamo di non vederlo più. Devo dire che la Baja California a questo punto cominciava a piacerci, e anche parecchio. Preleviamo, poi la sera ceniamo con crema de elote e gamberi al burro in un ristorante sul mare. In pensione prepariamo gli zaini e puntiamo la sveglia. Abbiamo preso accordi e avuto conferma che domani mattina verrà a prenderci il taxi numero ocho che ci porterà all’aeroporto per 70 $. 26 Luglio, giorno 16 La Paz – LOS MOCHIS Ci svegliamo che è ancora notte. E’ il compleanno di Alessandra, che, a dispetto della lieta ricorrenza, in bagno viene assalita ad una gamba da una cucaracha gigante e alata e scappa saltellando e gridando “Uh diu, uh diu!”. Probabilmente ci siamo svegliati troppo presto e a nostra volta abbiamo disturbato la privacy degli esseri che condividono con noi gli ambienti della pensione negli orari notturni. Il taxi alle 6 arriva davvero, facciamo un rapido check in aeroporto, sorvoliamo in 25 battibalenanti minuti il Golfo di California e atterriamo dall’altra parte. Prendiamo un colectivo sovrafollato verso il centro di Los Mochis: l’autista ci scarica all’Hotel Catavina riscuotendo un’adeguata propina. Facciamo un giro a Los Mochis, intanto che si libera e ci preparano la camera. Ne approfittiamo per prenotare il treno per l’indomani e Alessandra - di nuovo! - provvidenzialmente corregge l’impiegata che evidentemente fa parte di una congiura ordita per depistarci. Los Mochis è brutta, calda e piena di una vivace confusione, affollata di negozi e di mercati. Nei supermercati ad ogni cassa c’è un ragazzino minorenne: è l’empacador, addetto ad infilare gli acquisti nella borsa della spesa. Compriamo una macchinetta fotografica giusto per supplire alla defaillance dell’apparecchio ufficiale che si rifiuta di autoaggiustarsi. Tornati all’albergo scambiamo qualche parola con degli svizzeri di Neuchatel con argomento treno e facciamo una merenda a base di pane e Philadelphia. In hotel c’è l’aria condizionata, ma non gli asciugamani e la tv non funziona. Alla reception prenotiamo un taxi per domani mattina alle 5.15, altra levataccia. Quindi nel pomeriggio ci concediamo un riposino, poi in un vicino ristorante facciamo una cena con crema de elote, milanesa (sì, una cotoletta impanata, più o meno come la conosciamo noi!) flan e banana split. Los Mochis ha una sua vivacità anche notturna, con locali squallidi ma dove evidentemente si beve birra e si fa festa. Noi però andiamo a dormire presto vista l’ora di partenza di domani mattina; la notte è comunque agitata.
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