Julián, che vive e recita a Madrid, rinuncia a curare un male incurabile e si prepara a vivere da uomo gli ultimi giorni di vita e a sciogliere i suoi ultimi nodi: sistemare l’amato cane (l’eponimo Truman), congedarsi dal figlio lontano. L’amico di sempre, Tomás, parte dal Canada per tributargli un ultimo saluto. Gay racconta con sobrietà e perfino azzardando qualche tocco di malinconico umorismo i pochi giorni che i due trascorrono insieme, senza preoccuparsi di raccontarci il retroterra della loro amicizia, e senza costringerci alla commozione con il patetismo a tutti i costi. Film di dialoghi (ma anche di cose non dette) e di attori, che chiama a lavorare sotto le righe e attraverso le sfumature due mattatori come l’argentino Darín (Il segreto dei suoi occhi) e lo spagnolo Cámara (Parla con lei). Ai Goya ha sbancato aggiudicandosi i premi per il miglior film, la regia, la sceneggiatura e per entrambi gli attori protagonisti.
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Quo vado? ormai più che un film è una sorta di totem, forte di oltre 65 milioni di incasso che lo affiancano ad Avatar sul podio dei maggiori incassi italiani di sempre e che sfidano qualsiasi discorso critico. In un anno particolarmente felice per la commedia italiana, con prodotti maturi come Perfetti sconosciuti, La pazza gioia, Io e lei, Medici e Nunziante proseguono diritti per la propria strada, sfruttando la maschera irresistibile di Checco Zalone, che stavolta è un impiegato dell’ufficio Caccia e pesca che a causa dell’abolizione delle provincie rischia di perdere il mitico posto fisso, sua ragione di vita. Piegandosi ma non spezzandosi, rinuncia a qualsiasi buonuscita e si fa sballottare nelle sedi più ostiche, dall’Italia al Polo Nord. Emblema dei vizi e dei difetti dell’italiano medio (?), qui messo a confronto con altri stili di vita e altre culture, Checco macina efficacemente gag e battute. Il dibattito se poi la bilancia penda di più verso la critica sociale o l’autoassoluzione consolatoria, rimane aperto e legittimo.
1985. I magistrati Falcone e Borsellino vengono praticamente rapiti dalle forze dell’ordine e trasferiti con le rispettive famiglie sull’isola-prigione dell’Asinara per motivi di sicurezza. L’operazione non servirà ad impedire che entrambi vengano assassinati dalla mafia nel fatidico 1992. Intanto, in un tempo buzzatianamente sospeso, tra le carte del maxiprocesso in preparazione che non arrivano, il lavoro in uno stato di segregazione e un’atmosfera da vacanza balneare obbligata, nella convivenza forzata emergono differenze di carattere e di temperamento, ma anche lo spirito cameratesco di due uomini con gli stessi valori ed obiettivi. Infascelli confeziona un biopic su due eroi civili tutto in anticlimax, dal respiro forse più televisivo che cinematografico, ma dove i rischi dell’agiografia e della martirologia sono scongiurati in partenza grazie alla prospettiva adottata. Nel contesto, appropriate le performance del quartetto di interpreti principali.
Tomás, adolescente irrequieto ma forse semplicemente ancora un po’ bambino, viene spedito a raggiungere il fratello maggiore Fede a Città del Messico. Con lui e il suo coinquilino Santos, universitari squattrinati, scioperati e disimpegnati (estranei alla protesta che infiamma l’Università) e poi con Ana, leader studentesca, inizia un improbabile viaggio alla ricerca di Epigmenio Cruz, il musicista amato da loro padre, che ha segnato la loro infanzia e che, si dice, una volte fece piangere di commozione Bob Dylan. In Güeros si respira nouvelle vague a pieni polmoni, da Godard fino a tutti gli epigoni a seguire (come il bertolucciano I sognatori si conclude in una strada in preda alla rivolta giovanile, che potrebbe essere di oggi come degli anni ’60), speziata con influenze dello scrittore cileno-messicano Bolaño (vedi la Città del Mexico bohémienne e la ricerca della poetessa scomparsa ne I detective selvaggi). Ruizpalacios tenta di fissare su pellicola, grazie anche ad una fotografia virtuosistica, in b/n e 4:3 (premiata al Tribeca), quei frammenti di vita irripetibili ed inconcludenti che, senza saperlo, costituiscono l’indimenticabile poesia della giovinezza. Tra i premi, Orso d’Oro a Berlino per l’opera prima e 5 Ariel in Messico.
QUESTI GIORNI di Giuseppe PiccioniQuesti giorni potrebbe essere catalogato un road movie al femminile. Ma il road movie, inutile dirlo, è maschio, antropologicamente maschio. Dalla preistoria, la donna è condannata dalla maternità alla stanzialità; al maschio, che deve procurare il sostentamento della femmina e della prole, spettano i rischi del viaggio e i piaceri dell’avventura. Ma se l’antropologia (con l’aiuto dei contracettivi) cambia, anche il cinema rispecchia - ci mancherebbe altro - il cambiamento. Mentre il cinema americano, con un immaginario ancora tutto maschile, ha disseminato di violenza le strade di donne guerriere o ribelli (da Meyer-Tarantino a Thelma e Louise), il cinema italiano fino ad oggi ha esitato nell’esporre i propri personaggi femminili ai rischi della strada. Piccioni, di giovani donne, ne mette in gioco addirittura quattro. Una viaggia per affrontare un nuovo lavoro e cercare una vita differente; una per sfuggire alla malattia e al pensiero della morte; una per concedersi una vacanza prima di diventare madre e moglie; una per allontanarsi da un amore sbagliato. Da Gaeta a Belgrado, affrontano un viaggio in cui nulla succede e tutto cambia, ognuna in spostamento verso una maturità diversamente cercata e perseguita lungo l’itinerario, attraverso gli incontri, le confidenze e le rivelazioni, e le ore di questi giorni mobili e decisivi. Ma la cosa più strana è che non sono sole: in una manciata di mesi, il cinema italiano si affolla improvvisamente di donne in viaggio, e di uomini immobili sullo sfondo: quelle che si danno alla pazza gioia, e che scappano da una condizione che le etichetta e le costringe, o le indivisibili che (a piedi, in furgone, in scooter, in motoscafo, in barca, a nuoto) cercano un’uscita da un destino sociale e famigliare sostanziato di carne e sangue. Le donne e le ragazze di queste storie (tra gli otto sceneggiatori le donne sono tre), mentre prendono il largo dalle rispettive situazioni famigliari, attraversano addirittura le medesime stazioni: come l’acqua, in cui rischiano di morire e da cui rinascono come veneri prosaiche e affaticate; o come le cliniche e gli ospedali in cui attraversano la sofferenza. Rischiano, soffrono, muoiono, rinascono; ma si sono messe in moto: sarà inevitabile incrociarle lungo la strada.
HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino8 odiosi, ok, ma nell’emporio di Minnie sono in 9, anzi in 10. Senza contare O.B., se si vuole, 8 uomini + 1 corpo estraneo. Chi è o cos’è Domergue? Solo “la prigioniera”? Qualcosa di più, o meglio, qualcosa di diverso. Domergue è brutta e cattiva; il suo aspetto si fa terrificante, i denti si spezzano, la faccia e i capelli si imbrattano di vomito, sangue e materia cerebrale, ma i suoi poteri hanno del magico: sbeffeggia la propria impiccagione e predice la morte altrui cantando; vede ciò che gli altri non vedono, ha dalla sua pozioni letali e aiutanti in grado di assumere mutate sembianze, strappa gli arti ai suoi nemici portandoseli appresso come macabre appendici, e il suo fratello diabolico emerge – niente meno che - da sottoterra.
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AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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