DUE GIORNI, UNA NOTTE di Luc e Jean-Pierre DardenneIl montante di uno scaffale, uno stipite, la recinzione di un campo di calcio, una soglia, una pila di cassette, lo sportello di un auto, un angolo, una linea su un muro, una grondaia, una scrivania. Dovunque ci si trovi, in uno spazio aperto o chiuso, c’è sempre qualcosa che divide Sandra dai suoi interlocutori, non solo dai capi ma anche e soprattutto dai colleghi di lavoro che deve convincere a votare contro il suo licenziamento e a privarsi di un bonus economico ad esso condizionato. Il tempo è sempre indiviso: bolle di piano-sequenza in cui i personaggi, Sandra e uno/due interlocutori, sono imprigionati in un confronto che inchioda la prima al suo disperato tentativo di salvezza, i secondi alla responsabilità di una scelta tra solidarietà o egoismo, o meglio tra i propri bisogni e quelli altrui. Lo spazio invece (quando non è eliso nella distanza di un colloquio al telefono o al citofono) è sempre rigorosamente, puntualmente spartito in due campi contrapposti, quasi sempre con una linea “naturale” che lo attraversa in verticale. Non sono spazi diversi quelli che abitano i personaggi, è il medesimo, ma diviso in due. Quando in campo sono Sandra e il marito o l’amica Juliette, questo non succede: nell’ambiente domestico lo spazio è semmai ingombrato da ostruzioni visive, spigoli, elettrodomestici, ecc., a rendere la precarietà di un ambiente appena piccolo-borghese subito minacciato dalla recessione. I Dardenne hanno d’altronde da sempre posto alla fonte del loro cinema profondamente umanistico una scelta di campo, un posizionamento etico-politico. Ma accanto all’esprit de finesse, grazie al quale ci fanno stare in ansia e palpitare per le sorti di Sandra (da una parte eroina dell’insistenza come in un film iraniano, dall’altra sorta di Lara Croft proletaria che deve completare i vari livelli della missione ricaricando i propri livelli di energia a forza di acqua minerale e pillole; ma soprattutto essere umano che lotta per il proprio destino), i Dardenne (camera a mano e tempo reale, assenza di musica extradiegetica a dettare i sentimenti agli spettatori), non dimenticano mai l’esprit géométrique, grazie al quale l’immagine si fa icastica metafora di una società divisa dove gli eguali vengono contrapposti dalla brutale e cruda legge del capitale. Sandra è perennemente in movimento, ma il suo non è un divertissement in senso pascaliano; alla fine del percorso non troverà un Dio ad aiutarla, ma se stessa: con l’orgoglio di camminare a testa alta, felice (lei che non era più niente, che non era più all’altezza) perché ha rinunciato a danneggiare i compagni a proprio favore; perché perdendo ha vinto, o meglio, insieme al marito Manu (e alla Cotillard che le dà forza e fragilità), “si è battuta bene”: che è quanto ad un essere umano si può chiedere, e quanto i Dardenne non mancano mai di fare.
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AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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