SQUID GAME di Hwang Dong-hyukIo non ho ancora finito di vedere le nove puntate di Squid Game. Eppure credo di aver capito di cosa parla (posso dire di un esperto in materia). Squid Game parla della paura, la mette in scena, la tematizza, ne fa il sentimento dominante nei suoi personaggi, la istilla in chi guarda, spingendolo a riconoscerne le sue molteplici varianti. Tutto nel corso degli episodi concorre a parlare della paura. La situazione base del film (ci si cimenta in un gioco in cui che perde muore), il meccanismo che sottende alle prove da affrontare (i partecipanti non conoscono in anticipo le regole del gioco dal quale dipenderà la loro vita), la struttura della progressione eliminatoria (tutti dovranno lottare contro tutti), l'impersonalità della dominazione cui sono soggetti i partecipanti (tutti i loro sorveglianti vestono maschere impenetrabili). Ho provato a fare un catalogo delle paure, che ognuno può aggiornare o modificare a proprio piacimento. Squid Game mette in scena, a volte con una disarmante letteralità: la paura di non riuscire ad essere d'aiuto ai propri cari la paura di perder le persone che ci sono vicine la paura dell'ignoto la paura del futuro la paura di non sapere cosa ci aspetta la paura che la nostra vita vada alla deriva la paura che le cose non si possano più risolvere la paura di non saper valutare cosa è meglio per noi la paura di vivere in un mondo di cui non si comprendono le regole la paura di essere in balia di forze che ci trascendono la paura di dover competere con gli altri la paura di mettersi in gioco la paura di perdere la paura del fallimento la paura di non avere altra scelta la paura di sprecare la propria vita la paura di non riuscire a fidarsi la paura di non riuscire a riconoscere gli amici la paura di affezionarsi troppo la paura che qualcuno voglia farci del male la paura di essere traditi la paura di essere capaci di tradire, di mentire, di ingannare la paura di scoprirsi cattivi la paura di non essere cattivi abbastanza la paura di non essere abbastanza forti la paura di non essere abbastanza intelligenti la paura di non essere abbastanza furbi la paura di non essere abbastanza privi di scrupoli la paura di essere visti la paura di non avere tempo abbastanza la paura di fare un passo falso la paura di morire la paura di uccidere la paura degli altri la paura di se stessi Tranne forse la paura di ammalarsi e di morire (ma il lasso di tempo è troppo breve, e all'anziano n. 001 tocca dare corpo ad entrambe le possibilità) e le paure legate al sentimento amoroso e alla sessualità, credo che tutte le paure fondamentali che possono affliggere una persona siano rappresentate in uno spazio scenico e narrativo che resta eppure estremamente stilizzato e artificiale. Il piacere della paura (ma meglio sarebbe dire il piacere di provare paura potendola controllare, spegnendo un televisore, ad esempio, o chiudendo un libro, o rifugiandosi nella familiarità del proprio letto) è profondamente intimo nell'animo umano, presente fin nei miti degli antichi, nei racconti della tradizione folklorica orale, fino all'esplosione nella letteratura moderna e poi nel cinema. Ma Squid Game porta il discorso della paura su un altro piano, trascendendo dal gusto e dalla tecnica dello spaventoso, dell'orrendo, del raccapricciante, portandolo ad un livello quasi teorico; senza tema di mostrare la violenza e l'orrore, ma senza insistervi in modo morboso e compiaciuto. Nel catalogo della paura di Squid Game si potrebbero addirittura individuare delle sottosezioni o delle stratificazioni. C'è ad esempio la paura politica, del dominio e dell'assoggettamento, di vivere e recitare una parte nel teatro della crudeltà del capitalismo, di un mondo che ammette ricchezza estrema e povertà estrema, di una perversa società dello spettacolo che tratta uomini e donne come merce o come trastullo, pervasa da un disprezzo dell'umanità e delle sue debolezze che ha portato nella Storia al concepimento di enormi ed efficientissime strutture per lo sterminio di massa. C'è la paura sociale, quella dove l'inferno sono gli altri, dove gli individui sono inseriti in un sistema che li mette gli uni contro gli altri (e di competitività e lotta per la sopravvivenza le società asiatiche ne sanno sicuramente almeno tanto quanto noi); dove i rapporti sociali sono pieni di insidie e di trappole, disseminate su un terreno ignoto; E ci sono le paure individuali, suscitate dal dovere di perseguire la nostra sopravvivenza e il nostro benessere, messe alla prova dalla necessità di misurare le proprie capacità e la propria interiorità, e fondate sull'incubo di conoscere se stessi. Metafora politica, sociale, esistenziale di Squid Game si fondono in una narrazione sostanzialmente lineare (anche se non mancano le sottostorie a movimentare e complicare l'intreccio quel tanto che basta), quasi meccanica nella sua progressione implacabile e inesorabile. I suoi elementi non sono nuovi, e di giochi letali e di sopravvivenza, di scommesse sulla vita e sulla morte, di spettacoli allestiti per gli amanti della sofferenza ne abbiamo visti molti e ne potremmo stilare interi elenchi. Ma Squid Game, di nuovo, non inventa forse nulla, ma lo ricrea ex-novo; non fa citazioni, ma inventa un universo che si impone per una la sua spietata coerenza e per una sua imperiosa dimensione visiva. Chi l'ha visto ricorderà probabilmente molto a lungo le sue labirintiche scalinate alla Escher color caramello; le sue spaventose e zuccherose stanze dei giochi; le sue giostre infantili e macabre; le tute scarlatte e le maschere nere e le divise da detenuti dai quali le macchie di sangue fratricida non scompariranno mai più; i recessi tenebrosi e la dimora sibaritica da dove si può assistere allo spettacolo della lotta, della sottomissione, del fallimento. Il suo spazio concentrazionario è un incrocio tra un lager (dove i deportati – aggiungendo orrore ad orrore – sono lì di propria volontà, a desiderare e a cooperare, se non a provocare direttamente, la morte dei propri compagni di sventura) e un kindergarten. I concorrenti sono come bambini in un sinistro giardino di infanzia eterna, incapaci di interferire col mondo dei grandi, perennemente soggetti a chi ha più soldi e più potere di loro. La stilizzazione disegna un mondo dove le differenze sono ridotte al minimo - i concorrenti-detenuti vestiti tutti uguali e i guardiani vestiti tutti uguali, gli uni e gli altri ridotti a numeri - dove la realtà è ridotta a forme (quadrati, cerchi, triangoli) e oggetti (biglie, funi, lastre di vetro trasparente) minimali, essenziali. Si arriva ad abolire il tempo e lo spazio esterno; nella dimensione di Squid Game non c'è giorno e notte, ma solo la routine gioco-pasti-coprifuoco; non c'è cielo, non c'è aria, non c'è altrove. Dall'alto non splende il sole, ma pende un grosso globo di plastica trasparente pieno di soldi generati dal sangue degli sconfitti (i nemici, gli avversari, gli amici, i ritrovati gganbu, quelli a cui si è imparato rapidamente a voler bene facendo fronte comune alle avversità), a ricordare quali sono le forze che governano il mondo e la società. La fiducia nella forza della propria scrittura e nell'inarrestabilità del proprio magnetico flusso narrativo si vede anche nella strutturazione degli episodi: se il quarto finisce proprio al culmine di un climax che aggancia al successivo (in maniera anche un po' scontata: è chiaro quale squadra dovrà uscire vincitrice dal gioco, pena l'azzeramento dell'intera narrazione), a stupire è il secondo; dopo un primo episodio che ci trascina rapidamente in media res, l'episodio seguente segna un'apparente stagnazione, in cui l'elemento fantastico sparisce, non si gioca a nessun gioco, tutto torna ad una (insopportabile) normalità. Quello che poteva segnare una pericolosa battuta d'arresto subito dopo la linea di partenza e ingenerare una caduta dell'interesse degli spettatori, è invece un contributo fondamentale alla “morale” dell'opera. La sceneggiatura disegna molto efficacemente i caratteri dei protagoniste, pur nella tipizzazione, e le dinamiche psicologiche e relazionali che si evolvono e si distorcono all'interno di un meccanismo di gioco crudele come un'arancia ad orologeria. Io ho ancora qualche puntata da vedere. E, ovviamente, ho paura di vederle. Su Squid Game leggi anche "Il fattore K": Squid Game vs Stanley Kubick
1 Commento
10/29/2021 01:17:32 pm
Perfettamente d'accordo con l'analisi, aggiungerei: dalla metà della serie in poi i giocatori si dividono in gruppi per far squadra, una parola che si ripete molto nei vari episodi, questa ricorsività è utile per cristallizzare nello spettatore quei rapporti empatici tipici dell'uomo dal punto di vista ontologico. Nel finale si scontreranno gli opposti: Il buono, finito sul lastrico a causa della sua dipendenza dal gioco, un edonista fallito incapace di reagire nella vita reale e vivo perché aiutato dagli altri concorrenti. Il "cattivo", che da una carriera promettente è finito male per truffe, a causa della sua cupidigia. Lui nel gioco si dimostra da sempre calcolatore, disposto a tutto per salvarsi la pelle, a uccidere e ad ingannare i compagni di squadra facendo leva sui sentimenti. Quest'uomo laureato ed intelligente, credendosi superiore e più degno di vivere, tradisce anch'esso la regola fondamentale di questo macabro e grottesco gioco: il principio di uguaglianza.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
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