GRAVITY di Alfonso CuaronAlcuni commentatori hanno criticato il lutto nel passato di Ryan (una figlia piccola morta in un banale incidente) come un mero topos di sceneggiatura, uno psicologismo di maniera, un elemento scontato buttato lì giusto per conferire un minimo di vissuto alla protagonista, il doveroso trauma che l’eroina deve risolvere e superare nel corso del cimento. Ma la prospettiva cambia un po’ considerando l’importanza problematica del tema “filiale” nella filmografia di Cuaròn (in particolare le notevoli assonanze con I figli degli uomini), e l’intera simbologia narrativa e iconica dispiegata in Gravity.
Il film parla in effetti di una donna annichilita dal lutto, che, sentendosi morta come la propria bambina, ha cercato rifugio in un vuoto affettivo siderale e non disdegna la possibilità della morte reale (si rifiuta di rientrare nella stazione mentre arriva lo sciame di detriti, spegne gli alimentatori per autoprivarsi della vita); ma che inaspettatamente rimane gravida di se stessa, e che alla fine si partorisce e rinasce. A fecondare Ryan della nuova Ryan (Tim Webber, supervisore degli effetti visuali, racconta che la preparazione del film è durata nove mesi), è naturalmente l’elemento maschile (tra schermaglie seduttive e amplessi dei corpi), destinato a sparire ma disponibile a ripresentarsi in forma fantasmatica per ribadire la propria simbolica funzione riproduttiva e (ri)generativa. Ryan è via via avvolta in una placenta-bozzolo (la tuta spaziale, di cui si spoglia in una scena di forte intensità), connessa alle possibilità di sopravvivenza attraverso cordoni ombelicali, contenuta in un utero (sempre più stretto, fino alla navicella finale), in una dimensione solipsistica, immersa in un vuoto amniotico isolato dal mondo, come in un ventre materno. Il suo incontro con Matt ha prodotto il miracolo del concepimento: Ryan ha ora una nuova consapevolezza, una nuova volontà di vita. Attraversando i quattro elementi, precipita verso il mondo; all’apertura del portello della navicella le acque letteralmente si rompono, lei entra annaspando in un elemento alieno, emerge in un mondo nuovo. Come in 2001 Odissea nello spazio (nel finale escatologico ma anche nel prologo scimmiesco), un nuovo essere compare sull’orizzonte del mondo-universo. Ryan ha compensato la perdita della propria figlia ripartorendo se stessa; fondendo ontogenesi e filogenesi, esce dall’acqua e conquista la terraferma, finalmente si erge, ridiventata corpo, sulle proprie gambe e sui propri piedi: il prodigio di un essere vivente, colmo della gioia della vita. Ci si rende conto che la gravity del titolo è stata assente da tutto il film, e che non era solo un’allusione ai prodigiosi effetti speciali del film, ma a qualcosa di più importante, che solo nella sequenza finale si incarna nella posizione orgogliosamente eretta di Ryan, inquadrata dal basso verso l’alto, di nuovo pronta a sfidare il peso dell’esistere: in un’opera semplice e complessa, massimamente artificiosa e nello stesso tempo profondamente umanistica, la vera e definitiva conquista (un piccolo passo per una donna, un grande passo per l’umanità), non è quella dello spazio, ma quella di una terra insieme vergine e madre.
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MANK di David FincherSul numero di SegnoCinema di marzo-aprile 2021 è stato pubblicato a mia firma il saggio Citizen Mank, dove si ripercorrono la storia del rapporto tra registi e sceneggiatori, il dibattito sulla reale paternità di Citizen Kane e si analizza il film di David Fincher. Ne riporto qui un breve stralcio e vi invito alla lettura dell'intero articolo sul n. 228 della rivista. Se a dominare il discorso pubblico, critico e cinefilo sul film dei Fincher è stato inevitabilmente il prepotente aspetto metacinematografico, il tema politico, come si è già più volte accennato, è tutt'altro che irrilevante.
Scrivere Citizen Kane prendendo a modello un uomo dalla potenza industriale e mediatica come Hearst (verso il quale Mankiewicz, secondo Mank, dimostra di nutrire un fortissimo e contraddittorio legame di attrazione e di ripulsa) appare come un gesto di rivalsa politica. Persa la propria scommessa (letterale: Mankiewicz oltre che un forte bevitore era dedito al gioco d'azzardo) sul rinnovamento sociale e politico promesso da Upton Sinclair; perso l'amico Shelly, cui non ha sottratto la pistola fatale; roso dal rimorso di aver lui stesso suggerito l'uso distorto del cinema e dell'informazione a scopi ideologici e propagandistici, Mankiewicz reagisce con l'unica arma che conosce e sa maneggiare bene e che per una fortunata e straordinaria circostanza (la libertà concessa a Welles dalla Rko di girare un soggetto a proprio piacimento con collaboratori di sua scelta) gli è concesso usare: una sceneggiatura. Se pochi anni prima Gramsci nei Quaderni dal carcere rifletteva sul ruolo dell'intellettuale nella società capitalistica e nel contesto della lotta di classe, Mank mostra un intellettuale solitario e “non organico” che pure compie la propria scelta di parte, e punta il dito contro il sistema del potere economico, della stampa, del cinema (di cui Meyer e Thalberg appaiono zelanti esecutori), tutte espressioni di un'America cinica e rapace insensibili alle sofferenze della nazione fiaccata dalla Grande Depressione, in un'epoca in cui allo sfarzo del mondo della celluloide (il decennio produrrà alcune delle migliori commedie sofisticate mai realizzate), corrispondevano povertà, disoccupazione, disperazione. Sebbene James Naremore (in Orson Welles - ovvero la magia del cinema) ritenga che in Quarto potere l'elemento melodrammatico prevalga nettamente su quello politico e che la rappresentazione di Hearst e dei suoi banditeschi metodi imprenditoriali sia ampiamente edulcorata, l'establishment capitalistico (con lo stesso Hearst in testa, che pare definisse gli estimatori del film “traditori comunisti” e “non veri americani”) e quello cinematografico – legati a doppio filo - si resero conto della pericolosità del film e lo boicottarono. Mankiewicz non scrisse più alcune sceneggiatura sino alla sua morte; Welles non ebbe mai più nella sua vita la stessa libertà creativa di cui godette nella realizzazione di Citizen Kane. Schiacciato sotto il proprio peso cinefilo, difficilmente Mank verrà ricordato come un film politico; ma a Herman e a Jack, forse, non sarebbe dispiaciuto. Un cacciatore di animali predatori e una poliziotta fuori luogo (arriva da Las Vegas) si trovano alleati nel dare la caccia a belve umane sulle montagne innevate del Wyoming. L'incontro tra l'eroe dolente e la ragazza benintenzionata e insicura porta Taylor Sheridan sulle orme delle proprie sceneggiature precedenti (l'incontro tra la giovane poliziotta e i cacciatori esperti in Sicario; il mito rivisitato della Frontiera in Sicario e in Hell or High Water), con una storia non nuova ma che acquista interesse anche per la particolare ambientazione nella riserva indiana, dove le donne spariscono nel disinteresse delle istituzioni, le bandiere a stelle e strisce sono appese capovolte, la polizia è insufficiente e lo scioglimento finale avviene non a caso nel campo di trivellazione, dove una multinazionale sta di nuovo depredando i nativi delle ricchezze del loro territorio. Premiato per la regia a Cannes 2017, con un andamento lineare (con l'eccezione di un flashback fondamentale), il film trova il suo momento culminante nella splendida sparatoria del sottofinale. NAPOLI VELATA di Ferzan Ozpetek, |
AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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