LO STRANO CASO DEL DOTTOR JECKYLL E MISTER HYDE, da Robert Louis Stevenson, adattamento, regia e spazio scenico di Marco RampoldiDicevo in un recente post di una sorta di vena neogotica che attraversa la stagione teatrale milanese. La settimana scorsa, su un palcoscenico alternativo della scena milanese, è stato rappresentato un altro classico della letteratura horror anglosassone, ovvero Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde. Siamo ormai nel 1886, e Freud di lì a pochi anni descriverà la scissione della personalità tra Io, Es e Super Io, la sua teoria dell’inconscio e del subconscio e quella della forza delle pulsioni, quando Robert Louis Stevenson abbandona i paesaggi esotici dei suoi romanzi per chiudere nel perimetro claustrofobico di una Londra nebbiosa scissa tra abitazioni borghesi e rispettabili e sordidi quartieri popolari la favola nera di un uomo di scienza che decide di lasciare spazio e sfogo alla parte nascosta di sé, quella che cerca la soddisfazione dei desideri più bassi e bestiali (o che comunque non sono compatibili con la morale corrente). La storia è celeberrima, e ha già avuto una serie sconfinata di traduzioni per lo schermo e per la scena, dichiarati o meno. Ma l’adattamento di Marco Rampoldi non segue né la via della performance attoriale della Debora Virello di Dame oscure né quella immaginifico ed evocativa di Bruni-Frongia-Teardo di Una serie di stravaganti vicende. Più che di una messinscena vera e propria si potrebbe parlare in effetti di una lettura teatrale, che si porta dietro purtroppo gli aspetti deteriori dei due termini. I due protagonisti (Flavio Albanese nel ruolo di Jeckyll/Hyde e Claudio Moneta in quello di Utterson) sono infatti zavorrati per tutto il tempo, tranne pochi dialoghi in cui i personaggi interagiscono tra loro, dai copioni che tengono tra le mani e su cui tengono gli occhi, aggiungendo per di più tutta l’enfasi e la melodrammaticità che si suppone – erroneamente – debba essere sovraccaricata a un testo narrativo per renderlo “teatrale”. Difficile trovare nella scarna messinscena di Rampoldi (una pedana allungata, qualche seduta, un velo, una porta) un’idea forte o originale, né un tentativo di rivitalizzare il testo di origine (che, come si diceva, ha un ruolo capitale e seminale per tanto immaginario del ‘900) e di dare un senso alla sua riproposizione oggi. La stessa schizofrenia cui cede il protagonista del racconto è d’altra parte riconoscibile anche nella personalità e nelle politiche del teatro No’hma. Fondato da Teresa Pomodoro, è una sala molto bella situata in zona Città Studi. Ma se da una parte è encomiabilissimo lo sforzo illuminista e pedagogico di offrire gratuitamente alla cittadinanza generose occasioni di cultura, spaziando dal teatro, musica, danza, il lato oscuro emerge nella politica dell’accoglienza. Anche qui le finalità sono nobili e condivisibili, e si possono riassumere nel tentativo di permettere al maggior numero di persone di assistere agli spettacoli, ma i risultati sono spesso deleteri. Bisogna prenotarsi, ma i posti non sono prenotati, per cui è necessario comunque presentarsi con largo anticipo e attendere sul marciapiede l’apertura delle porte; ma evidentemente le prenotazioni non sono commisurate all’effettiva capienza della sala, che viene stipata all’inverosimile dilagando con sedie aggiunte nel foyer e in spazi assolutamente insani. Mi è capitato di assistere al concerto di Van der Noot da dietro una larga colonna, che ostruiva qualsiasi possibilità di gettare anche solo una sbirciatina di scorcio al palco. L’ultima trovata è stata quella di posizionare la pedana nel mezzo della sala, probabilmente per migliorare la visione degli spettatori, dal momento che non si percepisce alcuna ratio registica – gli attori sono anzi costretti a faticose torsioni -, ma con la bella pensata di riempire il settore di fondo prima di permettere l’accesso al primo settore: con il risultato che chi è arrivato prima rischia di trovarsi nelle file più arretrate nella parte della sala più torrida, mentre chi è più in ritardo si accomoda nelle file più avanzate e arieggiate del primo settore. Alle mie rimostranze una gentile signorina – per assurdo situazioni allucinanti di accoglienza del pubblico vengono gestite e perfino agevolate da un cospicuo e volenteroso numero di addetti in sala – si dice dispiaciuta, ma si appella a disposizioni ricevute. Che non è mai una buona risposta, in particolare quando le disposizioni sono contrarie al buon senso. Soluzioni ci sarebbero: bloccare le prenotazioni quando si è ragionevolmente saturata la capienza della sala, aggiungere una replica se e quando è possibile, o introdurre un biglietto d’ingresso, anche modesto, che possa servire a dissuadere quella fetta del pubblico del “tanto è gratis “. Sono sicuro che la signora Pomodoro saprebbe trovare degnissime destinazioni agli incassi così realizzati.
0 Commenti
Lascia una Risposta. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
Categorie
Tutti
|