THE SQUARE di Ruben ÖstlundChristian è un direttore di museo affermato, benestante, affascinante. Mentre crede di prestare aiuto a una ragazza in pericolo in una piazza di Stoccolma, viene derubato. Dando ascolto al consiglio di un collaboratore, distribuisce una lettera minacciosa in tutti gli appartamenti in cui abita il ladro credendo di poter recuperare la refurtiva. Per pubblicizzare The Square, una nuova istallazione acquisita dal museo, crede di conquistare l’attenzione dei media affidando la realizzazione di un video a due giovani creativi. Credendo di vivere l’ennesima avventura senza impegno, va a letto con una giovane giornalista. La sua vita sta per piombare nel caos. THE SQUARE è un film geometrico, polimorfo, stratificato. Volete un esempio? Partiamo dall’inizio: solo per restare al suo significato principale, The square è il titolo del film; è l’opera d’arte al centro del film; è un simbolo (“santuario di fiducia e di amore, entro i cui confini tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri”, che allude a un paio delle tematiche principali del film); è un elemento iconico simbolico ricorrente (i quadrati, talvolta concentrici – o conquadrici – che imprigionano i personaggi – di preferenza il protagonista, in una gabbia visiva: trombe delle scale, quadri, opera d’arte, campi sportivi, finestre, specchi, ecc.); è un elemento metatestuale che allude allo schermo cinematografico, e dunque – chiudendo il cerchio, anzi il quadrato – al film stesso che lo ha per titolo. Tuttavia il quadrato, o il film, non è uno spazio salvifico che ripara dal mondo esterno; al contrario, il film è uno spazio controllato contenitore di vite controllate che contengono a loro volta il caos incontrollabile. Il quadrato stesso è lo spazio geometrico che contiene le contraddizioni più deflagranti, dove un santuario può diventare il luogo dove una bambina bionda e povera può essere fatta cinicamente saltare in aria. Il caos è sempre presente nella storia e nella rappresentazione: una donna ospita una grossa scimmia nel proprio appartamento; un’altra rimane a una conferenza stampa insieme al marito affetto da sindrome di Tourette anche quando questi dà in escandescenze e ingiuria i relatori; una performance si trasforma in un’orgia di violenza. E a scatenare il caos, l’inferno sartriano, sono gli altri. Il film tematizza i rapporti umani soprattutto attraverso due figure chiave: una è la fiducia, a sua volta rappresentata nella situazione iconica in cui bisogna scegliere tra due direzioni “fidarsi-non fidarsi”, salvo scoprire amaramente le contraddizioni dei propri illusori valori morali, e nello stesso tempo calata nella narrazione nella forma dei continui smacchi cui la fiducia negli altri sottopone il protagonista. L’altra, collegata alla prima, è la relazione di aiuto. Nel film ricorrono un gran numero di situazioni in cui uno dei personaggi chiede aiuto. Solo per fare degli esempi: il protagonista al centro commerciale, che lo troverà solo da parte di un mendicante bisognoso ma disinteressato; la donna aggredita alla cena di gala, mentre tutti gli altri commensali abbassano la testa sul petto; il bambino – insieme portatore di caos e vittima – spinto giù per le scale, la cui voce continua a tormentare il protagonista anche a porte richiuse. La richiesta d’aiuto appartiene innanzitutto ai mendicanti, cioè ai bisognosi (ma anche qui il gusto ironico e provocatorio di Östlund, regista e sceneggiatore, porta a sottolineare tutte le contraddizioni possibili: come le mendicanti che dicono a bocca piena di non avere da mangiare mentre mangiano, o come l’attivista che si prodiga per salvare le vite, salvo non accorgersi del povero stramazzato al suolo a pochi passi da lei), ma chiunque si può trovare in qualsiasi momento nello stato di bisogno: al protagonista Christian capita più volte in varie situazioni durante il film, e toccherà anche lui fare i conti con l’indifferenza degli altri. I ladri aspirano ai nostri beni, i mendicanti all’aiuto e all’assistenza, le figlie alle attenzioni parentali, i collaboratori a sottrarsi alle conseguenze di un consiglio azzardato, i copywriter al successo professionale costi-quel-che-costi, l’amante allo sperma contenuto in un preservativo, il bambino alla riabilitazione: gli altri sono i portatori di bisogni e di desideri alieni e destabilizzanti, che minacciano continuamente le nostre vite, i nostri beni, la nostra integrità fisica e morale, la sfera della nostra individualità. Il film ci offre anche in questo senso un intero catalogo di esemplificazioni. Anche l’arte contemporanea ha una doppia ambigua veste nel film: da una parte sembra presa in giro nella sua assenza d’arte, nella sua astrusa concettualità (è arte un quadrato disegnato per terra? lo fa diventare arte una scritta posta lì accanto?); dall’altra però rivela quasi di rimbalzo la pregnanza di un gesto provocatorio, assurdo, grottesco, ma rivelatore. L’arte mette a nudo le nostre contraddizioni (all’entrata dell’istallazione scelgo la direzione “Mi fido”; ma sarò ancora disposto a fidarmi quando un’altra scritta lungo il percorso mi inviterà a posare e lasciare per terra portafoglio e cellulare?), ci pone faccia a faccia con le nostre paure verso un’alterità inevitabilmente minacciosa e non dominabile, ci mette di fronte alle possibili conseguenze concrete delle nostre scelte e dei nostri valori ideali, destabilizza il nostro ambiente vitale (come quando Christian discute della natura della propria relazione con la nuova amante in una stanza del museo scossa ogni poche decine di secondi dal frastuono simulato di una catasta di sedie che si schiantano al suolo). L’apoteosi viene raggiunta nella sequenza dell’uomo-scimmia che, con la propria performance durante una cena di gala eccede superando la finzionalità pseudoartistica e mettendo i presenti inermi davanti al rimosso animale, istintuale, bestiale che si nasconde appena sotto la superficie della civiltà e che riemerge a tratti come irruzione del caos incontrollabile; e nello stesso tempo interrogandoli con brutalità sui loro valori, sulla solidarietà umana, sulla responsabilità nei confronti degli altri. Parallelamente, l’oscenità del video pubblicitario concepito dai due creativi senza scrupoli sonda da una parte i limiti del mostrabile, del lecitamente visibile, dell’etica della comunicazione, dall’altra ci interroga sulla libertà di espressione, sulla liceità della censura, in un circolo vizioso (o in labirinto quadro) da cui è arduo uscire. Il tema tra il mondo artificioso dell’arte e della ricchezza da una parte, della bruta realtà della vita dall’altra era tematicamente e visivamente al centro di Animali notturni di Tom Ford; ma la messa in crisi dei valori borghesi e di quelli illuministici, della razionalità, dell’immagine di sé dell’uomo civilizzato contemporaneo erano già tematizzati con crudele precisione anche dall’opera precedente di Östlund, già premiata a Cannes nella sezione Un certain regard: l’ottimo, spietato, ironico Forza maggiore, dove era invece una forza scatenante naturale e non umana a far deflagrare le certezze in dubbi e contraddizioni, quando una valanga di neve pulverulenta si abbatte sulle geometrie di una moderna stazione sciistica e sulla quotidianità di un’ordinata felice famiglia borghese. Come Vi presento Toni Erdman, The Square esprime una riflessione profonda e disorientante sulla società, anzi sulla civiltà contemporanea, utilizzando un registro ironico e umoristico; ma anche qui si tratta di un umorismo atipico, rarefatto e piuttosto raggelato, a volte riconoscibile solo a posteriori, una volta superato il disagio provato davanti a situazioni disturbanti, come le già citate sequenze della lotta per il preservativo o della discussione tra gli amanti, o della conferenza stampa disturbata o del minaccioso portatore di caos che si rivela essere un bambino ostinato – petulante - ma innocuo. The Square si spinge forse ancora più in là; dove Toni Erdman si concentrava sulla satira di un mondo ciecamente votato alla frustrante ricerca del successo professionale ed economico, decostruito da un pagliaccio-mostro che tenta di salvare la propria figlia, The Square allude ad una dimensione geopolitica ed economica (la povertà nel mondo globalizzato, l’iniqua distribuzione della ricchezza, ecc.), da una parte irridendola mentre la enuncia (è il protagonista che registrando un messaggio di scuse al bambino ingiustamente e involontariamente accusato di furto deraglia in uno sproloquio non privo tuttavia di verità), dall’altra trascendendola in una dimensione che è antropologica, forse esistenziale, forse metafisica. Una dimensione dove l’arte, ridicola come un mucchietto di ghiaia che si sfalda e viene spazzato via dall’addetto alle pulizie, o ironica come un film intitolato The Square, è forse lì a preannunciare il caos che potrebbe travolgerci.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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