ASTEROID CITY di Wes AndersonAsteroid City è una località nel deserto del Nevada, sorta vicino ad un cratere provocato da un meteorite: una pompa di benzina con officina meccanica, un drugstore, un gruppo di bungalow, un binario ferroviario, un osservatorio astronomico e poco altro. Qui si ritrova un eterogeneo gruppo di personaggi, ragazzi prodigio inventori, giovani astronomi e cadetti dello spazio, famiglie, attrici in viaggio; e poi militari e scienziati; e poi folle di visitatori e commercianti, perché nel frattempo, a 50 minuti dall’inizio del film, sorprendentemente, un alieno silenzioso e furtivo è sbarcato sulle Terra. Malgrado le accoglienze controverse riservate da tempo ai suoi film, Anderson non sposta di una virgola il suo modo di fare cinema. Una parte della critica e del pubblico è sempre più convinta che il suo sia un cinema vuoto, freddo, manierista, tutto forma e niente sostanza. Un’altra parte lo adora per la sua originalità, la sua vena di astratta follia, lo stile inimitabile, l’eleganza formale e lo stralunato aplomb delle narrazioni. Dalla parte di questi ultimi si trovano evidentemente produttori e buona parte dello star system hollywwodiano, tutti pronti a sostenere un progetto astruso come Asteroid City, vuoi con finanziamenti per 25 milioni di dollari, vuoi con la presenza in veste di interpreti. I suoi film infatti sono ormai evidentemente percepiti dagli attori come un posto dove bisogna esserci, una specie di festa dove sarebbe disdicevole non essere invitati o non presentarsi: un effetto che ha permesso a Anderson di avere nel cast del suo ultimo film dive e divi come Scarlett Johansson, Margot Robbie, Tilda Swinton, Jason Schwartzman (quasi onnipresente nei suoi film), Tom Hanks, Edward Norton, Steve Carell, Willem Dafoe, Adrian Brody, Jeff Goldblum, e così via, a volte per un solo take o sotto travestimenti irriconoscibili. In effetti, è impossibile non rimanere a prima vista colpiti e sedotti dall’immaginario visivo di Asteroid City, ambientato in un americanissimo deserto vintage anni ‘50, western, cartoonesco e color pastello. In realtà dovrebbe trattarsi di un set teatrale, perché in Asteroid City tutto è in cornice (o tra virgolette), e il film sta dentro una trasmissione televisiva (in bianco e nero) che racconta la genesi e la storia di una dramma teatrale omonimo. In realtà Anderson ci tiene a strizzarci subito l’occhio e farci vedere che sta scherzando, inquadrando in un establishing shot propedeutico il set desertico in una panoramica a scatti, a 360°. Non c’è quarta parete, non c’è pubblico, il set è il mondo e il mondo è un palcoscenico: una finzione che sta dentro un’altra finzione che sta dentro un’altra finzione, in un gioco di scatole cinesi senza pareti definitive. Dove Anderson getta dentro di tutto un po’: il cinema, e ci sono inseguimenti polizieschi senza storia nel vuoto del deserto, alieni che scendono dai dischi volanti e che sembrano la versione timida dei marziani di Tim Burton, o ispezioni nei crateri che sembrano venire da 2001 Odissea nello spazio; il cartoon, e c’è un geococcyx californianus (filologicamente, quello che Chuk Jones prese a modello per il suo roadrunner Beep Beep) che passeggia sul set; c’è la pittura, con i volti dei personaggi che sembrano usciti dalle illustrazioni di Norman Rockwell; e c'è il fumetto con una ligne claire color pastelli e caramelle; e poi c’è la tv col suo formato quadrato e in bianco e nero, e c’è il teatro con le sue scenografie di cartapesta, e c’è la fotografia, con le stampe appese in camera (oscura). E c’è perfino la storia, con i funghi dei test atomici che si elevano sul deserto come fuochi fatui accesi là dove Opennheimer e il progetto Manhattan, ma in un altro film, preparano la bomba distruttrice di mondi. E poi c’è il cinema di Wes Anderson, con il suo stile inconfondibile, i suoi vezzi, le sue autocitazioni, i sui attori e i suoi collaboratori abituali, quasi dei coautori, come lo scenografo Adam Stockhausen (Oscar per Grand Budapest Hotel) o l’inseparabile direttore della fotografia Robert D. Yeoman. E forse c’è qualcosa di Wes Anderson stesso, con gli echi biografici che rimandano ad abbandoni infantili, a bambini prodigi, alle prove giovanili nel cinema, nella scrittura, nel teatro. E anche nel film Asteroid City, che contiene tutto questo, tutto sembra inscatolato e incorniciato, dentro bungalow, tende, padiglioni, camerini, quinte da palcoscenico, quinte di edifici, finestre, vetrate. Molti dei dialoghi principali tra due dei protagonisti, il fotografo Augie e l’attrice Midge, si svolgono con i due inquadrati dentro le rispettive finestre dei rispettivi bungalow che guardano l’una verso l’altra (e verso le rispettive vite, fatte di foto appese e di prove d’attrice dentro la vasca da bagno). Anderson conferma la sua predilezione per le inquadrature frontali e simmetriche, o laterali e speculari, ma sfonda anche spesso le inquadrature in primo piano con fughe in finta profondità verso orizzonti ingannevoli e artificiosi, senza contare che tutta la narrazione principale è ben incasellata in atti e scene preannunciati da puntigliosi cartelli didascalici.
Ma cosa c’è dentro tutte quelle scatole? Nel fondo di questa fuga infinita? Difficile dirlo, se anche l’attrice che impersona un’attrice che sta dentro un film che parla di una rappresentazione teatrale che sta dentro una trasmissione televisiva che a sua volta sta dentro un film a volte non recita se stessa, ma un altro personaggio proiettata verso un’altra dimensione finzionale ancora, ancora più remota, ancora più frammentaria e inafferrabile. E allora? E allora resta il gioco prospettico, e ci si accorge che forse non erano scatole, ma una sorta di libro per bambini a fogli trasparenti, dove ad ogni pagina si intravedono le successive, una successione di figure bidimensionali, senza spessore e senza consistenza. Resta una folla di personaggi senza profondità, una serie di gag che non fanno ridere, di storie che non approdano da nessuna parte. Non trovando appigli nella storia e nella narrazione, alla fine lo spettatore tenta di aggrapparsi al puro testo filmico per trovare un senso a tutto questo (anche se tutto questo, viene da pensare parafrasando Vasco Rossi, un senso forse non ce l’ha). E allora viene da pensare a quel meteorite (il film), una piccola palla di pietra che ha scavato un grande cratere nel nulla del deserto (il clamore mediatico suscitato dalla pellicola); o a quell’alieno che sbarca sulla terra, prende il meteorite, se lo porta via, poi lo riporta, senza che nulla cambi per nessuno; o ancora viene da paragonare il film a quel sovrappasso con la rampa interrotta che campeggia ad Asteroid City, una costruzione e un percorso celibi che non portano in nessun luogo. Oppure si è tentati di identificare Wes Anderson con quel ragazzino prodigio al quale viene chiesto perché tenti continuamente nuove sfide assurde. Qual è la ragione? Qual è il senso? gli chiedono. Non lo so; forse è perché ho paura che, altrimenti, nessuno si accorgerebbe della mia esistenza nell'universo, è la risposta.
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OPPENHEIMER di Cristopher NolanMi capiterà (di nuovo) forse di farmi delle inimicizie parlando di Oppenheimer, di cui, a giudicare dalle reazioni critiche e dalle opinioni social, largamente positive quando non entusiastiche e reverenziali, forse non sono stato in grado di capire e riconoscere la grandezza. Con Tenet si era capito che la ricerca di Nolan sulla struttura del tempo era arrivato ormai ad un punto morto e di non ritorno, sull'orlo della ridicolaggine, dove un espediente puerile veniva messo al servizio di una risibile storia zerozerosettesca. Nolan reagisce quindi con un colpo di reni, e si dedica con il nuovo progetto ad indagare contemporaneamente in altre ambiziosissime direzioni: la coscienza umana, la Storia, la struttura stessa della materia e della realtà. Oppenheimer è dunque un meta-biopic che solleva grandi temi, come la comprensione dell’universo, i limiti della scienza (quelli oggettivi e quelli morali), la responsabilità dello scienziato, la sostenibilità della politica della deterrenza, la politicizzazione della ricerca scientifica e la caccia alle “streghe” comuniste, l’impegno intellettuale e politico e le conseguenze da pagare. La figura guida è quella di Robert J. Oppenheimer, scienziato/intellettuale il cui ritratto è da una parte immerso nel momento storico (dagli anni ‘30 della Guerra civile in Spagna alla Guerra mondiale contro nazisti e giapponesi, e al dopoguerra dove al nemico fascista si sostituisce quello dell’ex-alleato comunista), radicandone la formazione anche nella temperie culturale dell’epoca (psicanalisi, marxismo, avanguardie artistiche); dall’altro nel coacervo dei sentimenti umani in cui si mescolano amore, odio, ambizione, invidia, tradimento, gloria, frustrazione, rimorso. Eppure, la mia impressione è che Oppenheimer sia una montagna, o meglio un elefante, che partorisce un topolino. Dove l’elefante può essere appunto il tema della comprensione dell’universo, la bomba atomica che prefigura la possibilità di un annientamento totale dell’umanità, la questione morale riguardante un intervento “dimostrativo” (il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki per costringere il Giappone alla resa, comunque ormai imminente) al costo di oltre 200.000 vittime civili innocenti stimate. E il topolino può essere la vita privata di Oppenheimer, con gioie e miserie, ma ancor più la diatriba con Strauss, Presidente della commissione degli Stati Uniti d’America, che sulla base di presunti torti subiti complotta segretamente per scatenargli contro una campagna per screditarlo e denigrarlo, basando le sue argomentazioni sui passati contatti di Oppenheimer con organizzazioni comuniste statunitensi. Il problema non mi sembra – anzi - mischiare l’alto e il basso; il sublime della scienza e dei dilemmi morali con le bassezze delle passioni umane; la coscienza tragica di chi indagando la struttura profonda della materia è pervenuto ad elaborare un’arma in grado di distruggere potenzialmente tutta l’umanità e le vicende quotidiane; l’angelo sterminatore forte del proprio intelletto e della propria conoscenza e l’uomo comune alle prese con le beghe tra colleghi, le relazioni extraconiugali, i bambini che piangono (praticamente sempre): è semmai un problema di proporzioni. Nolan non rinuncia del tutto a giocare con il tempo - com’è suo solito: ne parlavo qui di recente, recensendo la sua opera prima, Following -, frammentando la narrazione (il montaggio è molto serrato anche nelle situazioni apparentemente più statiche), amplificandola, replicandola (ci troviamo ad assistere allo stesso episodio da più prospettive, e con differenti quantità di informazioni a nostro favore); è quindi perdonabile se a volte il processo può ingenerare qualche difficoltà di orientamento allo spettatore (non ci sono marche temporali, ma una fastidiosa alternanza di colore e bianco e nero, che ha l’effetto di segmentare il flusso narrativo rimettendo continuamente in gioco la credulità di chi guarda). Più problematica dal punto di vista drammaturgico è l’ampiezza spropositata concessa alla bega Strauss-Oppenheimer, prima con la commissione chiamata a giudicare a posteriori l’operato e la lealtà di Oppenheimer (cui assistiamo prima di sapere che è occultamente manovrata da Strauss e poi dopo che siamo portati a conoscenza della cosa), poi con la commissione senatoriale che dovrebbe portare alla nomina di Strauss a Segretario al Commercio e nel corso della quale il suo complotto viene smascherato. Una vicenda istruttiva, ma che poteva forse essere condensata, a favore di un film molto più breve. La ripicca di Strauss (a cui favore gioca un’interpretazione scavata e in bianco e nero di Robert Downey jr.) finisce per avere un peso equivalente se non superiore a quello dei grandi temi sollevati dal film, con un effetto che a me è parso di ripetitività, di ridondanza e di parziale irrilevanza. Per fare solo un esempio, in un film incentrato sulla creazione e l'impiego della bomba atomica, si parla delle tresche extraconiugali di Oppenheimer emerse durante l'inchiesta, ma non c'è una sola immagine (né dentro il film, né magari nei titoli di coda) che ricordi i reali effetti devastanti della bomba, o uno solo dei 220.000 giapponesi (uomini, donne, vecchi, bambini) vittime innocenti delle più gigantesche e mostruose singole azioni di sterminio di massa mai operate da esseri umani nella storia. Se Cillian Murphy (ottimo) nel ruolo del titolo sembra visivamente una citazione vivente de L’uomo che non c’era dei Coen (ma Oppenheimer c’era eccome, e non era certo il burattino nelle mani del destino cinico e beffardo raccontato dai fratelli terribili e fatalisti), e i due amanti che discutono nudi in poltrona sembrano provenire per direttissima da L’amant double di Ozon, sono in realtà un altro paio di titoli che mi vengono in mente parlando di Oppenheimer. Due paragoni che non escludo qualcuno potrà ritenere offensivi. Il primo è con Barbie, film cui Oppenheimer per tempistica di uscita è stato spesso accostato, dando luogo al fenomeno social Barbenheimer. Il film di Nolan mi è parso un po’ l’opposto di quello della Gerwig: se Barbie parte da un apparente grado zero intellettuale, usando un immaginario pop e kitsch, venale e puerile, per poi “alzarsi” ad imbastire un discorso piuttosto serio sulle tematiche di genere, Oppenheimer mette in campo invece ambizioni smisurate (alla Malick, si direbbe, per l’utilizzo insistito di immagini che tentano di evocare la struttura profonda e invisibile della realtà), cerca l’enfasi a tutti i costi (anche con il contributo dell’invadente pompatissima colonna sonora di Ludwig Göransson), accumula temi interessanti e personaggi storici (da Einstein al presidente Truman, con a disposizione un cast di extra-lusso), per poi concentrarsi in modo sproporzionato su una vicenda in fondo meschina (per quanto, come si diceva prima, significativa). Se quello con Barbie è un paragone per contrasto, me ne è venuto alla mente prepotentemente un altro per analogia, con un film che so pure essere stato molto detestato, il Blonde di Andrew Dominik (lancerò il fenomeno Blondenheimer?). Entrambi i film partono da biografie letterarie preesistenti (American Prometheus, ovvero Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato di Bird e Sherwin; Blonde di Joyce Carol Oates sulla vita di Marylin Monroe), entrambi hanno una lunghezza abnorme, entrambi sono film tendenziosi (con una connotazione non del tutto negativa: ovvero film a tesi, che perseguono una visione molto orientata del personaggio, basata su elementi psicologici e biografici privilegiati), entrambi ricorrono ad una narrazione estremamente frammentata e all’alternanza (a mio parere non sempre giustificabile) tra fotografia a colori e in bianco e nero, ed entrambi ricorrono anche ad immagini di tipo onirico. Azzardando sia nell’uno che nell’altro caso sequenze davvero di dubbio gusto: se molti si sono lamentati del feto parlante di Blonde, non ci sarà proprio nessuno (a parte me) che troverà ridicolo e fuori luogo far apparire Oppenheimer davanti alla commissione prima improvvisamente denudato, e poi scopato seduta stante (letteralmente) dalla sua amante nuda? O se molti avevano trovato inappropriata la scena della fellatio presidenziale di Blonde, a nessuno sarà sembrata grottesca la scena della scopata con contestuale e contemporanea lettura di testi sacri in sanscrito antico? Insomma; nel caso Nolan ci ripensasse, io sono qui e aspetto la versione director’s cut di Oppenheimer: quella lunga un’ora e mezza. INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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