MEMORY di Michel FrancoQualche anno fa avevo scritto un breve saggio (pubblicato sul n. 198 di SegnoCinema nel marzo 2016) dal titolo “La memoria, la storia, l’oblio, il cinema”, in cui prendevo in esame le figure dell’amnesia e dell’oblio nel cinema contemporaneo, deducendone che l’assenza di memoria è spesso l’artificio retorico e psicologico per rimuovere contenuti storici ed esistenziali traumatici che non hanno potuto giungere ad una compiuta elaborazione e quindi al loro superamento.
Memory, il nuovo film del regista di origine messicana Michel Franco, a cominciare dal titolo dichiarativo, si sarebbe ben inserito in quella trattazione. Il tema della memoria (e del suo contrario) appare subito centrale: il rapporto tra Sylvia e Saul si innesca da principio su un falso ricordo di lei, che lo accusa di aver avuto comportamenti sessuali inappropriati quando lei era appena una dodicenne. Entrambi provengono da famiglie borghesi benestanti, ma mentre Sylvia è un ex-alcolista che ha seguito un lungo periodo di riabilitazione e ora lavora come assistente in un centro diurno per disabili, Saul, benché cinquantenne, è affetto da demenza precoce e ha delle falle nella memoria a breve termine che lo rendono inaffidabile. Franco, dopo il sulfureo Nuevo orden (ma in mezzo c’è stato anche Sundown), passa da un cupo affresco contemporaneo del disordine, della diseguaglianza e dei rapporti di potere, inquadrato in una dimensione fortemente socio-politica, ad un racconto intimo, centrato sulla relazione che si crea sui due protagonisti, entrambi alla ricerca di un rapporto che lenisca le ferite che la vita ha inferto loro, ma che si allarga anche ai rispettivi contesti famigliari. Ed è proprio nella famiglia di Sylvia che si radicano segreti inconfessabili che sono anche alla base dei suoi traumi, e che tutti cercano o fingono di non ricordare. Al racconto cinematografico spetta quindi il compito, via via fino alla catarsi finale, di smascherare i falsi ricordi, di cercare di tamponare le amnesie, di superare le rimozioni ipocritamente consapevoli (come quelle della madre di Sylvia e forse anche del cognato) o quelle psicologiche di donne che hanno cercato di superare con la dimenticanza gli abusi vissuti da bambine (come la stessa Sylvia o la sorella minore Olivia, vittima in secondo grado). Franco imposta la narrazione su una sequenza enigmatica e inqueitante (il pedinamento notturno di Sylvia da parte di Saul) ma mantiene poi un tono della narrazione piuttosto freddo e distaccato, con sequenze prevalentemente statiche a camera fissa. Il nichilismo senza scampo di Nuevo orden tuttavia si stempera, o addirittura si capovolge, nella speranza della ricostruzione di relazioni umane che possano risorgere e rinsaldarsi anche scaturendo da presupposti drammatici e problematici. Merito anche di due interpreti credibili come la Chastain e Sarsgaard (premiato a Venezia con la Coppa Volpi); ma sorge il dubbio che il provocatore Franco stavolta sia stato fin troppo buono, mettendo in scena una demenza che in fin dei conti provoca qualche limitato problema (un paio di svenimenti, l’impossibilità a seguire un film in tv), ma che non inficia i rapporti tra Saul e i suoi familiari, né la possibilità di intraprendere positivamente un rapporto sentimentale con Sylvia.
0 Commenti
HOW TO HAVE SEX di Molly Manning WalkerA dispetto del titolo, How to Have Sex non è un manuale per procurarsi o per fare sesso.
Anche se, forse, un manuale di educazione sentimentale non farebbe male alle tre protagoniste, in vacanza balneare come la giovanissima protagonista di Aftersun, ma alla ricerca di “una vacanza da sballo” (sia pur senza le derive pulp) come le quattro sgallettate protagoniste di Spring Breakers. Tara, Em e Skye sono tre ragazze britanniche, non ancora diciottenni, che calano su Malia, a Creta, alla ricerca di una vacanza che dovrà necessariamente essere “la più bella della loro vita”. Il che vuole dire fare nuove conoscenze, divertirsi, ridere, vestirsi più sexy possibile, ballare, bere, sbronzarsi, vomitare, risbronzarsi, e, naturalmente, scopare il più possibile. Tara poi è ancora vergine e quindi il suo obiettivo, coadiuvato dalle amiche, è di ovviare al più presto a questo stato increscioso. Le tre sono sul crinale tra l’adolescenza e quella che sarà la vita adulta; sono alle prime esperienze sessuali, sono alla fine del loro percorso scolastico e stanno aspettando l’esito degli esami (due ce la faranno, una no); presto dovranno decidere del loro futuro, tra università o altri percorsi di vita. E’ il momento in cui un adolescente, soprattutto quando si trova tra amici, si sente immortale, un groviglio confuso di possibilità in attesa di dipanarsi, che potrebbe prendere qualsiasi direzione. I genitori sono assenti, dimenticati, lontani dagli occhi e dal cuore, al massimo una voce remota e consolatoria al telefono in un momento difficile. Per le tre ragazze la vacanza significa vivere euforicamente nel qui e ora, senza preoccupazioni, a volte senza pensieri del tutto, stordite dall’eccitazione e dall’alcol, che contribuisce a far cadere le ultime inibizioni eventualmente ancora presenti. La prima parte del film è corale, frastornante, tra dialoghi a ruota libera, musica da discoteca, luci colorate, montaggio serrato. Le tre ragazze si muovono d’altra parte all’interno di un divertimentificio costruito su misura, ad uso e consumo loro e dei loro coetanei, tutto orientato a solleticare e a soddisfare le pulsioni ormonali di orde di giovani affamati di sesso e assetati d’alcol (nel film non si fa mai cenno ad altre sostanze stupefacenti), che devono divertirsi, spendere e magari tornare l’anno successivo, senza mai fermarsi a riflettere o semplicemente a provare delle emozioni che non siano quelle dell’esaltazione e dell’eccitazione. Poi l’attenzione della regista Molly Manning Walker (che alla sua prima prova si aggiudica il premio della sezione Un certain regard a Cannes) si concentra sul personaggio di Tara, e gradualmente si comprende che il significato più autentico del film non risiede nei momenti concitati e assordanti, ma nei silenzi che gradualmente acquistano sempre più importanza nel film. L’illusione edonistica si sgretola mano a mano, e il film suggerisce perfino (grazie anche alla colonna sonora) una svolta drammatica quando Tara scompare durante una notte brava e non ricompare la mattina seguente. Il sesso (nel film oltre alle droghe mancano completamente scene di nudo) alla fine si rivela nel suo lato peggiore, come grottesca esibizione triviale o come una sorta di dovere assolto in quella zona grigia dove lo stordimento alcolico annebbia il desiderio e la consapevolezza, tanto del consenso quanto del piacere. Per Tara sarà alla fine una vacanza importante; forse - si spera - non “la migliore della sua vita”, ma in cui imparerà delle cose – anche amaramente, dai propri e altrui errori - e anche il loro valore. Imparerà a dare ascolto alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, a dare un peso alle persone, ai comportamenti, alle scelte e alle relazioni, a distinguere (perfino tra le sue amiche) tra quelle che contano e quelle che invece non hanno valore. E’ una commedia degli errori, dove Tara sbaglia a scegliere il proprio partner; lui sbaglia le sue mosse nei suoi confronti; il ragazzo forse giusto fa la scelta sbagliata; e le amiche sbagliano nel non essere abbastanza vicine a Tara, per invidia o per distrazione, quando lei ne avrebbe bisogno. Mia McKenna-Bruce nel ruolo di Tara ha la parte più impegnativa, e deve passare dall’impacciata e spavalda esuberanza della prima parte allo smarrimento e all’incertezza e infine alla malinconica disillusione che mano a mano prende il sopravvento; speriamo che al suo personaggio vada meglio alla prossima vacanza, e nella sua vita. Aspettando How to Have Sex II – Another Holiday... AMERICAN FICTION di Cord JeffersonIl raffinato scrittore afroamericano Thelonious “Monk” Ellison, frustrato dal rifiuto degli editori del la sua ultima opera, ispirata a I Persiani di Eschilo, che, malgrado i giudizi lusinghieri, è ritenuta troppo poco “afro”, si diverte per stizza a scimmiottare gli scrittori che ottengono successo grazie allo sfruttamento degli stereotipi legati alla black culture.
E, guarda un po’, il suo nuovo libro, provvisoriamente intitolato My Pafology e firmato con un trasparente pseudonimo, suscita subito l’interesse di editori (che si offrono di comprare i diritti di pubblicazione a suon di centinaia di migliaia di dollari) ma anche dell’industria cinematografica che vorrebbe trarne un film (e qui si parla di milioni). Il libro - una parodia nelle intenzioni dell’autore - è sufficientemente grezzo e rude, violento, apparentemente “vero” e vissuto, intriso del gergo e della cultura di strada, pieno di stereotipi, dai melodrammi ambientati in famiglie disagiate ai criminali neri sbrigativamente ammazzati dalla polizia. E’ giusto quel che ci vuole per piacere agli editor e al pubblico, in particolare al pubblico bianco che così pensa di espiare i propri sensi di colpa e il proprio razzismo, conscio ed inconscio. Per rendere il prodotto più “credibile” e appetibile, l’agente di Monk presenta addirittura il suo fantomatico autore come un delinquente evaso e ricercato dalla polizia. A nulla serviranno i rimorsi e i ripensamenti di Monk, che arriverà anche provocatoriamente a cambiare il titolo del romanzo in Fuck, nella speranza di un ripensamento da parte degli editori e di un rifiuto. Il libro ormai farà la sua strada - con il titolo senza asterischi -, arrivando ad essere candidato ad un prestigioso premio letterario, nella cui giuria, guarda caso, è stato chiamato lo stesso Monk, dal momento che tutti, tranne il suo agente, ignorano la paternità dell’opera. Evidentemente tutto nel film tende al paradosso, e la satira è arguta e pungente, anche se si tiene sempre al di qua del confine del grottesco. Ad essere messa in ridicolo è l’industria culturale bianca (in campo letterario e cinematografico, rappresentata nel film da editori, esperti di marketing, registi, direttori di premi, ecc.), che si dibatte tra ideologia woke e strategie blackwashing, preoccupata di non apparire politicamente corretta e impegnata ad offrire al proprio pubblico - neri vogliosi di identificazione ma soprattutto bianchi con sensi di colpa - prodotti rappresentativi delle minoranze, ma rigorosamente adeguati ai relativi stereotipi di riferimento. Uno scrittore nero va bene, ma se scrive usando il crudo slang degli slums, e non è invece un presuntuoso accademico che cita i classici greci; un protagonista nero va bene (meglio di un bianco divorziato che racconta la propria vita), ma solo se è un gangsta, con catene d’oro, canottiere, pistole e sacchi di droga, in lotta con il mondo e che vive nell’universo delle canzoni rap. Cosa c’è di meglio quindi di uno scrittore criminale e ricercato, che, se si presentasse a ritirare il premio letterario tributatogli, rischierebbe di finire crivellato sotto i colpi di poliziotti bianchi? Cord Jefferson porta sullo schermo il romanzo – basato anche su spunti autobiografici – Erasure, cancellazione (si sfiora un altro tema sensibile e dolente, quello della cancel culture) di Percival Everett, guadagnando al suo esordio alla regia cinque candidature all’Oscar, tra le quali quelle per miglior film e miglior sceneggiatura. La storia principale è impaginata insieme alla rappresentazione della vita privata e famigliare del protagonista, che occupa uno spazio considerevole nella narrazione. Qui Jefferson dipinge un bel ritratto di famiglia, tra fratelli, madri, (il padre è relegato nei ricordi), anziane domestiche ormai “di famiglia” con relativi spasimanti, e nuove fiamme sentimentali. L’intento è evidentemente quello di fornire il quadro di una famiglia nera diversa, ma diversa solo dagli stereotipi che vogliono sullo schermo neri marginali e criminalizzati (come quelli che Monk guarda infastidito in un film che scorre in televisione): in realtà una “normale” famiglia altoborghese e benestante, composta sostanzialmente da brave persone, e da professionisti affermati (scrittori, medici, avvocati), che cerca di affrontare con la cultura, l’ironia e l’affetto reciproco le avversità e le sorprese che la vita spesso o sempre riserva alle famiglie normali (malattia, vecchiaia, lutti, tradimenti, separazioni, divorzi, orientamenti sessuali eterodossi, difficoltà professionali, ecc.). Ma proprio l’agio il film si prende in questo ritratto famigliare, per quanto gradevole e con una propria vena di tenerezza, rischia di annacquare l’interesse principale del film, quello della satira culturale, che pure ha momenti molto gustosi. Il racconto del libro nel film e del film nel film permette un gioco metatestuale, riuscito a volte meno (come i personaggi che si materializzano nello studio di Monk, seduto alla macchina da scrivere) e a volte più (come il triplo o quadruplo finale à la carte. Anche Jeffrey Wright, nel ruolo del protagonista, già pluripremiato per la sua partecipazione alla miniserie HBO Angels in America, è candidato all’Oscar, così come la colonna sonora di Laura Karpman, morbida e jazzata anche se talvolta un po’ prevedibile. Per concludere, visto che comunque è un film di da dibattito, un paio di dubbi mi sono rimasti: la rappresentazione delle brave persone all’interno e intorno alla famiglia Ellison non rappresentano forse dei controstereotipi, e quindi in definitiva degli stereotipi a loro volta? E le candidature del film all’Oscar, non rischiano forse di rappresentare un esempio di quell’ipocrisia dell’industria culturale a prevalenza wasp, che si sente in obbligo di mettere sul piatto una doverosa quota black? LA SALA PROFESSORI (Das Lehrerzimmer) di Ilker ÇatakUna tranquilla scuola media tedesca, efficiente e moderna, dove convivono studenti e insegnanti di etnie e provenienze diverse e dove una pragmatica preside ha impostato una politica di tolleranza zero verso bullismo e comportamenti devianti.
Eppure nella scuola avvengono da un po' di tempo piccoli furti ad opera di ignoti. Dopo che alcuni studenti sono stati interrogati in modo poco ortodosso e sospettati ingiustamente, la giovane insegnante Carla Nowak, di proposito ma quasi d'impulso, mette in atto una piccola trappola: assentandosi, lascia il portafoglio nella tasca della giacca appesa alla sedia, in sala professori, e sulla scrivania di fronte il pc aperto con la telecamera in funzione. Quando rientra trova qualche banconota in meno nel portafoglio e delle immagini nel pc che sembrano indicare senza eccessivi dubbi chi le ha sottratte. Carla cerca di risolvere le cose con le buone; non ci riesce, sicché si sente costretta a coinvolgere la preside mettendola a conoscenza della propria scoperta. Da qui in poi tutto salta: la vicenda si ingigantisce coinvolgendo tutta la scuola, gli studenti, i genitori, i docenti, il personale amministrativo. Gli sviluppi rimettono in discussione ogni ordine e ogni certezza: il diritto al controllo e quello alla privacy, la presunzione d'innocenza e l'onere della prova, il razzismo e l'inclusione, il dialogo e la tolleranza zero, il ruolo dei genitori e degli educatori, la solidarietà tra colleghi e le relative idiosincrasie. Il problema è complicato dal fatto che nella vicenda rimane direttamente coinvolto, pur incolpevole, il ragazzino Oscar, studente modello e miglior allievo della classe di Carla, che entra violentemente in crisi. Se il microcosmo chiuso della scuola, con i suoi spazi geometrici percorsi e ripercorsi, in cui è concentrata praticamente la totalità della vicenda, diventa una metafora della società e delle sue contraddizioni, Ilker Çatak (che firma anche la sceneggiatura insieme a Johannes Duncker) filma il dramma scolastico quasi come un thriller psicologico (non mancano interrogatori, accuse, furti, colluttazioni, inseguimenti), con riprese nervose quanto la protagonista e accompagnate dalla musica di Marvin Miller che sottolinea la tensione crescente. Carla è una sorta di novella Justine sadiana, piena di virtù e di buona volontà ma afflitta dagli eventi, attaccata da tutti senza essere in grado di difendersi adeguatamente, trovandosi paradossalmente a passare dal ruolo di giusta accusatrice a quello di ingiustamente accusata: tutti le danno addosso, non solo coloro che sono danneggiati dalle sue accuse ma anche i propri studenti, quelli più grandi che curano la redazione del giornale scolastico, i colleghi insofferenti, i genitori che esigono chiarimenti che lei non può fornirgli, e quasi perfino la preside che si trova a gestire una situazione sempre più ingarbugliata e scottante. Leonie Benesch, che esordì ne Il nastro bianco di Haneke, è un'interprete efficace nell'esprimere le sfumature di un personaggio monocorde solo in apparenza: con l'affetto per i suoi allievi, la sua sete di giustizia e la sua dirittura morale che la rende quasi rigida, il suo sgomento nel vedersi avversata, il suo senso di soffocamento nel sentirsi aggredita, i suoi dubbi e i suoi rimorsi, la sua sofferenza per la sofferenza inflitta ad Oscar. Gli autori giocano forse anche sul doppio registro morale dei protagonisti del film: la protagonista, di origine polacca, pur mossa da valori di onestà e giustizia, permeata dalla cultura cattolica della confessione, della comprensione e del perdono; le istituzioni scolastiche attestate invece su più stringenti posizioni calviniste riguardo alla responsabilità individuale. (Un po' generosamente) candidato all'Oscar come miglior film internazionale, La sala professori ha una buona sceneggiatura (con qualche piccola sbavatura dialettica, ma senza mai compromettere la credibilità psicologica delle situazioni), un buon ritmo e una buona tensione (magari con un paio di ralenti evitabili) e contenuti idonei a suscitare dibattito tra gli spettatori. Consigliato agli insegnanti. LA ZONA D'INTERESSE (The Zone of Interest) di Jonathan GlazerIl tema della rappresentazione dell’Olocausto nel cinema ha suscitato alcune delle più celebri controversie nella storia della riflessione sul cinema. Un evento come l’Olocausto, per le sue proporzioni “smisurate”, per la sua atrocità, per la sua terrificante razionalizzazione dell’abominio, è apparso fin da subito un tema “fuori scala” rispetto all’umano, e a maggior ragione inenarrabile e non rappresentabile, se non attraverso la voce diretta (gli scritti, i disegni, le foto, le riprese) dei sopravvissuti e dei testimoni. Nel 1961 Jacques Rivette dai Cahiers du Cinema innesca una celeberrima polemica sulla carrellata in avanti con cui Gillo Pontercorvo inquadra la morte della protagonista sul filo spinato elettrificato in Kapò; nel 1997 l’uscita de La vita è bella di Roberto Benigni suscita lo sdegno di molti per aver raccontato la deportazione in chiave di commedia (fiabesca); e se qualche anno prima con Schindler’s List Steven Spielberg aveva sfidato il tabù della messa in scena, spostando in là i limiti della visibilità, più recentemente László Nemes ne Il figlio di Saul (che a Cannes si aggiudica il premio speciale della giuria, esattamente come La zona d’interesse otto anni dopo, e che ha anche vinto un Oscar, come potrebbe accadere tra qualche giorno al film di Glazer) concentra il focus sulla soggettività disperata e distorta di un sonderkommando (addetto alla pulizia dei forni crematori), sfocando tutto l’irrappresentabile contesto circostante, in un pudore della visione che è disperata rimozione da parte del protagonista, e rinuncia dell’autore a rappresentare l’oscenità della morte; mentre è ancora un autore ungherese, Kornél Mundruczó, nel 2021, a tradurre il tema in uno stilizzato, beckettiano teatro dell’assurdo nel primo segmento del notevole Quel giorno tu sarai, ambientato in una claustrofobica no man’s room impestata di morte da cui rinasce inaspettatamente e insperabilmente la vita. Se l’Olocausto e la messa in scena dei campi di sterminio di massa sono irrappresentabili, Glazer sceglie allora, semplicemente, di non rappresentarli. I primi minuti del film scorrono su uno schermo totalmente nero e la gran parte della narrazione successiva si svolge infatti nella cosiddetta “zona d’interesse”, cioè nella fascia di territorio “speciale” compresa nel raggio di 40 chilometri intorno alle fabbriche della morte naziste. L’epicentro del racconto non è pertanto il lager, che chiude come sfondo l’orizzonte di moltissime sequenze e di cui non vediamo mai l'interno (c’è un’unica inquadratura dentro al campo, che mostra solamente, dal basso, il volto di Rudolf che guarda in alto verso un cielo senza colore annebbiato dal fumo, che diventa infine un uniforme campo bianco e lattiginoso), ma la dimora con giardino di Rudfolf Höss, comandante del lager di Auschwitz. I protagonisti non sono deportati e aguzzini, ma lo zelante funzionario della morte e la sua bella famigliola (moglie, figli di diverso sesso ed età), suocera e personale di servizio. Tutto ne La zona d’interesse sembra ribaltarsi nel suo contrario logico, e la tragedia immane ed epocale per l’umanità si trasforma nel racconto nell’idilliaca elegia di una vita domestica vissuta in una casa confortevole, in un giardino ordinato, fiorito e profumato, nel godimento della natura circostante, con bagni al fiume e passeggiate a cavallo tra boschi e piante. Anche la tradizionale iconografia stagionale viene ribaltata: al posto dei rigidi inverni gelidi e innevati che sembrano spesso un must nei film ambientati nei campi di concentramento, per gran parte del film impera un’estate di sole splendente, piena di fiori e di vegetazione rigogliosa. Ma quello che è rimosso dalla visione ritorna in gran parte attraverso il sonoro (e solo marginalmente per qualche particolare che si insinua nella visione). Solo pochi metri, una strada da attraversare, separano infatti la dimora degli Höss dalle mura e dalle torri del lager, e tutto il film è infiltrato in modo perturbante dai rumori che provengono da al di là del muro. Urla umane, latrare di cani, il sordo rumore di fondo di una macchina della morte in funzione giorno e notte. Pochissimi elementi tangibili e visibili trapelano dal lager verso l’ambiente circostante: un osso portato dalla corrente, la cenere dispersa nell’aria che si deposita nel fiume e insozza i corpi dei bagnanti, i denti d’oro strappati ai deportati e conservati in casa come un piccolo tesoro di famiglia. Tra una faccenda domestica e l’altra, la coltivazione del giardino e le escursioni nella natura, i giochi e gli scherzi dei bambini, c’è il piacere delle mogli degli ufficiali che chiacchierano tra loro dei beni trafugati agli ebrei e spartiti tra loro; e c’è il dovere di Rudolf, che nel salotto di casa discute con i tecnici i modi con cui efficientare e implementare l’attività dei forni, come si trattasse di un qualsiasi processo industriale, attraverso migliorie al ciclo di combustione/raffreddamento, carico/scarico delle camere crematorie opportunamente disposte ad anello, per velocizzare la distruzione dei cadaveri della grande maggioranza dei deportati inadatti a lavorare come schiavi al servizio dei dominatori tedeschi. Rappresentazione icastica della banalità del male, la normalità della vita domestica diventa per lo spettatore - letteralmente spiazzato - in ogni suo aspetto, anche minimo, un’allusione perturbante a quello che si avviene a qualche decina di metri di distanza, troppo vicino per non sentirne il rumore incessante: se Brecht diceva che “parlare d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio”, qui ogni volta che si parla di fiori da raccogliere dalle siepi (in modo responsabile per non compromettere “il bene della comunità”), di animali domestici, di giochi di bambini, del clima, di abiti o gioielli, del “paradiso” in cui vivono gli Höss e dei loro sogni realizzati, o ancora di fiabe della buona notte dove si parla di cuocere vivi Hansel e Gretel in un forno, tutto rimanda, per il disagio e il disgusto dello spettatore, alla disumanità e all’atrocità nascosta al di là del muro, sopra il quale si alza perennemente il fumo di chi è condannato, senza colpa, “a passare per il camino”. Al buio, attraverso le finestre rilucono i bagliori notturni che riescono a sgomentare la suocera, alloggiata nella ricca casa della figlia e un tempo donna di servizio delle famiglie ebree che poco più in là stanno bruciando nei forni crematori. Nella notte, reale o apparente, è relegato l’unico atto di umanità e di solidarietà mostrato nel film: una giovane ragazza, trasformata in un fantasma dalle riprese con la telecamera termica , che abbandona dei frutti sui campi dove i deportati saranno portati a lavorare. Nel mondo all’incontrario vigente ne La zona d’interesse, è l’unica trasgressione al regime realistico della rappresentazione (quasi immagini di un mondo “alieno” che sembrano rimandare all’universo astratto e e stilizzato di Under the Skin): si direbbe l’eccezionalità del bene impressa sul negativo della pellicola, contrapposto al positivo della banalità del male imperante. Il regime stilistico del film, di perfezione kubrickiana, è ugualmente radicale e coerente nella tecnica di ripresa, che evita i movimenti di macchina, a parte pochissime carrellate laterali, in genere parallele al grigio muro invalicabile. Per il resto, pur presentando un montaggio nella norma, con sequenze brevi e paratattiche, che includono eccezionalmente inquadrature non naturalistiche come quelle dall’alto (in cui i gerarchi nazisti discutono della deportazione di ulteriori centinaia di migliaia di ebrei ungheresi), i personaggi sono sempre imprigionati nelle scatole visive della camera fissa, che si fa particolarmente opprimente nella scena finale della discesa delle scale da parte di Rudolf, che quasi in una trance onirica sembra “vedere” - a loro volta inscatolate e musealizzate in asettiche vetrine espositive - gli inerti residui del suo atroce lavoro. Ancora una volta, il problema principale di fronte al ricordo insopportabile dello sterminio, è tenere tutto pulito e in ordine.
Coprotagonista necessaria della tragedia invisibile è Hedwig, la moglie di Rudolf, magnificamente resa con movimenti goffi da Sandra Hüller (che nella stagione 2023/24 ha accumulato premi e candidature sia per La zona d’interesse che per Anatomia di una caduta), una donna mediocre ed egoista elevata dal rango di figlia di una donna di servizio a “regina di Auschwitz”, talmente innamorata del suo “paradiso” (dal quale a centinaia di migliaia avrebbero voluto in ogni modo fuggire per scampare alla morte) da combattere con tutte le sue forze per non esserne scacciata, al costo di rinunciare alla presenza del marito, trasferito ad altra destinazione. E’ in fondo questa la tragedia rappresentata nel film, non quella di milioni di persone sterminate nell’Olocausto, ma quella di una famigliola che rischia, a causa di un trasferimento burocratico vissuto come ingiusto, di dover abbandonare il luogo da sogno dove vive felice (per la cronaca, Höss fu impiccato nel 1947 nella “sua” Auschwitz – era stato lui a fare issare sul portone del campo di concentramento la scritta “Arbeit macht frei” -, dopo aver cercato di dissimulare la propria identità, essere stato condannato per crimini contro l’umanità ed essersi convertito in extremis al cattolicesimo). Film teorico, concettuale, filologicamente accurato, di freddezza e di rigore kubrickiani, La zona d’interesse interpella direttamente non solo i negazionisti, che – al pari dei famigliari di Höss che non attraversano i pochi metri di strada e non guardano cosa succede dietro il muro - si rifiutano di fare quei pochi metri di percorso intellettuale che li metterebbe di fronte all’evidenza inconfutabile delle testimonianze e delle prove materiali e documentali dello sterminio. Ma in maniera più indiretta chiama in causa la responsabilità qualunque spettatore. Non colpevole, non complice, ma – impotente - rannicchiato nella propria zona d’interesse e di comfort, impegnato a cercare di godere le proprie gioie individuali e particolari e a non guardare cosa accade al di fuori della propria casa e oltre il muro che lo protegge, dove il fuoco sta divampando. Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dove ci interpellavano i versi di Primo Levi; sforzandoci di crederci assolti - come i borghesi di De André che hanno paura di guardare, e si dicono che in fondo non sta succedendo niente - mentre invece siamo tutti - forse, in parte - coinvolti. THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA di Alexander PayneIl prof. Hunham di The Holdovers potrebbe essere in fondo una variante o una reincarnazione del Miles Raymond di Sideways (2004): entrambi i film sono scritti e diretti da Alexander Payne (non a caso figlio di un docente di Yale e di un'attrice) e interpretati da Paul Giamatti, che in entrambi i casi interpreta il ruolo di un insegnante “depresso, introverso e insicuro con le donne”, ma animato da una passione esclusiva (qui la storia antica, nel film del 2004 l'enologia – e in entrambi i casi l'apertura di una bottiglia pregiata segna una delle sequenze simbolicamente significative del racconto).
D'altra parte una certa affinità ce l'hanno perfino i rispettivi titoli, indicativi della poetica delle piccole storie marginali e antispettacolari di Payne: se sideways è sinonimo di “strade laterali, secondarie”, holdovers indica qualcosa o qualcuno di residuale, tenuto in sospeso. Ad essere “in sospeso” sono in questo film i tre personaggi principali, in una prestigiosa scuola superiore, Barton, chiusa per le vacanze di fine anno: un professore solitario e inviso a tutti, Paul Hunham, cui viene affidato l'ingrato compito di custodire gli studenti che per un motivo o per l'altro non hanno potuto tornare in famiglia per le vacanze; lo studente Angus Tully, scaricato dalla madre che vuole passare le vacanze a Saint-Kitts da sola con il suo nuovo marito; e Mary Lamb, la capo cuoca di colore che ha appena perso il figlio, caduto in Vietnam, dopo che anche il marito era morto in giovane età per un incidente sul lavoro. La narrazione di Payne procede per sottrazione, mandando in vacanza prima tutto il corpo docente e gli studenti e poi gli altri quattro altri studenti rimasti a Barton, lasciando soli i tre protagonisti a vagare per gli ambienti e i corridoi freddi e vuoti del grande edificio scolastico in mezzo alla neve (come fosse un Overlook Hotel in versione scolastica, dove si aggirano due adulti, uomo e donna, più un terzo personaggio più giovane; c'è perfino l'arrivo del quarto personaggio, che in Shining era un capocuoco di colore – come Mary –, e che qui invece è un addetto alle pulizie che si chiama Danny, esattamente come il bambino del film di Kubrick); infine allontana anche Mary, che va a trovare la sorella incinta. Alla fine l'attenzione si concentra quindi sui due soli personaggi maschili, che sviluppano loro malgrado un rapporto putativo e controverso di padre e figlio, con una progressiva conoscenza e accettazione reciproca. In realtà si tratta di una struttura chiasmica, perché nell'ultima parte tornano Mary e tutti i personaggi della prima parte, mentre fino all'ultimo vengono introdotti nuovi personaggi determinanti. Payne si prende il suo tempo, un tempo che si direbbe “naturale” per osservare le dinamiche tra i suoi tre antieroi: il professore che nasconde dietro la severità e il sarcasmo le frustrazioni personali e professionali di tutta una vita, ma che finisce per scoprire dentro di sé una capacità residuale di empatizzare con il prossimo e perfino una certa dose di altruismo; la cuoca che sembra incarnare con il suo fisico corpulento un solido buonsenso e una fondamentale bonomia, incrinato però da un dolore silenzioso e indicibile; e il giovane studente moderatamente ribelle che a sua volta ha perso il padre (scopriremo solo alla fine come) e che ora si sente respinto dalla nuova famiglia, incompreso e incompiuto. Complice la solitudine e l'isolamento, l'atmosfera nonostante tutto natalizia e festiva con le relative canzoni languorose e sentimentali, e le prove sociali cui i tre saranno comunque sottoposti, il terzetto arriverà comunque a comprendersi e a volersi un po' di bene - malgrado le differenze sociali, economiche e anagrafiche di partenza - e a formare, almeno per quel breve lasso di tempo, una sorta di nuova e strana famiglia. Dopo la fantascienza sociale acida e disturbante di Dowsizing, The Holdovers, con i toni della commedia dolceamara, è alla fine un film imperniato sulla scoperta della gentilezza e della dolcezza, due caratteristiche più volte esplicitamente citate nel film. Il lavoro di Payne è di grande finezza nel rendere naturali e quasi impercettibili gli slittamenti con cui i personaggi finiscono per avvicinarsi gli uni agli altri; spiace un po' che gli accenti melodrammatici, tenuti sotto traccia per tutti il film, riemergano malgrado tutto nel finale, per offrire qualche rivelazione inedita non indispensabile e soprattutto per arrivare ad una scena di addio finale con un adeguato e sufficiente livello di pathos. Pensando alla filmografia di Payne, padre e figlio (qui solo putativi) si separano solo dopo un'evoluzione positiva del loro rapporto, come in Nebraska, e l'anziano Hunham parte sulla strada come il pensionato di A proposito di Schmidt. Il film, dall'impaginazione molto tradizionale, senza guizzi narrativi o registici particolarmente originali, è ambientato nel 1970, con acconciature maschili, estratti di trasmissioni televisive e canzoni a ricreare l'atmosfera dell'epoca (all'inizio ci sono perfino le false imperfezioni della pellicola e qualche scricchiolio nella colonna sonora); la guerra del Vietnam è un'eco lontana, che ha portato a morire il figlio di Mary ma che non riguarda certo i figli di papà che studiano nelle esclusive scuole del New England e che per le vacanze invernali partono in elicottero per andare a sciare o vanno ai Caraibi. Paul Giammatti (che con Payne esce dai suoi abituali panni di attore di contorno o di caratterista per conquistare la ribalta del protagonista, come già in Sideways) si crogiola (ma senza strafare) nel ruolo per lui congeniale del professore burbero ma dal cuore, al fondo, tenero; nella parte di Angus esordisce con autorevolezza Dominic Sessa, ombroso e vibratile come richiesto dal ruolo, e Da'Vine Joy Randolph dà alla sua Mary Lambert un'apparente placidità venata di malinconia e di dolore. Giamatti e la Randolph si sono già aggiudicato il Golden Globe e ora aspirano all'Oscar; The Holdovers è candidato anche come miglior film, oltre che per la sceneggiatura e il montaggio. POVERE CREATURE! (Poor Things) di Yorgos LanthimosEsiste forse una correlazione tra la situazione narrata in Kynodontas, scritto in Grecia dallo stesso Lanthimos insieme al fido Efthymis Filippou, e quella di Povere creature! sceneggiato dall'australiano Tony McNamara partendo dal romanzo dello scozzese Alasdair Gray.
Si tratta in entrambi i casi di due “esperimenti” sul carattere e sulla natura umani: in Kynodontas con fini “educativi” e “morali”, in Povere creature! a fini “scientifici”. Nel primo un padre tiene segregati i tre figli in una villa suburbana, per tenerli lontani dalla corruzione del mondo, insegnandogli ad abbaiare per tenere lontani i “gatti feroci” che possono infilarsi nel giardino e storpiando il significato di parole comuni ritenute troppo compromettenti e pericolose. La figlia maggiore alla fine, alla ricerca disperata di emancipazione, tenterà una fuga, non sappiamo se destinata al successo. Nel secondo, uno scienziato pazzo e malato di ubris tenta di tenere segregata nella sua villa una giovane donna, trovata morta e incinta, nella cui testa ha trapiantato il cervello del feto che lei stessa teneva in grembo, e riportata in vita con scosse elettriche. Ma la ragazza, man mano che il suo cervello cresce, che progredisce nell'uso del linguaggio e che scopre le gioie del piacere sessuale, ben presto sfuggirà al suo padre/creatore/carceriere lasciando la sua fastosa e tenebrosa villa e il giardino in cui si aggirano animali ibridi e mutanti creati dalla folle chirurgia di Godwin Baxter. Entrambe le giovani donne poi si trovano ad un certo punto a sfogare nella danza la propria ansia di vita e di libertà: la “figlia maggiore” scatenandosi di fronte ai genitori allibiti sulla musica di un film proibito; Bella Baxter danzando sfrenata e disarticolata in una sala da ballo sotto gli occhi del suo preoccupato amante. Ma se il punto di partenza della poetica di Lanthimos si radica nella tragedia greca (le bizzarre prefiche di Alps; il mito di Ifigenia ne Il sacrificio del cervo sacro), con Povere creature! ci si sposta in un territorio decisamente neogotico. Il riferimento più diretto e più visibile è quello al Frankestein di Mary Shelley, e Lanthimos lo esibisce esplicitamente nel laboratorio di Godwin dove le scariche elettriche resuscitano il cadavere; ma la casa e il giardino londinesi di Godwin sono anche l'isola del dottor Moreau, dove Welles aveva immaginato un folle chirurgo dedito a mostruosi trapianti tra animali (e tra animali ed esseri umani); e Bella Baxter è anche un vampiro che prosciuga di energie e di soldi lo sventurato Wedderburn - che ad un certo punto finisce in una cella di manicomio come il Renfield di Bram Stoker -, o una sua versione femminile, come la Carmilla di Le Fanu che anticipò Dracula; o ancora è come Olympia, la fanciulla non umana uscita dai Notturni di Hoffmann che seduce con la sua danza perturbante. Alla fine del libro di Gray è la stessa Victoria, di cui Bella sarebbe la reincarnazione, a smentire la narrazione che la riguarda, e che lei attribuisce al suo “sciocco marito” che le ha cucito addosso una favola gotica e romantica, che, appunto, “puzza di tutto ciò che era morboso nel più morboso dei secoli”. McNamara e Lanthimos invece scelgono impavidamente di dare totale credito alla storia di Bella, impaginandola in una fastosa fantasia visiva che fa proprio del perturbante la propria ineluttabile cifra. Perturbante è in primo luogo, ovviamente, Bella, creatura/figlia del deforme professor Godwin, demiurgo dal viso deturpato, madre e figlia di se stessa, connubio di un corpo di donna e di una mente infantile, sgraziata nei movimenti e disarticolata – o oscenamente esplicita - nel linguaggio e nelle azioni, corpo estraneo impresentabile e destabilizzante gettato(si) viva e turgida di desiderio nel cuore della società come in precedenza si era gettata per morire nelle acque livide del Tamigi. Ma perturbante, in senso freudiano, è tutto l'universo in cui si trova a vivere la propria avventura umana (?) la bella Bella, tra città (Londra, Lisbona, Parigi) che “sembrano” Londra, Lisbona o Parigi senza esserlo, con una fisionomia artificiale continuamente deviata lungo gli assi del fantastico, sopra le quali (oltre che su un Mediterraneo solcato da una grande nave steampunk che emette fumi color pastello) splendono impossibili cieli psichedelici che sembrano usciti da un anime lisergico; mentre le strade sono attraversate da strani “cavalli a vapore” e i giardini sono abitati da animali che eccedono la possibilità di una reale esistenza giusto quel tanto che basta per risultare definitivamente ripugnanti. Ancora prima, è lo sguardo stesso ad essere deforme e innaturale, con gli ambienti espansi da grandangoli estremi e le prospettive rimodulate e deformate dalle lenti fisheye, come se gli interni fossero ripresi da un numero infinito di spioncini disseminati negli ambienti, mentre un trattamento simile subisce ironicamente anche la colonna sonora, popolata di suoni dissonanti e disarmonici. Nello stesso tempo, Povere creature! è una parabola femminista, o qualcosa del genere. In un mondo di maschi, delimitato ai quattro angoli dal folle Godwin, dall'innamorato Max McCandles, dal libidinoso Wedderburn, del marito/padrone Blessington, Bella nasce, muore, rinasce, evolve, sperimenta i piaceri perversi polimorfi dell'infanzia fino all'esplosione della libido; ma progredisce anche intellettualmente e moralmente, con un'etica tutta personale che le consente di prostituirsi senza alcuna remora (imprenditrice di se stessa che usa il proprio corpo come mezzo di produzione), ma anche di impietosirsi fino a gesti di generosità inconsulta (e ingenua) davanti alle miserie umane. Corpo desiderante e mente (sempre più) pensante Bella è anche un intrepido Pinocchio femmina creata dall'uomo ma all'uomo non più assoggettabile (au contraire...), che da burattino di carne si trasforma alfine in una donna. Una simile storia eccentrica sarebbe stata perfettamente nelle corde di un altro dei grandi autori imprevedibili della contemporaneità cinematografica, Lars von Trier (i titoli dei vari capitoli si accampano su sequenze mute e oniriche che ricordano i paesaggi lisergici e musicali che introducevano i vari capitoli de Le onde del destino), che ha spesso messo in scena il conflitto (culminante forse con Antichrist) tra ragione e istinto, tra un'istanza (pseudo)razionale maschile e una istintiva e affettiva femminile; in definitiva, per tornare di nuovo a categorie e terminologie freudiane, tra un Super-Io autoritario, prescrittivo, catalogatore, regolamentatore e costrittivo, tendenzialmente sadico e un Es desiderante, istintuale, affettivo, anarchico, spesso nella condizione di vittima rispetto al primo. Ma come la Grace imprigionata nell'universo astratto di Dogville che alla fine si ribella, anche la Bella di Povere creature!, errante come un Gulliver ipersessuato nel suo mondo gotico-vittoriano-art nouveau-psichedelico, non ha intenzione di subire le costrizioni (letteralmente) castratrici dei maschi. Lanthimos trova una complice assolutamente superba (entrambi figurano tra i produttori del film) in Emma Stone, creatura polimorfa dagli occhi grandi e dai lunghissimi capelli scuri, che dà spericolatamente a Bella anima e corpo, volto e nudità, gesti sgraziati e andature innaturali, parole nuove appena scoperte ed altre sfacciate e scandalose, accenti grotteschi e umoristici, crudeltà infantili e umana vulnerabilità. Intorno a lei Willem Dafoe, vittima e carnefice, carceriere in fondo permissivo, arrogante e consapevole della caducità umana, chirurgo folle dal volto e dal corpo deturpati dagli altrettanti folli esperimenti paterni, e poi Mark Ruffalo - che condivide con la Stone toni anche comici e quasi buffoneschi pressoché inediti nella filmografia di Lanthimos - e Rami Youssef. In un cast tecnico in gran parte ungherese, spiccano i decisivi contributi del direttore della fotografia Robbie Ryan, che passa con disinvoltura dal realismo minimalista di Ken Loach alla visionarietà barocca di Povere creature!, la scenografia immaginifica di Heath, Price e Mihalek, il trucco curato dal pluripremiato Mark Coulier, i costumi di Holly Waddington. Conquistati tra gli altri riconoscimenti il Leone d'oro a Venezia, un paio di Golden Globes e decine di candidature a premi vari, Povere creature! si presenta agli Oscar con undici nomination. Auguri. MAESTRO di Bradley CooperMaestro si apre con una citazione di Leonard Bernstein che dice: “Un'opera d'arte non risponde a delle domande, ne provoca; e il suo significato essenziale sta nella tensione tra le risposte contraddittorie” e si conclude icasticamente con Bernstein da vecchio, intervistato da una troupe televisiva, che si rivolge verso la telecamera e chiede “Altre domande?”
In mezzo ci sono i “pezzi” di Bernstein messi in scena da Cooper, le domande sulla su personalità sfaccettata, poliedrica e complessa, le risposte contraddittorie suscitate da una biografia trasformata a sua volta in “a work of art”. Il giovane Bernstein lo spiega alla sua futura moglie Felicia Cohn Montealegre fin dal loro primo incontro: entrambi sono già delle personalità composite, per storia famigliare e personale; quello che devono fare è quindi mettere insieme i pezzi delle varie parti di cui sono composte, in modo da trasformarle in una personalità unica e socialmente presentabile. Perché il mondo pretende che siamo una cosa sola, mentre Bernstein si sente plurale, multiforme, inafferrabile. Quando Felicia gli chiede se quello che desidera è veramente diventare il più grande direttore d'orchestra d'America, Lenny risponde esplicitamente, con la luce negli occhi “Io voglio tante cose”. Le avrà: Bernstein sarà il più grande direttore d'orchestra d'America, rivoluzionerà il musical con West Side Story, scriverà una delle più apprezzate colonne sonore cinematografiche per Fronte del porto, comporrà e dirigerà musica colta e musica sacra; conquisterà Felicia con il suo magnetismo, la sposerà e ne avrà diversi figli, ma parallelamente continuerà a coltivare le sue molteplici passioni omosessuali prima, durante e dopo il matrimonio con la donna che dichiara di avere amato. Probabilmente Cooper ha guardato alla figura di Bernstein come in uno specchio, o meglio in uno specchio frammentato in cui ha visto riflessa la propria poliedricità artistica di attore cinematografico e teatrale, di regista, sceneggiatore, produttore, autore e interprete di canzoni (per A Star Is Born accanto a Lady Gaga), ballerino (ne Il lato positivo e, paradossalmente, nello stesso Maestro). Se anche la struttura totale è complessa, articolata su tre segmenti non coincidenti tra loro per colore e formato (un prologo e un epilogo “contemporanei” a colori e a schermo pieno, cornice del racconto e nello stesso tempo metaracconto – l'intervista rilasciata alla tv da Bernstein anziano; una prima parte in formato 4:3 in bianco e nero; una seconda parte con lo stesso formato ma a colori), tutta la prima parte del film asseconda l'assunto teorico di una biografia “plurale” adeguando di conseguenza l'apparato stilistico della narrazione; ad una biografia “fluida” corrisponderanno quindi una fluidità temporale, con ardite ellissi (l'arrivo “istantaneo” a teatro per la sua prima esibizione), spaziale (nella stessa sequenza Leo esce da casa sua mezzo svestito e subito dopo tale e quale entra in una balconata della Carnegie Hall), di identità (in un apparente continuità di ripresa è Felicia ad inchinarsi ma Leo a rialzare la testa), di permeabilità tra realtà e finzione (Bernstein sul palco da spettatore si trasforma istantaneamente in uno dei marinai ballerini protagonisti del suo musical On the Town); analogamente lo stile di ripresa adotta buona parte degli stilemi a disposizione del regista: ellissi, montaggio alternato, carrellate, zoom, montaggio da musical, come anche inquadrature statiche (a volte giocate sulla profondità di campo, come nel primo colloquio da soli dei due). Gioca anche con cognizione di causa sull'espressività del bianco e nero (la scena della prova di recitazione in una stanza buia illuminata da una nuda lampadina o la suggestiva scena della figura della moglie che si staglia piccola e luminosa nel buio del backstage, ma minacciata espressionisticamente dall'ombra del marito direttore d'orchestra. Ma, benché sia dia conto della varietà ed eterogeneità della produzione musicale di Bernstein, così come della carriera parallela della moglie come attrice (mentre rimane completamente in ombra l'impegno politico dei due – per i quali lo scrittore Tom Wolfe coniò l'epiteto destinato al successo “radical chic” - a difesa dei diritti civili, a sostegno delle Black Panther e contro la guerra nel Vietnam), quello che appare interessare di più a Cooper è la fluidità sessuale di Bernstein e il suo rapporto con la moglie, amata e continuamente tradita. Sembra quasi – e non è esattamente un bene - che il regista nella seconda parte tenti di bloccare la personalità di Bernstein, prorompente nella prima parte, in una sorta di gabbia narrativa legata alla sua situazione coniugale di marito e padre. Mentre Bernstein si ribella tenacemente ai media e alla vita stessa che tentano di “inquadrarlo”, esplorando nuove strade musicali e nuove avventure (omo)sessuali al di fuori del matrimonio, anche lo stile di ripresa tira il freno a mano e si normalizza, prediligendo le riprese a camera fissa e i lenti movimenti di macchia, spesso in avvicinamento al soggetto della ripresa. Le discussioni decisive tra i due coniugi vengono riprese staticamente da lontano (nella scena in giardino) o a camera fissa in campo largo e a figura intera (la discussione in casa durante il passaggio della parata). Se c'è ancora movimento, significativamente, è soprattutto all'interno dell'inquadratura, come nella virtuosistica sequenza in cui Bernstein/Cooper dirige con istrionica veemenza coro e orchestra nel concerto nella cattedrale, all'interno di un lungo, lento e complesso movimento di macchina. Ma è di nuovo un piano sequenza la forma scelta da Cooper per descrivere l'agonia di Felicia sul letto di morte, che si apre con l'allegra entrata in stanza di Bernstein, in campo largo, fino a stringersi progressivamente sullo straziante primissimo piano del volto dei due coniugi. Il formato di proiezione si allarga nuovamente nell'epilogo, che rappresenta un Bernstein ancora affamato di musica, di amore e di sesso (ascolta i R.E.M. sull'autoradio e balla estaticamente in discoteca sulla melodia Shout dei Tears for Fears, accanto al giovane a cui ha appena impartito una personale lectio magistralis di direzione d'orchestra), ma che in una intervista televisiva rivendica con gli occhi lucidi l'amore - in bianco e nero - per la moglie perduta. Cooper firma un film d'autore – il film della vita? - in cui ha ambiziosamente e generosamente profuso tutto se stesso, assumendo i ruoli di produttore, soggettista, sceneggiatore, regista e interprete mattatore, calandosi anima e corpo in un personaggio bigger than life. Un plauso anche ai truccatori - lo vinceranno un Oscar? -, che lo rendono somigliante e credibilissimo in tutte le fasi di vita in cui Bernestein è raccontato, dalla giovinezza alla vecchiaia. Accanto a lui non sfigura assolutamente Carey Mulligan, a torto a volte ritenuta un'attrice monocorde e legata a ruoli cliché (basterebbe Una donna promettente a smentire un simile assunto), che a sua volta attraversa trasformisticamente, ma sempre con un'eccellente dose di sensibilità e adesione al personaggio, la storia di una donna vissuta in parte nell'ombra dell'ingombrante marito, passando dalla fascinazione e dall'ebbrezza della giovinezza alle disillusioni e alla sofferenza dell'età matura. Maestro ha avuto finora molte candidature, ma ancora non ha avuto riconoscimenti rilevanti. E' candidato anche a sette Oscar, miglior film, attore, attrice, sceneggiatura, fotografia, sonoro e trucco. Vedremo se stavolta (in precedenza Cooper ha già ottenuto nove candidature in vari ruoli) riuscirà a passare dalle notti da leoni alle notti da Oscar... PERFECT DAYS di Wim WendersDedico questo articolo a mio papà, che sta vivendo i giorni meno perfetti della sua vita. Nel 1985 Wim Wenders si reca a Tokyo alla ricerca delle tracce del cinema di Yasujirō Ozu. Dal viaggio ha origine un film, Tokyo-Ga (che si traduce, appunto, “viaggio a Tokyo”) in cui Wenders si trova, in una condizione di spiazzamento culturale, a confrontare le immagini del cinema di Ozu, autore rigoroso e astratto per eccellenza (è stato definito “il più giapponese degli autori giapponesi”), con le immagini della città contemporanea, caotica, rutilante, e - agli occhi di un occidentale - a volte kitsch e a volte incomprensibile. Quasi 40 anni dopo, il regista tedesco torna a Tokyo sulle orme di un progetto bizzarro e mai realizzato (un documentario sull'architettura contemporanea dei bagni pubblici di Tokyo) e di una sceneggiatura scritta insieme a Takuma Takasaki. Di Ozu si porta dietro il cognome del protagonista, Hirayama, che è lo stesso della famiglia al centro de Il gusto del sakè, ultimo film del regista nipponico. Ma anche stavolta, Wenders compie (e fa compiere) nel corso del film uno slittamento, attraversando quello un concetto fondamentale dell'estetica nipponica, quello del mono no aware, ovvero “quel sentimento di assorta contemplazione che si vive di fronte alla natura, alle vicende umane e all'accadere delle cose e che porta alla consapevolezza del carattere effimero e transitorio del tutto, a una sorta di dolente e matura accettazione dell'ineluttabilità del cambiamento” (Dario Tomasi a proposito del cinema di Ozu). Perfect Days – il Giappone è una lingua che sembra avere una parola per tutto - potrebbe probabilmente essere definito un shomingeki, ovvero un film sulla gente comune: Hirayama svolge un lavoro umile, occupandosi della pulizia dei bagni pubblici. Tutta la prima parte del film ce lo presenta nella sua vita sempre identica a se stessa, fatta di piccoli rituali: la sveglia, il ripiegamento del tatami, l'innaffiamento delle piantine, le abluzioni mattutine, la pulizia dei denti, la cura minuziosa dei baffi; il viaggio per recarsi al lavoro in macchina, accompagnato dalla musica americana delle sue audiocassette; il lavoro scrupoloso e coscienzioso di pulizia e gli spostamenti da un bagno all'altro; la pausa pranzo su una panchina di un parco, dove scattare una fotografia al sole che filtra tra le mobili fronde degli alberi; la cena nel solito fast food dove è un cliente conosciuto; poi il rientro a casa, la lettura serale disteso a pancia in giù sul tatami, il sonno. I suoi giorni liberi, dedicati alla cura di se stesso, sono altrettanto ripetitivi e rituali: l'indossare l'orologio, che nei giorni di lavoro non porta, ad indicare un tempo che ha valore per sé; la pulizia del corpo in un bagno pubblico; una pedalata in bicicletta al di fuori del traffico urbano dei giorni feriali; la cena in un ristorantino la cui padrona ha un occhio di riguardo per lui. I giorni di Hirayama sono perfetti, perché privi di turbamenti come di desideri. Il suo è un mondo fissato in un cristallo di tempo, che è un tempo passato, intangibile da parte della modernità. Le canzoni che ascolta sono classici americani che non vanno più in là degli anni '70, incise su audiocassette e ascoltate su una vecchia autoradio; per fare le fotografie usa una vecchia macchina analogica con rullino; per muoversi nel tempo libero usa la bicicletta e per lavarsi, ai bagni ipertecnologici che pulisce per lavoro, preferisce vecchi bagni pubblici, dove gli uomini si insaponano e si lavano nudi seduti l'uno accanto all'altro su sgabelli di legno. Ma non è solo la modernità ad essere tenuta al di fuori del mondo di Hirayama; sono anche le persone. Gli unici esseri umani che sembrano interessarlo sono quelli con i quali non è tenuto a comunicare nella maniera naturale: un bambino piccolo che ha perso la mamma, un senzatetto fuori di testa, una ragazza che mangia muta sulla panchina accanto a lui, con l'aria inebetita, uno sconosciuto con cui intrattiene una partita a tris che prevede una mossa ciascuna al giorno, su un foglietto che ciascuno dei due provvede poi a nascondere dietro lo specchio di un bagno pubblico, affinché l'altro lo possa trovare. Lo spettatore occidentale è colpito e affascinato dalla visione di uno stile di vita improntato alla semplicità, alla frugalità, alla correttezza e alla gentilezza, all'attenzione alle piccole cose, in contrapposizione alla vita che ciascuno di noi si trova a vivere, dominata dalla complessità, dall'iperinformazione, dalla smania per le novità tecnologiche, dal consumismo sfrenato, dalla superficialità diffusa. Ma a ben guardare Hirayama è solitario fino al solipsismo, taciturno fino all'afasia, appartato fino all'anaffettività, immerso in un presente immemore fino ad essere completamente privo di prospettiva (alla nipote insegna pericolosamente e con insolita allegria che “adesso è adesso, un'altra volta è un'altra volta”). Facendo un salto mortale all'indietro, Hirayama non è forse così dissimile dal un altro antieroe wendersiano, Philip Winter, un giornalista tedesco che in Alice nelle città fugge dagli Stati Uniti per tornare nella vecchia Europa, e che attraversando una serie di non-luoghi cerca di catturare l'essenza delle cose attraverso il medium freddo della fotografia; salvo poi ritrovare la propria anima, la propria identità e i propri sentimenti solo grazie all'incontro fortuito con una bambina di nove anni che si accompagna a lui per un tratto del suo viaggio solitario. Hirayama tenta a sua volta di catturare l'incatturabile - la permanenza nel cambiamento o il carattere transeunte di una realtà che sembra immutabile - fotografando dal basso verso l'alto le foglie degli alberi, mosse dalla brezza e trafitte da un barlume di sole (ebbene sì, sembra impossibile, ma anche per tutto questo la lingua giapponese ha una denominazione: è il komorebi). Fa sviluppare e stampare e le foto, le inscatola, le etichetta con la data, le archivia in un armadio. E' un tentativo illusorio di incasellare la più effimera delle realtà, di dominare il tempo, di esorcizzare il cambiamento, mentre immagini, sentimenti ed emozioni tornano a mescolarsi nella loro natura caotica nei sogni che vengono a visitare le notti di Hirayama (le riprese dei sogni, in bianco e nero, sono state realizzate da Donata Wenders, moglie del regista, fotografa che predilige la poetica del mosso, del fuori fuoco, del controluce). Ma il cambiamento, inevitabile, arriva, quasi impercettibile: è il bacio di una ragazza che gli sfiora una guancia; sono le dimissioni di un giovane collega di lavoro; è l'arrivo di una nipote ribelle che aspira alla sua compagnia (e che lui denuncia ben presto alla madre benestante, che arriva subito a riprendersela, abortendo sul nascere quell'esperienza di condivisione che invece cambiava la prospettiva esistenziale del Philip Winter di Alice nelle città); è la visione fugace di un abbraccio; è l'incontro non cercato con un uomo malato. Hirayama, di turbamento in turbamento, è costretto ad apprendere che, sia pur impercettibilmente, le cose sono destinate a cambiare. Con l'amico di pochi notturni minuti, gioca a tentare di calpestare invano ciascuno l'ombra l'uno dell'altro, scoprendo che le ombre mutevoli si muovono e sfuggono; e infine rinuncia a riporre le proprie ultime fotografie dietro le ante morte del suo schedario. Per citare un altro titolo storico wendersiano, non è altro che un falso movimento: uno slittamento leggero in una vita che prosegue identica; ma che nella sequenza finale suscita sul viso altrimenti impassibile di Hirayama un turbinare di emozioni che mescolano il riso al pianto, la gioia ad una dolorosa malinconia. Forse anche Hirayama, come Winter - sotto la lente del cinema di Wenders, che fotografa “oggettivamente” e che contemporanea trasforma il proprio “soggetto” di osservazione - ha scoperto di essere un essere umano immerso nella condizione dolceamara, tragica e ridicola, insopportabile e inevitabile, dell'umanità. Hirayama si trovava già d'altronde tra i due poli della poetica wendersiana, l'attrazione per il mondo giapponese e quello americano: tra il rigore formale e la spiritualità dell'Oriente e lo spettacolo delle emozioni e della complessità dell'Occidente. Se Hirayama coltiva in casa il suo piccolo giardino zen, innaffiando amorevolmente piantine in germoglio colte nel giardino di un tempio, le sue frequentazioni letterarie e musicali sono prevalentemente americane. All'arte stilizzata del suo Paese, l'uomo delle pulizie affianca le letture di opere forti, di potente realismo narrativo e psicologico, come quelle di Faulkner o di Patricia Higsmith (sareste molto sorpresi leggendo in Urla d'amore il racconto La tartaruga, con il cui protagonista la nipote di Hirayama dice di identificarsi). E similmente affronta ogni nuovo giorno e ogni levarsi del sole (siamo nel Paese del sol levante...) ascoltando canzoni che parlano in lingua inglese della house of the rising sun o del morning sun che sale su una baia californiana (peccato che il distributore non abbia pensato di fare tradurre i testi delle canzoni); ed è ancora la voce ruvida e dolorosa di Nina Simone a ricordare ad Hirayama che un nuovo giorno inizia, e che ci si può sentire bene - malgrado tutto - in un'alba tutta nuova:
Birds flying high, you know how I feel Sun in the sky, you know how I feel Breeze driftin' on by, you know how I feel It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, yeah It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, ooh And I'm feeling good SALTBURN di Emerald FennellSaltburn è decisamente un film la cui contemporaneità è testimoniata anche dall'interesse e a volte dall'acceso favore che ha riscosso sui social media. Eppure al suo interno spira una certa aria di déja-vu, forse favorita dall'atmosfera vecchia Inghilterra (che per antonomasia è conservatrice e tradizionalista) che si respira nella magione della famiglia coprotagonista del film. Certo, non si tratta della nobiltà inglese delle buone maniere, del rispetto dell'etichetta e dei tè delle cinque, bensì della versione piena di vizi e tare che si può trovare ad esempio nella saga letteraria della famiglia Melrose raccontata da Edward St Aubyn.
Poi c'è il tema dell'intruso che si insinua in un ambiente sociale per corromperlo e distruggerlo dall'interno: con analogie che vanno dal Teorema di Pasolini Cabaret di Bob Fosse al polacco The Hater di Jan Komasa (se non l'avete visto vi consiglierei di recuperalo), fino a titoli emblematici (anche se forse l'indiretto prototipo è rintracciabile nel cecoviano Il giardino dei ciliegi) come The Servant o Parasite. Per non parlare de Il sacrificio del cervo sacro, dove Barry Keoghan interpretava già il ruolo del corpo estraneo che si insinua come un tumore maligno all'interno di una famiglia allo scopo di distruggerla, cosa che probabilmente ha indotto la regista a fargli indossare un paio di corna cervine durante la lunga scena di una festa. La Fennell imposta da subito la narrazione sul rapporto tra due personaggi maschili, Oliver Quick (che racconta una storia famigliare lacrimevole, tra la reale biografia dello stesso Keoghan e il dickensiano Oliver Twist; ma il personaggio si rivelerà quick, svelto e senza scrupoli, nel perseguire i propri obiettivi) e il fortunato Felix Catton: l'uno (Keoghan, nella realtà figlio di un'eroinomane morta di overdose) povero, brutto e dal carattere non privo di meschinità e ambiguità: l'altro ricco, bellissimo e con un animo aperto e generoso, anche se ovviamente un po' snob (Jacob Elordi, il cui cognome già ingloba la parola lord...), facendolo raccontare dallo stesso Oliver, in un'ambigua cornice narrativa che rimane indecifrabile fino alla fine. Dopodiché segue due strategie narrative: la prima è appunto quella di condurre un racconto cinico e amorale mantenendo un'ambiguità che si dissolverà solo nel finale (nel racconto comunque i conti non tornavano e non era difficile immaginare un twist finale che colmasse i buchi drammatici - e lo fa fin troppo). La seconda è quella di trasmettere il senso di disagio morale anche sul piano visivo, quasi tattile, disseminando il film di liquidi corporei come si trattasse della bava di una lumaca paziente e malefica: con masturbazioni assortite (in coppia o solitarie, tra cui una sulla terra fresca di una fossa cimiteriale), sputi, sudore, sperma, feticismo (è già celebre la scena in cui il protagonista lecca con voluttuosa avidità il buco di scarico della vasca da cui è defluita l'acqua nella quale Felix si è masturbato), cunnilingus conditi di sangue mestruale, fino alla danza finale in totale nudità, con l'evidente obiettivo di épater le bourgeois, cioè di stupire e scandalizzare i benpensanti. Lo schema etico e drammaturgico si rivela speculare e antinomico rispetto a quello del promettente esordio di Una donna (appunto) promettente: lì una giovane donna (Carey Mulligan, che è presente anche qui, quasi irriconoscibile, in un cameo) sacrifica se stessa per un progetto di giustizia e di doverosa vendetta; qui un giovane uomo sacrifica tutti gli altri per un cinico ed egoistico progetto di autoaffermazione. Se nel primo film la Fennel ricorreva ad una simbologia visiva cristologica, mariana ed angelica, qui ovviamente oppone all'inverso un'ironica simbologia demoniaca, come le già citate corna sulla testa di Oliver o il labirinto dentro cui consumare le proprie vittime sotto l'effige incombente di un Minotauro a sua volta cornuto, o la pertinente simbologia animale che decora i titoli di coda con falene, ragni, serpenti, ecc. Di nuovo molta attenta anche la scelta dei brani in colonna sonora, che include titoli che dicono già tutto come Destroy Everything You Touch o Murder on the Dance Floor. Tutto appare però stavolta un po' troppo voluto, con una ricerca dello scandalo un po' troppo insistita e studiata a tavolino; salvo poi scivolare nell'utilizzo di facili cliché, con maggiordomi impassibili e magioni infinite, e soprattutto con la rappresentazione dei ricchi come una congrega di viziati e viziosi, resi vulnerabili e indifesi dalla loro stessa corruzione, omosessuali, bisessuali, ninfomani, depressi, euforici, dipendenti da sostanze, che prendono il sole nudi ma giocano a tennis in smoking con la racchetta in una mano e la bottiglia di champagne nell'altra. Barry Keoghan, che già era balzato all'occhio con una manciata di ruoli da non protagonista (Il sacrificio del cervo sacro, Gli spiriti dell'isola), qui si prende la ribalta relegando i belli (Elordi, la Pike, la Oliver) al ruolo di proprie inconsapevoli marionette. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|