Bene, le elezioni sono andate come sono andate (è la democrazia, bellezza), e anche l’assegnazione dei premi Oscar non mi ha consolato granché. Hanno vinto i diversi, si direbbe, meglio se a rischio di abusi: la minorata fisica relegata a umili fatiche e oggetto di molestie sessuali sul luogo di lavoro e l’uomo pesce che suscita voglie vivisezionistiche (La forma dell’acqua); i coloured usati come riserve umani di sostanze rigeneranti per wasp decrepiti (Get Out); bambini messicani repressi da equivoche tradizioni famigliari (Coco); trans malmenati e mal sopportati (Una donna perfetta); adolescenti omosessuali benché, bisogna ammetterlo, né repressi né tantomeno discriminati (Chiamami col tuo nome). Le polemiche degli ultimi anni sul ruolo delle donne, quelle sull’assenza di premiati di colore, infine lo scandalo Weinstein forse non orientano le scelte ma hanno creato senz’altro un’altra atmosfera tra chi deve scegliere e votare. Tant’è. L’orgoglio nazionale è salvo, ma per finta. Nei titoli degli articoli e dei servizi si rivendica come un premio italiano l’Oscar assegnato alla sceneggiatura (dunque a quell’elemento del film che gli preesiste e che prescinde a priori dalla qualità successiva della messa in scena) scritta dal più britannico dei registi americani, James Ivory, in debito di Oscar da tutta una lunga vita e carriera, tratta da un romanzo americano (quindi nella categoria non originale), e anche piuttosto tradita dalla messa in scena di Guadagnino. Chiamami col tuo nome mi è parso inoltre un film molto più di regia (corpi, contatti, suoni, musiche, rumori, luce, ombre) che di scrittura; ma in questa categoria non è nemmeno stato candidato. Non ce l’ha fatta nemmeno il giovane Timothée Chalamet, che pure avrebbe meritato, come anche il Day-Lewis de Il filo nascosto, forse alla sua ultima occasione prima del ritiro definitivo. Non posso dire nulla di Gary Oldman premiato per L’ora più buia, che non ho visto; non amo molto i film storici e ancor meno quelli biografici, quindi non posso giudicare né la sua performance né l’operazione mimetica messa in atto dai suoi premiati truccatori. Bene ovviamente il premio alla McDormand, che preferivo alla Streep e alla Hawkins (le altre due non le ho viste), e benissimo per la statuetta a Sam Rockwell, poliziotto stupido, cattivo, violento e mammone, per il quale avevo già speso parole di lode nel mio articolo su questo sito. Malissimo invece non aver premiato la sceneggiatura di Martin McDonagh per Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la più bella, la più forte, la più originale e sorprendente tra quelle in gara. Davvero un peccato. Non ho ancora visto Lady Bird, le altre mi sono sembrate tutte inferiori, compresa quella di Jordan Peele premiato per Get Out, un horror che di spaventoso ha solo la sua esilità. Society di Brian Yuzna aveva già trattato uno spunto simile quasi 30 anni fa con ben altra radicalità. Ah, già, qualche statuetta se l’è portata a casa anche la favoletta freak de La forma dell’acqua, tipo miglior film, miglior regia (Guillermo Del Toro: è il quarto Oscar alla regia ad un regista messicano negli ultimi 5 anni, con i due di Iñarritu e quello di Cuarón), miglior scenografia, miglior musica (Alexander Desplat). Forse sapete già come la penso, altrimenti potete andarvi a leggere il mio articolo. Non mi ha dato soddisfazione nemmeno la premiazione del miglior film straniero: niente da ridire su Una donna fantastica di Lelio, ma mi è spiaciuto molto non vedere premiato lo svedese The Square, che a mio parere è un gioiello di intelligenza, profondità, originalità e humor senza pari nella scorsa stagione. Di forte impatto anche il russo Loveless, di impianto più retorico il libanese L’insulto. Per completare la cinquina mi manca ancora Corpo e anima. Il miglior film d’animazione è naturalmente Coco, a marchio Pixar, anche se Loving Vincent aveva un’idea di base molto forte, trasformare i personaggi e i paesaggi di van Gogh in un cartone animato interamente pittorico. Il filo nascosto, che a molti è parso un capolavoro, è stato relegato al riconoscimento più ovvio, prevedibile e scontato, quello ai costumi disegnati da Mark Bridges. Altrettanto “inevitabili” gli altri riconoscimenti nelle categorie più tecniche: a Blade Runner 2049, che è ben lungi da essere quel film epocale che molti si aspettavano (e che qualcuno ha creduto comunque di vedere) gli effetti speciali e la fotografia di Roger A. Deakins, che fa centro alla quattordicesima candidatura; a Dunkirk il montaggio dell’australiano Lee Smith, montatore di fiducia di Cristopher Nolan, e il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro, a rimarcare la consapevole natura audiovisiva del kolossal di Nolan.
Chiuso il sipario. Il 21 marzo appuntamento con i film italiani al David di Donatello. Secondo me c’è della roba buona. Speriamo in bene.
0 Commenti
Reynolds Woodcock (Daniel Day Lewis, forse nel suo ultimo ruolo sullo schermo) è un sommo stilista nella Gran Bretagna degli anni '50: alle sue mani e al suo estro si affidano altoborghesi come teste coronate che aspirano al suo atelier come a una realizzazione esistenziale e al conseguimento di uno status symbol. Affiancato nella vita e negli affari dalla sorella nubile Cyril (Lesley Manville, attrice feticcio di Mike Leigh), Reynolds è un uomo freddo, anaffettivo, totalmente assorbito dalla propria missione creativa, come un grande artista maledetto, circondato da donne (la sorella, le clienti, le lavoranti, le temporanee concubine) ma dominato dal ricordo della madre perduta (il titolo originale, Phantom Thread, introduce esplicitamente la figura di un fantasma, che addirittura si rende visibile a un certo punto del film, durante il delirio malato del protagonista). La sua nuova (e nelle sue intenzioni altrettanto temporanea) amante è Alma (la lussemberghese Vicky Krieps), una giovane cameriera rimasta affascinata dalla sua raffinata e distante eleganza quanto lui lo è dal suo corpo e dalle sue misure. In una lunga scena chiave del film, posta nella parte iniziale, Woodcock conduce infatti Alma a casa sua, ma al posto di sedurla e portarsela a letto, la misura, per giunta al cospetto imbarazzante della sorella. A interessarlo non è la ragazza, non è il sesso, non sono i sentimenti di lei. Come i filosofi razionalisti, da Galilei in poi, scoprirono che si poteva descrivere il mondo e la natura attraverso leggi geometriche e matematiche, così per Woodcock la donna (fatta eccezioni per la sorella e per le lavoranti, che sono quasi estensioni della sua mente e dei suoi occhi da una parte, delle sue braccia dall'altra), è sostanzialmente misure, l'avvicinamento o meno a una bellezza e a un'armonia astratte, matematiche; poco più che manichini in carne e ossa che devono corrispondere alla figura di una donna ideale, archetipica, platonica in tutti i sensi della parola. Forse alla figura della madre, di cui rimane una vecchia foto in un virginale abito da sposa bianco, che ora è forse cenere così come il suo corpo materno perduto e irrecuperabile. E forse è proprio il ricordo materno quel filo fantasma che Woodcock cerca di cucire (o di riportare allo scoperto) in ogni donna. Alma si trova sedotta, misurata, utilizzata, e poi schierata con le altre lavoranti in grembiule bianco, un corpo tra i tanti, equivalente alle altre nel suo essere un esemplare di donna, ma non la donna. Woodcock (posso indulgere a un gioco di parole filologico-triviale? Il suo nome tradotto suona come “uccello di legno” e mi viene da paragonarlo alla locuzione nostrana “fica secca” o “fica di legno”, che designa una donna zitella e frigida) aspira alla solitudine mentale, al silenzio, a una dimensione astratta e senza distrazioni. Chiama sua sorella “la vecchia Tale e Quale” (my so and so), rispecchiandosi nella sua vita nubile, in una sorta di gemellaggio e di simbiosi che li unisce nel lavoro e nella vita, dove le differenze di genere sessuale si annullano e non hanno in fondo importanza. Il problema (per Woodcock) è che Alma, semplicemente, non ci sta. Non ci sta ad essere una delle tante, tanto meno un manichino o un cartamodello vivente. Quando non riesce a conquistare l'amato con la forza dei suoi sentimenti (le sue carni, a differenza di quelle dell'esangue partner, conoscono il rossore delle emozioni), passa ad altri metodi. E con intuito femminile, trova come per incanto la chiave per aprire la corazza di Woodcock. Se le è impossibile stargli alla pari nel gioco di potere della coppia, se le è altrettanto impossibile rassegnarsi a esserne succube o a essere accantonata, Alma troverà lo stratagemma per ribaltare i rapporti di dominazione. Nell'unico modo possibile: facendo tornare Woodcock un essere bisognoso di cure, di attenzioni e di assistenza: in altri e più precisi termini, facendolo ritornare un infante bisognoso della mamma da sempre rimpianta. Forse questa è la chiave della felicità, forse vivranno felici e contenti come nelle favole: una ragazza caparbia e dotata di carne e di ossa e un uomo-bambino: non un uomo con cui vivere un rapporto alla pari, non una personalità infantile, ma alternativamente un uomo e un bambino, prima l'uno poi l'altro e poi l'altro ancora, realizzando nel procedere del tempo quell'equilibrio di coppia che è impossibile realizzare nel singolo istante. Tutti bravi e aderenti ai ruoli i tre interpreti, e prevedibilmente eleganti fotografia (frutto di un lavoro di equipe che ha visto protagonista lo stesso Anderson) e costumi (Mark Bridges); la musica di Jonny Greenwood alterna sonorità d'epoca e temi da melò represso, mentre il sonoro è trattato in modo da avere una particolare aura vintage. Il progetto intellettuale (quasi polanskiano) di Anderson non è privo di fascino e la storia trova una sua congenialità nel suo cinema da sempre freddo, distante, elegante, un po' ermetico; ma si tratta anche di una macchina celibe (e un po' tediosa), grazie alla quale Anderson sembra trattare noi spettatori come Woodcock tratta le sue donne: schierandoci in ammirazione silente del suo genio creativo. Ma anche noi spettatori siamo fatti di carne e ossa e affamati di emozioni; e a volte invidiamo Alma che almeno, per ricambiare la sua benevolenza, può cucinargli ogni tanto qualche gustosa pietanza ai funghi. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|