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NIENTE CARTOLINE DA CUBA

2/10/2020

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Dove si scopre che Cuba non è una cartolina.
​Intro al viaggio.

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Tra il luglio e l'agosto del 2001, in una strettissima finestra temporale tra la catastrofe del G8 di Genova a luglio e quella degli attentati negli Stati Uniti a settembre, io e Alessandra e una coppia di amici in procinto di sposarsi (Simona ed Enzo), abbiamo viaggiato per Cuba per oltre un mese, percorrendola con un auto a noleggio in lungo e in largo, da Maria La Gorda a ovest a Baracoa a est, da L'Avana a nord a Santiago de Cuba a sud.
Ripensandoci oggi sembra impossibile, eppure erano ancora tempi da viaggi senza Internet, senza Google Maps, senza Booking, senza navigatori satellitari, senza smartphone con cui avere tutto il mondo nel palmo della mano. Quindi è stato un viaggio dove l'itinerario veniva stabilito giorno per giorno, dove era possibile, perdersi o imboccare la strada sbagliata, dove non si sapeva dove si sarebbe dormito la notte, dove le informazioni andavano raccolte di volta in volta sul posto.
Credo che l'intenzione fosse quella di vedere la “vera” Cuba, Cuba così com'era, e di comportarci in modo politicamente corretto. Erano gli anni del movimento no global (pochi giorni prima della nostra partenza aveva appunto avuto luogo l'apocalisse democratica dei fatti di Genova, da cui il movimento, e forse lo spirito democratico, progressista e generoso dell'Italia intera, non si ripresero mai più), all'epoca in cui essere politicamente corretti era ancora politicamente corretto. Per cui tutti ci siamo serenamente assoggettati alle regole dettate da Enzo, il nostro arbiter ideologico, che dicevano ad esempio di non andare nei posti (strutture alberghiere, spiagge, ecc.) dove i cubani non potessero andare liberamente e non mangiare cibi (come carne di manzo, crostacei, pesci pregiati, destinati tutti alle mense dei resort turistici) che ai cubani fosse fatto divieto mangiare.
Ovviamente la nostra buona volontà non poteva cancellare le contraddizioni di fondo: prima di tutto il fatto che noi potessimo arrivare a Cuba e potessimo andarcene liberamente, cosa che ai cubani non era possibile, o che noi fossimo ricchi, almeno nei loro confronti, e loro poveri. Ma rispetto a questo potevamo fare ben poco, se non forse sconvolgere le nostre esistenze in senso francescano.
Però abbiamo tenuto duro, evitando tutti i resort, i villaggi turistici, le spiagge più belle e rinomate, andando sempre o quasi a dormire e spesso a mangiare nelle casas particulares, ospiti delle famiglie cubane che avevano il permesso di ospitare degli stranieri (alcune avevano invece il permesso per avere solo ospiti cubani). E inoltre, sulla nostra macchina scassata, abbiamo dato una quantità irragionevole di passaggi. I mezzi pubblici funzionavano come funzionavano, i bus potevano passare come non passare, e gli orari erano solo simbolici. Lungo le strade c'era quasi sempre gente in attesa scettica di un bus chiamato desiderio, e più che propensa ad accettare un passaggio che li aiutasse nei loro spostamenti. Sulla nostra macchinetta dove eravamo di regola noi quattro più tutti i nostri bagagli per restare più di un mese a Cuba, abbiamo quindi ospitato uno, due o a volte anche tre autostoppisti per volta.
Tra case, auto e incontri nelle strade di città abbiamo quindi parlato con un gran numero di cubani, nel viaggio forse più “parlato” di tutti quelli che abbiamo fatto in giro per il mondo. Parlavamo “itañol”, seconda la definizione di Enzo, cioè quell'impasto di spagnolo italianizzato, di italiano ispanizzato e di voglia di comunicare a tutti i costi che faceva sì che in qualche modo ci si capisse con tutti. Abbiamo parlato con uomini e donne, con gente di ogni età, dai bambini agli anziani, di ogni estrazione sociale (nella gamma cubana), di ogni sfumatura razziale, di ogni professione (dagli ingegneri ai contadini, dai pescatori alle guardie forestali, dalle dentiste ai parcheggiatori).
Abbiamo trovato persone spesso molto interessanti, consapevoli delle proprie condizioni di vita, a volte amareggiate dalla mancanza di libertà, a volte orgogliose di vivere in uno Stato latino-americano che non dimenticava nessuno (bambini, madri, anziani, malati, ecc.), a volte tristi e a volte allegre e spiritose, a volte fataliste e a volte piene di voglia di fare. Comunque lontanissime dai cliché tropicalisti del cubano o della cubana sempre allegri, spensierati, con la voglia di cantare e ballare e far l'amore da depliant o da vulgata turistica. Senza voler parafrasare Levi-Strauss, quelli che abbiamo trovato noi erano dei tropici tristi - o forse solo un po' malinconici.
Oggi, rileggendo quegli appunti a 19 anni di distanza (my god!), quello che mi colpisce di più è proprio il ricordo della gente che abbiamo incontrato, a scapito delle spiagge con palme e sabbia bianca, o delle romantiche città coloniali, o dell'iconografia color pastello delle auto vintage che sembrano mescolare Hollywood e tropicalismo. Lo dico senza retorica, e vedrà chi vorrà leggere, che non si è trattato sempre di incontri facili o piacevoli. Ma è stato giusto così.
E ai cubani che abbiamo incontrato sulla nostra strada e a quelli che non abbiamo incontrato (e a tutti gli altri: senegalesi, ucraine, danesi, olandesi, giapponesi, inglesi, canadesi, tedeschi, ecuadoriane, italiani, vicini di casa...), è dedicato questo diario di viaggio “senza rete” e senza stereotipi.
Forse ci siamo persi qualcosa (e a volte eravamo tentati di rimpiangere di non essere i classici turisti da villaggio turistico o da all inclusive tour); forse qualcosa l'abbiamo guadagnato.

Insomma, può darsi che le nostre cartoline da Cuba siano venute un po' sbilenche, comunque eccole qui (in numero di 33, una per giornata), dopo la doverosa mappa/itinerario:

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DIROTTA SU CUBA

2/9/2020

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Dove ci si lascia alle spalle i fatti di Genova, si parte in viaggio di nozze (altrui), un moschettiere difende le donzelle, si assiste a una rissa tra le nuvole e si tocca il suolo (bagnato) di Cuba
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Giorno 1: 27 luglio Sesto – Madrid – L'Habana

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Sergio ci accompagna all'aeroporto. Siamo io e Alessandra e Enzo e Simona, per i quali il viaggio a Cuba funziona da viaggio di nozze anticipato, visto che si sposeranno a settembre, e che noi resteremo a Cuba fino alla fine di agosto.
E' il maledetto luglio 2001, e su la Repubblica e il Manifesto (e una volta a Madrid sui titoli della stampa spagnola) leggiamo dei fatti di Genova (noi quattro avevamo prenotato il pullman e all'ultimo momento abbiamo rinunciato visto come la situazione stava degenerando), pieni di angoscia, di rabbia, di frustrazione e di preoccupazione.
Partiamo per Madrid. Al mio fianco c'è un senegalese, che vive a Brescia e viaggia verso il suo paese. Già sopra la Spagna, mi dice, comincia a riconoscere le terre aride dell'Africa. Parliamo dei deserti che avanzano, di Cuba, Africa, Europa. A quest'altezza se ne può parlare. Traduco in spagnolo per lui, che non lo parla, le ordinazioni alla hostess.
Passiamo da un duty free lombardo ad uno spagnolo, senza differenze sostanziali.
Alla partenza da Madrid verso Cuba ho a fianco una cubana silenziosa, dietro un ragazzo spagnolo loquace e un paio di ucraine taciturne. Dall'altra parte dell'aereo c'è una compagnia di maschi che puzza di turismo sessuale. Gli uomini cominciano a parlare con un italiano dai baffi da moschettiere in compagnia di due donne cubane. Ridono, scherzano, bevono, bevono, bevono. Ad un certo punto litigano con le hostess, in un altro momento una cubana si sente male e ha una specie di crisi isterica. Poi un signore con i capelli bianchi palpa l'altra cubana e la situazione degenera; si sfiora ripetutamente la rissa. Vedo coi miei occhi il moschettiere che si catapulta al di sopra dello schienale per cercare di menare quello seduto dietro. Tutti gli stewart e le hostess sono mobilitati per sedare gli animi. Per fortuna c'è anche un passeggero nero grande come un armadio che semplicemente si mette in mezzo come forza di interposizione e con la sua mera stazza contribuisce a far sbollire gli animi e a impedire esiti più cruenti. Ad un certo punto portano via una delle cubane a spalla.
Quando ci danno da mangiare (è il terzo pasto in aereo di oggi), per prudenza il personale di bordo non serve più alcolici a nessuno. Colpirne cento per educarne uno, ma li capisco.
All'arrivo a L'Avana per terra è tutto bagnato. Le cubane ricompaiono, a quanto pare tornate in sé. Facciamo una lunga coda per il controllo dei documenti (oltre una porta chiusa), tanto che quando abbiamo finito i bagagli ci sono già.
Prendiamo un taxi ($ 20) per Avana centro, e osserviamo stupiti e divertiti gli strani mezzi in circolazione sulle strade: (carretti a cavallo, autobus “dromedari”, vecchie auto americane, bici, moto, sidecar, ecc.) e i cartelloni rivoluzionari, che Simona legge ad uno ad uno in maniera imbarazzante.
Arriviamo in Calle Crespo: il nostro referente è Rosa, ma qui ci dividiamo per raggiungere i nostri alloggi: Simona e Enzo rimangono lì, mentre noi andiamo in Calle Trocadero, girato l'angolo.
Alloggeremo quasi sempre in case particulares, cioè private e autorizzate dallo Stato ad accogliere ospiti stranieri. La casa e la stanza sono, diciamo, così così. Non ci sono finestre e il condizionatore è rumorosissimo. Usciamo a fare un giro sul Malecon, in riva al mare. C'è in corso il Carnevale estivo (inventato per i turisti, ma i cubani l'hanno fatto proprio e se la godono un mondo), e il lungomare è ingombro di chioschi, birra, folla, musica, danza, allegria, ebrezza (anche alcolica), orinatoi, puzza. Siamo un po' frastornati e rientriamo: per noi è tardissimo, dal momento che qui siamo tornati indietro di sei ore rispetto all'Italia.
La notte è piena zeppa di rumori: di motori (lavatrici?), voci, telefoni che squillano. La mattina, prestissimo, dalla strada arriva musica a tutto volume.

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UN GIRO A L'AVANA VECCHIA

2/8/2020

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Dove si comincia a conoscere L'avana e i cubani, e dove si contempla una piaga purulenta.
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Giorno 2: 28 luglio L'Habana

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Per $ 3 dollari io e Alessandra facciamo colazione in casa, con due uova fritte a testa, prosciutto, burro, miele, ananas, mango, papaya, banane, caffè, latte, succo d'arancia, tutto buonissimo. Simona e Enzo invece fanno colazione a una ventana, cioè ad una delle finestre affacciate sulla strada attraverso la quale si praticano vari tipi di negozi.
Noi siamo nel quartiere di Colon, subito a ovest della città vecchia vera e propria: una zona di edifici storici ma assai mal ridotti. Vediamo case in rovina di cui è rimasta solo la facciata verso la strada, e capita di vedere qualcuno incongruamente affacciato ai balconi, come se quei simulacri fossero ancora abitati o frequentati.
Ci dirigiamo verso l'Avana vecchia, percorrendo il Paseo Josè Marti (il Prado, una sorta di rambla con passeggiata pedonale ombreggiata da alberi al centro e fiancheggiata da edifici coloniali a portici); visitiamo la libreria Poesia moderna, con libri e cartoline che mi incuriosiscono; scendiamo per Calle Obispo, sostiamo in Plaza de Armas, tra bancarelle di libri usati e attori sui trampoli.
Beviamo qualcosa a prezzo centuplicato rispetto ai prezzi cubani (10 pesos anziché 0,10; 1 dollaro vale 22 pesos e circa 2200-2300 lire) alla Bodega de Agua. Scopriremo in seguito che a Cuba ci sono due economie parallele: una basata sul peso, per la maggioranza della popolazione, che permette a tutti di acquistare i generi di prima necessità e quei pochi beni di consumo che si trovano; l'altra basata sul dollaro americano, che riguarda, oltre naturalmente ai turisti, quanti lavorano nel campo del turismo (villaggi, resort, ma anche casas particulares, paladar, escursioni organizzate, ecc.) o quanti ricevono rimesse da parenti che sono riusciti ad emigrare all'estero. Nell'improbabile tentativo di tenere in equilibrio le due economie, che rischierebbero di creare uno stridente e insostenibile divario sociale tra chi può spendere dollari e chi invece solo pesos, i governanti cubani si sono inventati questo doppio binario, per cui i dollari possono essere spesi solo in negozi che vendono merce in valuta americana, a prezzi molto più cari di quelli basici che vendono per pesos. In questo modo chi guadagna di più, in dollari, in dollari spende anche di più. Abbiamo dei forti dubbi che un sistema così artificioso possa resistere a lungo.
In Plaza de la Catedral facciamo la conoscenza con Francisco, un ragazzo cubano con cui facciamo una lunga chiacchierata, prima in Plaza de la Catedral e poi davanti alla Bodeguita del Medio e all'O'Reilly, due dei più famosi locali dell'Avana, dove beviamo il nostro primo mojito cubano.
All'Hotel Ambus Mundos chiediamo informazioni per una macchina a noleggio: vorremmo una macchina da tenere per quasi un mese e non è facile; Luisito ci rimanda all'indomani, scherziamo sulle possibilità di sconto, si intromette un altro che insegna inglese ma ha fatto anche un corso di italiano per principianti e ha visto La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli.
Arriviamo fino al canale, poi al mercato, ma Ale è abbattuta dal caldo e dall'assaggio del mojito, così decidiamo di rientrare e dopo un giretto al mercato risaliamo per Obispo e O'Reilly. L'Avana è in parte come ce la si aspetta, con begli edifici coloniali, portici, chiese spagnole barocche, belle piazze, vegetazione urbana tropicale, popolazione esotica, atmosfera animata e vivace, un'aura di affascinante decadenza, macchine (involontariamente) vintage a dare un marchio iconico inconfondibile alla città, separata dal respiro dell'oceano dal molo/lungomare del Malecon.
Sul Paseo però ci imbattiamo in un uomo che ci ferma per parlarci. Dice di avere una cancrena alla gamba, e si alza una gamba dei pantaloni per mostrarci delle piaghe orrende. Ci chiede l'equivalente di 77.000 lire per 120 fiale di Tetramicina. Noi siamo presi completamente presi alla sprovvista, sappiamo che il sistema sanitario funziona, ma che le medicine scarseggiano. La gamba fa orrore solo a vederla. Il tipo ha un'aria seria e sicura; gli diamo un contributo di 10 dollari e rientriamo, confusi, dubbiosi e anche un po' sconvolti.
A casa ci mettiamo a letto, ma non riesco a riposare. Quando usciamo di nuovo, siamo importunati dai procacciatori, che cerchiamo di respingere con gentilezza e fermezza. Rimaniamo un po' sulle panchine del paseo, stanchi e appesantiti dal fuso orario, a guardare i cubani che vanno al Carnevale. Poi girovaghiamo senza costrutto alla ricerca di un ristorante dove mangiare, seguendo i consigli della guida di Simona. Ma da Dona Paquita non c'è posto; al Bellomar ci buttano praticamente fuori per problemi - che non capiamo - con il procacciatore che ci ha introdotto; in un altro, brutto, i piatti costano 10$ l'uno e ci sembra tanto.
Alla fine andiamo al Lluvia de Oro, come avevo proposto fin dall'inizio. Mangiamo fettine di maiale con patate, riso e fagioli e beviamo birra e acqua minerale, spendendo una dozzina di dollari in quattro. Nel locale c'è un gruppo musicale, ma Simona, che pure sarebbe tentata, è inibita da noi e non balla.
Passiamo per la Plaza de la Catedral, ora illuminata, e di lì una via dritta (passiamo davanti al museo dei mezzi della Rivoluzione) ci porta al Trocadero.
La notte è meno rumorosa della precedente, ma rumorosa. Il vecchietto di casa si diverte per la nostra presenza e noi ci divertiamo a nostra volta ad ascoltarlo, attraverso i muri, riferire agli altri le nostre conversazioni (“Gli ho detto che faceva mucho calor e loro hanno risposto Sì! Sì!”) e, il giorno dopo, riferire a modo suo i nostri discorsi riguardo le mete successive all'Avana.

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UN CARNEVALE A LUGLIO

2/7/2020

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Dove facciamo nuovi e vecchi incontri, c'è il problema del latte in polvere, ci immergiamo nel Carnevale e (finalmente) riceviamo delle avances
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Giorno 3: 29 luglio L'Habana

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Dopo colazione imbocchiamo il malecon verso il Vedado, il quartiere che rappresenta il centro economico e culturale (per la presenza di musei, gallerie, ecc.) della città. Il sole è già forte di prima mattina. Chiediamo informazioni a Micar a un cubano dall'approccio un po' “napoletano”. Poi all'Habana Libre, dove approfitto più volte del bagno. Intanto chiediamo informazioni a Viacar, dove parliamo con Tania. Andiamo a prendere un gelato da Coppelia, la più famosa gelateria dell'Avana, ma ovviamente, da italiani, non possiamo che rimanerne delusi.
Ci dirigiamo verso l'Università. Incontriamo un ragazzo che attacca bottone con Enzo parlando delle sue scarpe e poco dopo veniamo tutti fermati dalla polizia che controlla i suoi documenti. Ci lasciano andare; lui ci conduce in un quartiere dipinto da un pittore locale, poi rincontriamo Francisco. Marciamo verso il centro commerciale Salvador Allende e il nostro accompagnatore riesce a scroccare un mojito a Enzo e Simona.
Vediamo approssimarsi un temporale e rientriamo ciascuno a casa propria con l'intenzione di fare un riposino. Ma poco dopo ci vengono a chiamare perché ci cercano al telefono; andiamo a rispondere un po' straniti, chiedendoci chi diavolo può chiamarci a Cuba: è Enzo, che è stato richiamato da Tania, che gli ha detto che ha trovato una macchina libera. Io, Enzo e Simona discutiamo su prezzo e condizioni, poi dal telefono di Rosa telefoniamo per accettare e per prendere accordi per la consegna della macchina.
L'auto è una Peugeot 106, che costa $ 50 al giorno, compresa l'assicurazione. Andiamo all'Hotel Sevilla per firmare il contratto e in banca preleviamo 1500 $..
Passiamo da casa, poi uscendo di nuovo rivediamo le ucraine dell'aereo. Cerchiamo di telefonare per prenotare un alloggio a Maria La Gorda, ma non riusciamo. Ricominciamo a cercare un posto dove mangiare e da Dona Paquita, di nuovo, non c'è posto. Sul malecon ci fermiamo in un ristorante di strada, in mezzo al Carnevale, e una famiglia carinamente si stringe per farci posto al suo tavolo. Costolette di maiale, riso e fagioli e due birre a 80 pesos (meno di 4 dollari).
Ci immergiamo nella festa sudata e festante. Una ragazza allegra mi fa delle avance offrendomi della birra da un bicchiere di carta; un'altra sussurra delle paroline nell'orecchio ad Enzo, ma poi, quando si rende conto che è accompagnato, scoppia a ridere allegramente e presenta allegramente tutta la sua famiglia a Simona.
Poi un tipo, che dice di chiamarsi Lazaro, ci interpella: chiede soldi per comprare del latte in polvere per il suo bambino. Di nuovo siamo in imbarazzo; sappiamo che i generi di prima necessità vengono forniti, ma siamo consapevoli della povertà delle persone, e siamo precisamente di fronte a un uomo che ci chiede soldi per comprare il latte al suo bambino. Ci chiede 8 dollari, noi gli regaliamo 35 pesos, sperando di aiutarlo e nello stesso tempo sapendo di correre il rischio di essere ingannati - per una somma che per noi, comunque, non significa nulla. Siamo un po' psicologicamente e moralmente stressati.
Poi ci distraiamo con la sfilata dei carri, che sono alla buona, ma divertenti e simpatici: la Sultana, i messicani danzanti, i pirati, e così via. Musica, gente che danza,  birra che scorre a fiumi dentro ai bicchieri di carta.
La bimba Anelis mi interpella: rimane male e riferisce delusa ai suoi che sono estranjero, ma poi parliamo, ci salutiamo, ci rivediamo dopo con piacere. Un altro bambino piccolo vorrebbe il dito di Alessandra da succhiare. La gente è uno spettacolo.
Enzo e Simona sono stanchi e rientrano. Noi poco dopo, sbagliando strada e chiedendo indicazioni.

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ON THE ROAD (O ALMENO CI SI PROVA)

2/6/2020

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Dove la macchina parte ma si ferma; dove iniziamo a dare passaggi, prendiamo il primo temporale e la prima guayabita e dove ricevo una radiografia non richiesta

Giorno 4: 30 luglio L'Habana – Pinar del Rio

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Dopo colazione c'è da pagare per il nostro soggiorno, ma ci chiedono 25 $ contro i 20 pattuiti. Protestiamo, anche con Rosa, ma inutilmente. Comunque mi sento in dovere di pubblicizzare in inglese la colazione della signora a due ragazze danesi appena arrivate.
In macchina ci dirigiamo verso la fortezza de Los Treyes del Morro, che si erge su una punta tra l'oceano e il canale che conduce alla baia dove è ospitato il porto, ma abbiamo difficoltà a trovare la strada e a imboccare il tunnel. Il castillo, sul mare, è bello, e ci ripromettiamo di ritornarci di sera, al nostro ritorno. Al parcheggio, dove non ci fanno pagare la sosta, c'è un curioso grosso ragno peloso.
Partiamo ma sbagliamo strada e la macchina perde colpi. Ripieghiamo sull'Habana Libre per farlo presente, e poi a Kohly, dove portano la macchina in officina per sistemare il filtro dell'olio.
Cuba, e L'Avana in particolare, sono piene di macchine in corso di riparazione, con cofani aperti e uomini intenti a scrutarvi o armeggiarvi dentro, ma si tratta in genere delle fantastiche automobili americane abbandonate lì dopo la caduta di Batista e la fuga degli yankees. Stupende vetture piene di glamour vintage, le cui carrozzerie dai fascinosi colori pastello e le cui cromature risplendono sotto il sole tropicale, ormai introvabili anche negli Stati Uniti. Qui sono rimaste, come delle surreali fotografie degli anni '50, un po' perché piacciono moltissimo ai turisti, ma un po' perché sono un effettivo mezzo di trasporto, uno dei pochi dopo l'inizio dell'embargo dell'Occidente che ha impedito di rinnovare il parco macchine sprofondando Cuba in un'economia prima autarchica e marginale, poi dipendente e parassitaria dagli aiuti del blocco sovietico. Da decenni per queste macchine non esistono più sulla faccia della terra pezzi di ricambio, per cui i cubani sono diventati per forza di cose dei meccanici sopraffini e ingegnosi, degli artisti/artigiani che riparano i guasti a forza di rottami, fantasia e magia tropicale.
La nostra è una banale Peugeot dall'aspetto ordinario, ma anche lei pretende la sua dose di guasti (poi ci sarà anche il problema di una portiera che non si apre, del parafango e altri vari contrattempi). Aspettiamo stupidamente e un po' depressi, ricevendo risposte falsamente tranquillizzanti ai nostri solleciti e alle nostre richieste di informazioni. Qualcuno intanto litiga, il sole splende.
La macchina torna alle 4 del pomeriggio, facciamo un'altra discussione, e alla fine spuntiamo un giorno di noleggio in più visto che questo ormai se ne è praticamente andato.
Sempre grazie all'embargo decennale contro Cuba, i mezzi di trasporto pubblici sono vetusti, afflitti dall'usura, dalla mancanza dei mezzi di ricambio, dalla scarsità degli approvvigionamenti di carburante. Alle fermate dei mezzi pubblici si vedono spesso piccole folle, in attesa di mezzi che potrebbero arrivare ma anche no; o arrivare all'orario prestabilito ma anche in qualsiasi altro momento del Tempo infinito.
Decidiamo quindi di dare il nostro contributo alla mobilità cubana e, malgrado siamo già in quattro su una macchinetta che porta anche tutti i nostri bagagli, difettosa, con una portiera che non si apre, iniziamo una grande campagna di offerta di passaggi alla popolazione. E' una scelta felice, e una delle cose più belle che ricorderò in futuro di questo viaggio a Cuba saranno proprio i molteplici incontri, le tante persone conosciute, i tipi, le chiacchiere scambiate, i racconti ascoltati, per i quali ci vorrebbe un diario di viaggio a parte.
Cominciamo con l'offrire un passaggio a una signora, poi una volta scaricata lei prendiamo su un vecchio con una tanica di rum.
Abbiamo il temporale prima sulla sinistra, poi sulla destra. Arriviamo a Pinar del Rio con la pioggia.
Non essendo riusciti trovare posto a Maria La Gorda, una famosa località balneare dell'ovest, avevamo telefonato a La Bajada, una località vicina, ma anche lì ci avevano risposto negativamente.
A Pinar una signora ci accompagna alla casa di Servilio Romeu. E' una bella casa; la stanza con l'aria condizionata costa 20$, quella senza 15. Facciamo un giretto in centro e beviamo una Tropicola a 50 centesimi di peso. Chiacchieriamo con un cubano, che però ci radiografa impietosamente (“sei stanco, non vai a ballare, non ti diverti, il tempo passa, butti via i soldi”). Torniamo per altre strade, chiedendo indicazioni ad uno sceriffo settantenne.
Sarà un viaggio equo e solidale, eticamente corretto (Enzo da questo punto di vista è il nostro mentore e il nostro controllore), per cui non andremo in nessuna struttura (hotel, villaggi, spiagge, ecc.) che non possa essere frequentata liberamente da qualsiasi cubano, e non mangeremo cibi che i cubani non possano mangiare (a loro sono preclusi manzo, pesce pregiato, crostacei, tutti riservati alle mense dei turisti, per cui la carne si riduce a maiale o pollo, e i pesci a quelli più comuni).
La cena in casa quindi offre il solito maiale, però affumicato, una zuppa di fagioli con riso, fagiolini, cetrioli, avocado, caffè. Tutto buono. Concludiamo la cena con un bicchierino di guayabita; mi piace molto: è un liquore ambrato ricavato dalla guaiava, una specialità della zona di Pinar del Rio non facile da trovare non solo all'estero ma anche nel resto di Cuba.
La casa di Servilio ha un giardinetto con piante di banano, caffè, mango, orchidee e frequentato da pappagallini, gechi e un cane. Sul terrazzino chiacchieriamo (ci sono anche due olandesi, forse gay).
​Servilio è un tipo in gamba: ingegnere agronomo (laureato nell'82), conosce tutte le edizioni della Lonely Planet, è su Internet e tiene le statistiche delle presenze nella sua casa particular.
Paghiamo 1$ per la sorveglianza notturna della macchina (crediamo del tutto pleonastica). Simona si addormenta. Andiamo tutti a dormire, e la notte rispetto a l'Avana è relativamente silenziosa.
Ma alla mattina c'è il gallo...

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STRADA SENZA USCITA

2/5/2020

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Dove sia noi che la macchina abbiamo qualche defaillance; veniamo sospettati del furto degli occhiali, arriviamo in un posto brutto, entriamo nella stanza del radar e alla fine attraversiamo un branco di granchi giganti.
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Giorno 5: 31 luglio Pinar del Rio – La Bajada

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Simona ha la febbre, io un po' di mal di pancia. Mentre Simo rimane a riposo, io Ale e Enzo andiamo al Museo di scienze naturali, in un edificio tra il gotico fiammeggiante e il barocco, con colonne eclettiche decorate con geroglifici egizi e ippocampi. All'interno ci sono vari animali impagliati, uccelli (tra cui lo zunzuncito, il più piccolo del mondo), insetti, farfalle e altre meraviglie naturali. Nel giardino ci sono dinosauri e due lucertole (vere) che estroflettono un gozzo vermiglio. Torniamo e ci prepariamo, ma purtroppo Servilio non trova più gli occhiali e ci sospetta assurdamente di averglieli fregati.
Facciamo benzina (0,90 al litro), ma la macchina continua a perdere colpi, e inoltre ci accorgiamo che un parafango anteriore è deformato e tocca la ruota. Enzo lo sistema alla bell'e meglio e ripartiamo, senza dare passaggi, in un paesaggio di bananeti, frutteti e piantagioni di canna da zucchero.
Dopo Santa Fe la strada rimpicciolisce; mentre ci avviciamo a La Bajada in mezzo alla boscaglia avvisto un cerbiatto. La Bajada risulta essere composta da un brutto gruppetto di baracche, un radar, un antenna; il tutto in mezzo alla boscaglia e alle zanzare. Non ci sembra possibile, chiediamo, ma è proprio qui, e per giunta le stanze ci sono solo per stanotte (potevano dircelo al telefono!).
Alessandra convince la signora a telefonare a Maria La Gorda, e lei ci fa entrare nella stanza di controllo dei radar, dove occhieggiamo le istruzioni in caso di calamità naturale o di guerra. La risposta comunque è che non c'è posto né oggi né domani né dopodomani.
Stiamo per farci prendere dallo sconforto: il tempo è brutto, il posto è brutto (sembra la scenografia a buon mercato di un episodio di "Ai confini della realtà”), le stanze sono squallide, le zanzare imperversano, e il viaggio fin qui, all'estremità occidentale dell'isola, sembra rivelarsi inutile e privo di senso. Abbiamo l'impressione di esserci infilati in un vicolo cieco.
Nel pomeriggio piove, a momenti anche molto forte. Sul retro, nel prato davanti alla boscaglia, vagano uccelli, mucche, galline bagnate.
Lottiamo contro le zanzare, poi, dopo che la signora ci ha confermato che domani non ha posto e ci ha detto che non ha nulla da darci da mangiare, neppure per la nostra amica malata che non è in grado di uscire, lasciamo Simona in camera con la febbre e partiamo per Maria La Gorda.
Ci fermiamo quasi subito, però, e seguiamo un ciclista verso il pueblo, che ha un aspetto triste e squallido come tutto il resto. Non ci offre pernottamento, ma solo la cena a 10$. Una ragazza bianca ci guarda dalla porta di una baracca. Decliniamo, lui scende a 5$; la trattativa è difficile, la prospettiva non invitante, in più siamo distratti dalle zanzare e dai maiali.
Così riprendiamo la strada che ad un certo punto comincia finalmente a costeggiare il mare, tra spiagge dalla sabbia bianca e mangrovie.
A Maria La Gorda chiediamo di nuovo per la disponibilità; il receptionist ci dà la risposta meno perentoriamente negativa avuta finora e ci dice che bisogna aspettare domani per vedere se si libera qualcosa.
Andiamo al ristorante e facciamo una buona cena a buffet con pizza, verdure, carne, riso, frutta, creme caramel, ecc. Ogni pasto costa 15$, ma ci danno - gratis! - tre piatti con una cena pressoché completa per la nostra amica inferma.
A sorpresa, la strada, al ritorno nel crepuscolo, è invasa dal passaggio di granchi rossi giganti che rientrano dalla spiaggia. E' uno spettacolo surreale. Tutti camminano nella stessa direzione, muovendosi lateralmente come ballerini, ritti sulle zampette posteriori e con le chele all'aria. Molti sono stati investiti dalle ruote delle rare macchine di passaggio e rimangono schiacciati sull'asfalto della strada. Procediamo così a passo d'uomo cercando di non schiacciarne altri e io scendo anche dall'auto e tento con zelo di accelerarne improbabilmente l'attraversamento.
Portiamo la cena a Simona e le raccontiamo, mentre lei mangia; poi andiamo a dormire e domani si vedrà.

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MARIA, LA GORDA!

2/4/2020

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Dove ci immergiamo nel mare dei Caraibi e guardiamo i pesci con la maschera; dove c'è sole, temporale, arcobaleno, sole, lampi; dove non troviamo più i granchi bensì gattini, zanzare, gechi e uno strano gracidio.
​
Giorno 6: 1 agosto La Bajada – Maria la Gorda

Foto
Io e Simona, per precauzione, prendiamo un antibiotico. Ci spostiamo a Maria La Gorda. Il check out è alle 12, e le camere vengono preparate per le 16, ma almeno ci danno subito la notizia che le camere, che non c'erano, non c'erano mai state e sembrava mai dovevano esserci, come per incanto, ci sono. Una più grande a 40$, l'altra a 30. Tiriamo un sospiro di sollievo.
Finalmente andiamo in spiaggia e a fare il bagno. Maria La Gorda merita la sua fama: sabbia bianca, palme, acqua blu-verde e limpida, come nelle cartoline dei Caraibi. In più ci sono lettini, ombrelloni, amache.
Mi metto la maschera, ma ho qualche problema perché mi entra acqua dal naso; andrà meglio più tardi, quando provo quella di Simona, che essendo malaticcia evita questi primi bagni. Facendo snorkelling si vedono un sacco di pesci variopinti, di cui mi dispiace di non sapere i nomi: ce ne sono di neri e gialli, azzurri, color sabbia, colorati con molte sfumature, grigi con la coda gialla, a squame, a stringa, ecc.; inoltre ci sono scogli con coralli e spugne. Coralli sbiancati, anche di notevoli dimensioni, e conchiglie, anche molto belle e particolari, si trovano anche passeggiando sulla spiaggia.
Enzo nuota molto bene e avvista anche barracuda e un tiburon, fuggendo dal quale si imbatte in un banco di meduse (“la medusa es bonita si no te pica” sentenzia saggia ed equanime una signora). Ce la godiamo e ci rinfranchiamo con numerosi bagni, mentre la povera Simona rimane per il momento sulla spiaggia.
Ma siamo ai tropici, quindi piove. Scappiamo mentre scoppia il temporale e ci rifugiamo nella reception, dove chiacchieriamo con delle ragazze italiane (che hanno affittato la macchina a 43$ al giorno). Alessandra coccola un gatto nero, poi portano le chiavi delle stanze, prima quelle di Enzo e Simona, poi anche le nostre. Tutte e due le stanze costano 40$, adesso: però la nostra è bella, grande, con mobili in midollino, specchi, tv satellitare, frigorifero, cassetta di sicurezza, ecc., mentre la loro (in una bella casetta di legno verniciato in bianco e azzurro) è più piccola e più brutta.
Dopo un arcobaleno che appare sulla boscaglia, il temporale è passato ed è uscito di nuovo il sole. Ne approfittiamo per un altro bagno, poi dopo una doccia andiamo a cena. Più o meno il menù è come ieri, in più c'è Simona. Restituiamo i piatti che ci avevano dato ieri e ceniamo all'aperto, mentre un duo suona musica cubana. Nutriamo e difendiamo dei gatti e un gattino.
Prima di ritirarci io e Alessandra andiamo sul molo a guardare i lampi che ovunque illuminano il cielo, e, con la torcia elettrica, sulla strada buia a cercare i granchi, che però ormai saranno andati a dormire nelle loro tane. Anche noi ci ritiriamo nella nostra bella stanza, ma come dappertutto ci sono le zanzare. C'è anche un geco, ma poi nella notte si sente un forte gracidio. Non si può mai stare tranquilli; sembra di avere una rana dentro la stanza.



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MARE E RANE

2/3/2020

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Dove si deve fare la foto della gnocca sull'amaca e dove una rana viene catturata e rilasciata.
​
Giorno 7: 2 agosto Maria La Gorda

Foto
Ottima colazione con uova, frutta, pane burro e marmellata, affettati, wurstel, formaggi, succo di frutta, caffè e latte. Ci dicono che forse dovremo cambiare stanza, trasferendoci in una camera ancora più piccola di quella di Simona e Enzo, che costa però 30$. Poi non sarà vero; c'è qualcosa che ci sfugge nella gestione delle camere e delle prenotazioni.
Al mare facciamo nuovi bagni e prendiamo il sole sui lettini; le amache sono infatti già occupate, con grande disappunto di Simona, che deve fare le foto della “gnocca – che sarebbe lei – sull'amaca”. Noi riposiamo, mentre Enzo che si appassionato all'ornitologia fa un po' di birdwatching.
Al suo ritorno cerchiamo di ragionare sull'itinerario, ma Simona non sa come va a finire la laboriosa discussione, perché improvvisamente deve andare a tagliarsi le unghie...
Il pomeriggio di nuovo si annuvola e poi viene a piovere. Riposiamo e guardiamo la tv.
A cena di nuovo il solito menù, qualche attesa per alcuni piatti, e inoltre ci tocca mangiare all'interno perché fuori piove ancora. Troviamo comunque il modo di dare da mangiare ai gatti già conosciuti ieri sera. Parliamo con Telè (che ha un figlio di sei mesi che si chiama Michelangelo, “como el pintor”) per metterci d'accordo per l'escursione di domani. Costa 10$ per ciascuno. C'è da fare anche qualche piccolo pezzo di arrampicata, una piccola ferrata, e bisogna camminare su rocce taglienti. Di conseguenza sono preoccupato. Speriamo bene.
Rientriamo in stanza, dove c'è ancora lo strano gracidio che ci ha svegliato la notte prima. Stavolta ci diamo da fare per appurare la fonte del rumore e finiamo per scoprirlo: c'è una rana in camera, sotto il nostro letto. Non sappiamo che fare, così andiamo a chiamare Enzo, il nostro etologo animalista. Enzo e Simona si prestano divertiti, staniamo il piccolo ma rumoroso batrace (che adesso si guarda bene dal gracidare) da sotto il letto, Enzo lo cattura delicatamente e lo liberiamo, intimidito, su un prato.
Siamo liberi, forse stanotte si dorme tranquilli. Nella notte sentiamo un forte gracidio, ma nella stanza ormai oltre a noi non c'è più davvero nessuno.



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CUBA MARINA E CUBA BUCOLICA

2/2/2020

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Dove facciamo un'escursione con Bruce Lee e con un vikingo, dove si cattura un serpente, si cammina su una scogliera lunare, si evita una buca letale, si danno sei passaggi, ci si addentra nella campagna cubana; e dove Alessandra sembra uscita da un film dell'orrore.

Giorno 8: 3 agosto MARIA LA GORDA – VIÑALES

Foto
Sveglia elle 7.30, colazione alle 8, partenza alle 8.30. Telè recupera gli altri tre escursionisti del nostro gruppo, che sono un giapponese che ribattezza subito Bruce in omaggio a Bruce Lee (Enzo si presenta come Jean-Claude Van Damme) e una coppia inglese, lei una bionda cool e lui una sorta di macho in stile vichingo. Io mi sono equipaggiato puntigliosamente: pantaloni lunghi antigraffi e antizanzare, scarpe chiuse per camminare sulle rocce, cappellino contro il sole, fazzoletto da collo, che poi fisserò al capellino per proteggermi il collo, stile legione straniera, forse in versione leggermente fantozziana. Gli altri sembrano tutti molto più disinvolti.
Camminiamo prima sulla spiaggia bianca, tra conchiglie e coralli, poi nella boscaglia. Telè ci mostra e ci nomina piante e uccelli (tra cui i diffusi avvoltoi a testa rossa), ma Enzo lo batte negli avvistamenti. I granchi sono uno spettacolo a sé: ce ne sono di piccoli, di giganteschi, di rossi.
Io avvisto un serpente, lungo almeno un paio di metri; l'aitante vikingo in infradito lo cattura a mani nude, lo maneggia e lo usa come trofeo per le foto ricordo. Stessa sorte capiterà ad un granchio gigante.
Attraverso un terreno paludoso, infestato da nugoli di zanzare, arriviamo ad una scaletta di ferro che ci permette di superare una paretina di rocce: al di sopra è una distesa frastagliata di roccia grigia, tagliente e metallica sotto il sole. Con un fondo di bottiglia di plastica beviamo dell'acqua dolce raccolta da una cavità dove si raccoglie naturalmente, poi affrontiamo la traversata della distesa lunare. Alla fine bisogna discendere un'altra piccola parete rocciosa a picco verso il mare. Non è abbastanza alto per darmi le vertigini, ma abbastanza per darmi la paura di cadere. Rimango ultimo e Telè mi istruisce alla discesa.
Ci troviamo su una spiaggetta semi-deserta. Facciamo il bagno, abbiamo portato le maschere le maschere, ma non si vede quasi nulla di interessante. Arriva un gruppo di ragazzi e ragazze cubani: dicono che studiano le tartarughe; intanto pescano un bel pesce giallo, nero e azzurro.
Risalire la paretina risulta più facile. Facciamo il percorso all'inverso, ma evitiamo la palude costeggiando il mare. La strada è comunque lunga e il sole cocente.
Torniamo che è quasi la 1.30; per le 14 dobbiamo essere pronti per il check out. Il gruppo si disperde, noi facciamo la doccia, prepariamo i bagagli e usciamo. Paghiamo il conto, che per i (nostri) standard cubani è abbastanza salato: 40$ al giorno la stanza, 15$ per ogni cena, 5$ per ogni colazione e 10$ a testa per l'escursione.
La macchina è rovente, ma si parte comunque, imboccando la strada verso Pinar. La strada è piena di buche (una è tremenda: ma anziché ripararla hanno impiegato le risorse per mettere un cartello stradale ufficiale che raccomanda di stare attenti, altrimenti si scassa la macchina), ma migliora progressivamente e mi sembra più interessante di quanto mi fosse parso all'andata, forse perché ora il tempo è migliore. La strada si snoda nella boscaglia, poi attraversa un lussureggiante paesaggio con prati, campi, palme reali e altri begli alberi, piccole colline, villaggi e case isolate, fienili col tetto di paglia, stagni e animali.
Diamo altri sei passaggi. Una signora e poi un'altra, una ragazza carina con fratello (siamo in sei), un uomo, una nonna con nipotino foruncoloso che frigna quando deve stare in braccio ad Alessandra, e una signora distinta con capelli lunghi e grigi. Anche lei è un ingegnere agronomo, e le chiediamo se conosce Servilio (chissà se ha ritrovato i suoi occhiali; noi comunque non li abbiamo rubati). Ci parla della coltivazione del tabacco, che si coltiva proprio in questa zona, e per ringraziamento ci regala un avocado, che però per nostra negligenza marcirà in macchina e verrà mangiato dai maialini di Viñales, dove siamo diretti, in un entroterra bucolico.
L'ultimo tratto di strada scorre in un bel paesaggio, tra pianure e montagne verdeggianti. Ci fermiamo all'inizio del paese e chiediamo ad una casa segnalata dalla guida: non ha posto, ma interviene la dirimpettaia che dice che c'è posto da sua madre. In effetti sembra che ci siano una cinquantina di affittacamere e non molte case in più. Ci accompagna. E' una camera unica, con due letti matrimoniali, due ventilatori, ecc.; il prezzo è di 15$ per tutti e quattro, più sei ciascuno per la cena e due per la colazione. Accettiamo, anche perché dobbiamo ammortizzare l'esborso per Maria La Gorda.
E' una famiglia simpatica, composta da una signora schietta, un marito serio ma simpatico, una figlia dall'aria in gamba, un genero cerimonioso (“vogliamo che vi sentiate come a casa vostra”) e un figlio più giovane.
Alessandra rimane in camera, devastata dalle zanzare “come in un film dell'orrore” (espressione che fa ridere Simona, ma in effetti raramente le zanzare la pungono e io non l'ho mai vista così conciata); io esco con Enzo e Simona, passiamo per la piazzetta della chiesa, visitiamo la Casa della Cultura (ci sono quadri esposti, un teatrino, tavoli decorati con conchiglie), e poi ci fermiamo a bere mojito al bar “3 bicchieri”.
Rientrati a casa, ci sediamo a tavola per la cena, con un menù ottimo, abbondante e vario con pescado, riso e fagioli, verdure e avocado, malangas fritte e cotte, e una quantità di frutta (polpelmo, ananas, papaya e un frutto dal sapore di amaretto di cui non ricordo il nome). Cominciamo a scoprire che la cucina casalinga cubana è inaspettatamente più ricca, varia e gustosa di quella che lasciavano sinistramente presagire le guide che avevamo letto - in cui si profetizzava che avremmo mangiato quasi esclusivamente riso e fagioli (spiritosamente ribattezzato dai cubani moros y cristianos, ispirandosi ai colori degli ingredienti) e carne di pollo e maiale – e migliore di quella dei paladar, cioè i ristoranti privati autorizzati dallo Stato, che sono risultati spesso deludenti.
Alla tv danno notiziari con servizi della Cnn Espanol, ma tagliati al punto giusto.
Facciamo ancora un giretto verso il centro, poi andiamo a dormire.



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UNA GITA IN CAMPAGNA

2/1/2020

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Dove saliamo su un mogote, facciamo la conoscenza degli aquaticos, impariamo un famoso detto francese, facciamo una gita in barca tra i pipistrelli, degustiamo frutta in giardino, troviamo una foto di Gardel e chiacchieriamo con dei musicanti.

Giorno 9: 4 agosto – VIÑALES e dintorni

Foto
Ci svegliamo al canto del gallo, cioè molto presto. Anche questa non è stata una notte tranquilla, rifugiato sotto le lenzuola per sfuggire alle zanzare e ai ventilatori. Dopo una colazione buona e abbondante a base di uova fritte, burro, frutta, succo, caffè e latte, partiamo per un giro in macchina.
Facciamo una prima sosta al mirador dell'Hotel Los Jazmines, da dove si gode di un panorama molto bello sulla valle e sui mogotes, delle alture verdeggianti a forma di pandoro che caratterizzano il paesaggio della zona di Viñales.
Riscendiamo quindi in paese, prendiamo la direzione per Moncada, ci fermiamo a guardare da lontano il grande mural de la prehistoria dipinto su una parete di roccia, e proseguiamo.
Un vecchio sdentato ci indirizza verso la passeggiata per il villaggio di Los Aquaticos. Ci trova una sistemazione per la macchina, vicino ad una casa di campagna, ci racconta di avere una mano inferma per un colpo di machete subito durante la raccolta della canna da zucchero, e infine ci chiede 3$ per comprarsi un paio di scarpe. Gliene diamo due, con successivo dibattito tra noi.
Ci incamminiamo attraversando una campagna popolata da porcellini e cominciamo la salita sul mogote, che si svolge per lo più sotto il sole. Alla prima casa degli Aquaticos (ma il primato è conteso) ci invitano ad entrare, ma rimandiamo e tiriamo oltre. Il sentiero però prosegue, con tratti fangosi, poche viste e poco costrutto. Desistiamo dall'andare più avanti di fronte ad una mucca loca che ci sbarra la strada muggendo e che sembra avere tutta l'aria di impedirci di passare. Arrivano anche quattro francesi e un paio di ciclisti senza bici, ma noi torniamo indietro fino alla prima casa. Gli abitanti ci offrono una limonata. Ci chiediamo con quale acqua sia fatta e se possiamo fidarci a berla,a ma si sa che gli Aquaticos - che si dicono discendenti dei tainos e hanno una religione tutta loro - si curano con l'acqua e non come le medicine (“però sono brave persone” concede il vecchio sdentato, una fonte di saggezza, di cui adotteremo per tutto il resto della vacanza anche l'espressione “No hay problema, come dicono i Francesi”). Facciamo anche conoscenza con bambino Ousman, con i gattini che ci porta, con un cane dalle gambe storte; intanto il maestro sale al villaggio, il padre lavora e la figlia, una dodicenne molto graziosa, si tiene nell'ombra.
Scendiamo, sotto il sole, facciamo sbollire un po' la macchina e ripartiamo. Dopo Viñales, in direzione di Puerto Esperanza, visitiamo la Cueva dell'Indio. Facciamo il biglietto (54, ci cambiano i 100 con difficoltà) e ci incamminiamo nelle grotte. Ci sono altri italiani, e pipistrelli. Poi si sale una barca nei laghetti sotterranei, dove si vedono rocce che somigliano a caravelle, coccodrilli, serpenti, e ad altri animali e forme fantastiche.
Torniamo a casa, poi andiamo a visitare l'orto botanico di Viñales. Il tempo è grigio, però la ragazza che fa da guida è simpatica e il giardino bello. Ci mostra e ci insegna i nomi e le proprietà di frutti, fiori e piante, poi, davanti alla vecchia proprietaria della casa e ad un'altra signora, degustiamo la squisita frutta del giardino.
Per uscire attraversiamo stanze tappezzate di ritagli di vecchi giornali e di foto, che attirano la mia curiosità. Mi fermo a guardare una foto incorniciata in un portaritratti, e mi dicono che è Carlos Gardel, il più grande compositore di tanghi argentini. Ci affacciamo anche al giardino della Garden House, dove c'è una bimba molto graziosa. Gli chiediamo quanti anni ha, e lei dice quattro, però poi aggiunge “ma mas uno cinco, mas dos seis...”. Arriva dall'autobus, gocciolando, anche Marco, un italiano che ha sposato una cubana.
Beviamo un mojito al Decimista: ci sono bei tavoli e sedie in ferro battuto, lucertole e anche un trio musicale, con un cantante che ha gli occhi da pazzo e una faccia buffa, ma anche una voce bella e potente (“Quisas, quisas, quisas”). Sono bravi e simpatici, ma noi rimaniamo un po' male perché siamo il solo loro unico pubblico. Diamo un contributo per la musica, finiamo a chiacchierare con i musicisti e Simona è definitivamente conquistata quando viene definita una “chica muy graciosa”.
Torniamo a casa, mangiamo ancora bene, poi usciamo di nuovo per un altro giretto in centro. La discoteca – in stile country-cubano, s'intende - diffonde musica, ma è ancora presto e ci siamo solo noi e un po' di bambini...

Continua: per passare al giorno 10 clicca qui sotto su "Precedente".

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    Tutta Cuba in 33 giorni, da Maria La Gorda a ovest a Baracoa all'est, da L'Avana a nord a Santiago a sud, attraversando tutte e 14 le provincie dell'isola (tranne la quindicesima, l'appartata Isla de la Juventud).
    Nel 2001: un viaggio off line di Mauro e Alessandra.
    ​Nulla se non quello che abbiamo visto, sentito, incontrato e vissuto di persona.
    Un racconto, me ne rammarico, senza illustrazioni: la macchina fotografica aveva un problema di sovraesposizione che rende inutilizzabili la maggior parte delle foto fatte sulle spiagge, e le diapositive giacciono in qualche scatolone in cantina, in attesa che dei posteri volonterosi le digitalizzino...

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